Medioevo
Storico
La
donna e la famiglia
Prefazione
Verso
l'XI secolo la concezione della società cristiana non assegna nessun posto
specifico alle donne. Si gerarchizzano "ordini" o
"condizioni" (cavalieri, chierici, contadini), ma non si prevede per
la donna nessuna "condizione femminile" anche se, gli uomini del
Medioevo, a lungo hanno concepito "la donna" come una categoria. Solo
in seguito hanno fatto intervenire distinzioni sociali ed attività
professionali per conferire delle sfumature ai modelli di comportamento che le
proponevano. Prima di essere contadina, castellana, santa "la donna"
è stata caratterizzata in base al suo corpo od al suo sesso, alle sue relazioni
con i gruppi familiari. Sia che esse siano spose, vedove o vergini, la
personalità giuridica e l'etica quotidiana è stata disegnata nel rapporto con
un uomo od un gruppo di uomini.
Quest'articolo
eviterà di contrapporre in una galleria di ritratti, le molteplici figure che
le donne, nel corso di mezzo millennio, hanno assunto nella scacchiera sociale.
Cercherò di situarle nella cornice che i contemporanei assegnavano loro di
primo acchito, nel complesso delle costrizioni che la parentela e la famiglia
hanno imposto all'affermazione delle donne, come individui dotati di piena
personalità giuridica, morale ed economica.
L'Alleanza
matrimoniale.
Nel
Medioevo il rapporto dell'alleanza matrimoniale ha, alla sua origine, una
"pace". Al termine di un processo di rivalità, a volte di una guerra
aperta, tra famiglie, instaura e sigilla una pace. Concedere la mano di una
donna al lignaggio con cui ci si riconcilia, pone la sposa al centro
dell'intesa. A questo pegno, e strumento di concordia, si assegna un ruolo che
oltrepassa il suo destino individuale e le sue aspirazioni personali.
Mantenere
l'alleanza fra i due gruppi evitando qualunque comportamento reprensibile,
operare
alla perpetuazione del lignaggio in cui entra procreando per esso, assicurargli
fedelmente l'uso del suo corpo e dei beni che gli porta: ecco ciò che si impone
alla donna con una forza forse maggiore dei doveri verso il marito. Ci sarà
bisogno di una lenta maturazione della riflessione, nata negli ambienti
ecclesiastici, sui fondamenti dell'unione coniugale, ci vorranno anche
sconvolgimenti economici e sociali molto profondi affinché, in questa rete di
costrizioni, compaia l'immagine della coppia e perché, in seno alla coppia, si
delinei la figura della "buona moglie".
Non
mancano gli esempi di matrimoni che, utilizzando le donne, instaurano o
restaurano dei legami di amicizia fra due lignaggi. I primi a ricercare simili
unioni sono certamente i capi stessi della cristianità: un re di Francia,
Enrico I, nel secolo XI, va a cercarsi una sposa nel lontano principato di Kiev,
in Russia.
Ad
un grado ancor più basso della gerarchia sociale, negli ambienti patrizi
cittadini dei secoli XIII – XIV, vecchi odi ed interminabili vendette, si
concludono allo stesso modo con uno scambio di donne, mentre, simmetricamente,
guerre, private o no, divampano talvolta quando l'unione fallisce. A Firenze,
verso il 1300, la parte bianca si amalgama attorno all'unione, conclusa nel
1288, fra un Cerchi ed una Adimari, unione che pose fine ad una vecchia
inimicizia, mentre il disaccordo del capo dei Neri con la prima moglie, per
l'appunto una Cerchi, e poi il suo secondo matrimonio con una cugina, ricca
ereditiera presa nel partito opposto, riaccendono le passioni e la guerra
civile.
Qualche
anno dopo, nel 1312, un altro fiorentino, Giotto Peruzzi, riporta nel suo Libro
Segreto la parte con cui ciascun membro del suo lignaggio deve contribuire al
pagamento dell'enorme dote che, sua figlia, porterà agli Adimari, famiglia
nemica con cui i Peruzzi hanno concluso una pace solenne. Anche qui, spostata
sulla scacchiera di famiglia, la donna garantisce il rispetto dell'accordo; è
il simbolo stesso della pace.
Nel
contempo si vanno diffondendo le parole di Sant'Agostino, che
assimila l'obbligo di sposare persone con cui non si hanno vincoli di
parentela, ossia l'ingiunzione di esogamia, alla necessità di garantire il
vincolo sociale, di fondare la coesione della società sulla "carità"
e l'amore che, due persone unite in matrimonio, si devono a vicenda; le
solidarietà del sangue, al contrario, rischiano di mettere gli uni contro gli
altri gruppi familiari troppo chiusi in se stessi.
L'aspirazione
alla pace, l'obbligo di scambiare delle donne, non hanno le stesse implicazioni
per gli uomini di chiesa e per la società laica. I primi escludono qualunque
matrimonio tra parenti troppo vicini, mentre
la seconda crede che possa, al contrario, rappresentare un
incoraggiamento. Il conflitto tra i due atteggiamenti scoppia a proposito dei
matrimoni reali e principeschi, alla fine del secolo XI. Con l'andare del tempo
la Chiesa mitigherà il suo atteggiamento; nel 1215 il IV Concilio Laterano
porta il divieto esogamico dal settimo grado di parentela, al quarto; si potrà
ormai sposare la discendenza di un quadrisavolo comune. In compenso, il più
umile cristiano non potrà più fingere di ignorare i suoi rapporti di
parentela: la Chiesa mette in opera un mezzo per rafforzare il suo controllo sul
carattere lecito dell'unione istituendo le pubblicazioni di matrimonio da farsi
in precedenza per esser sicuri che "l'incesto" non aspetti al varco i
fidanzati poco informati.
Giuramento
o promessa di pace, il matrimonio impegna anche lo statuto e l’onore delle
famiglie. Che diano, o che ricevano, una donna esse valutano, naturalmente, la
considerazione ed i vantaggi materiali che ricaveranno dall’unione. Bisogna
notare che la donna data in sposa, spesso, nel medesimo tempo, è soggetta ad un
doppio spostamento: un movimento di traslazione, che la porta a casa di suo
marito a cui si aggiunge uno spostamento verticale (verso l’alto od il basso
della scala sociale). Si è potuto notare che le strategie matrimoniali più
correnti nella classe cavalleresca nei secoli XI e XII, o nelle aristocrazie e
borghesie cittadine dei secoli XIV e XV portano i padri a scegliere per nuore
ragazze di nascita più elevata. Una gran parte, forse la maggioranza delle
donne, si trova così declassata dal matrimonio, data a mariti inferiori per
sangue o per posizione a cui dovranno, tuttavia, obbedienza.
Il
passaggio di una donna da un lignaggio ad un altro non comporta solamente il
transfer fisico, ma anche quello di ricchezze. L’onore delle famiglie si muove
su due piani. Per essere socialmente riconosciuto il matrimonio esige, in
effetti, qualunque sia l’ambiente, l’epoca ed il sistema giuridico in
vigore, che dei beni, per piccoli che siano, vengano trasferiti da un gruppo
all’altro quando si prepara e poi si realizza la cessione della donna. Durante
l’alto Medioevo questi beni erano dati dal marito o dalla sua famiglia a
quella della sposa in “compenso” della perdita che questa famiglia subiva
cedendo una delle sue figlie. In seguito sono dati alla sposa stessa che, come
contropartita, continua a portare in casa del marito effetti, beni immobili,
somme di denaro che concede allo sposo o restano in suo possesso. Così sarà
assicurato il suo mantenimento dopo la morte del marito. Ma l’intento riposto
di tali scambi di prestazioni e controprestazioni, sta in altro: essi tendono a
legare molto saldamente le due famiglie impegnate nel gioco di doni e di ricambi
che, sapientemente graduati, significano la loro amicizia, mentre, al tempo
stesso, specificano le loro rispettive posizioni sociali.
A
partire dal secolo XII la dote portata dalla donna si accresce od assume un
po’ alla volta più consistenza rispetto alla dote maritale od ai doni e gli
apporti del marito; alcuni di questi ultimi sono anche soppressi d’autorità,
come la “tertia” (che era il diritto della vedova sul terzo dei beni del
marito) abolita nel 1143.
Le
ragioni di una tale “espropriazione” ai danni delle donne sono complesse.
Spesso si accampa come motivo che, la feudalizzazione dei rapporti con la terra,
esclude le donne dalla trasmissione dei beni, castelli e feudi. Negli ambienti
cittadini, che vivono di commercio e di artigianato, la chiusura corporativista
dei mestieri riserva attività e responsabilità ad individui di sesso maschile.
Il fatto di ricevere una dote consente di privarle dell’eredità, del
patrimonio vero e proprio: esse vi rinunciano in favore dei fratelli e, una
volta maritate, abbandonano il controllo attivo su beni che, teoricamente, sono
di loro proprietà. Con molte varianti legate alla ragione od alla consuetudine,
il senso dell’evoluzione è un po’ dappertutto lo stesso: le donne sono
molto meno padrone delle ricchezze, alla fine del Medioevo, di quanto non lo
fossero in epoche più antiche. Il deteriorarsi della loro funzione economica e
della loro capacità di amministrare la propria fortuna non manca di tradursi in
un “deprezzamento” del loro “valore”. La misoginia, che impregna tanti
testi nei tre ultimi secoli del Medioevo, ha certo ben altre ragioni che il
declino della loro posizione patrimoniale e giuridica. Tuttavia, causa ed
effetto ad un tempo di questo clima ostile, il rifiuto di lasciare accede le
donne alla libera disposizione dei beni registrati a loro nome, la limitazione
perfino delle ricchezze che potevano ricevere, hanno contribuito alla diffusione
dei luoghi comuni sfavorevoli a loro riguardo ed alla generalizzazione di
atteggiamenti convenzionali piuttosto diffidenti e negativi.
In
buona parte dell’Europa urbanizzata le famiglie si lasciano trascinare, alla
fine del Medioevo, in una vera e propria spirale inflazionistica delle doti,
fonte di nuove recriminazioni maschili. Se le famiglie cedono a quest’andazzo,
di cui fanno ricadere la responsabilità sull’avidità e la vanità femminile,
è perché la dote, e le altre prestazioni legate al matrimonio, permettono loro
di affermare la propria posizione sociale e di ottenere il riconoscimento di
questo statuto dalla collettività. Per le donne, accompagnate ad uno sposo da
una dote spesso senza speranza di una contropartita, la conseguenza di questa
evoluzione, in termini mercantili, è che maritarle costa molto caro.
Quest’investimento, senza compenso, non raddolcisce lo sguardo dei maschi
della famiglia che devono provvedere alla loro sorte. Ad ogni unione si paga
l’onore delle famiglie; ma, senza esagerare, si può dire che, gli uomini
impegnati alla ricerca di quest’onore, hanno fatto pagare alle donne un duro
prezzo.
Quest’onore,
d’altra parte, non risiede soltanto nella potenza materiale e nel prestigio
del lignaggio: ha una forte componente sessuale e dipende anche dal
comportamento delle donne, attraverso cui il rapporto di affinità si realizza.
Mentre si afferma il principio di successione in linea maschile, viene anche
ripresa la discussione delle teorie mediche ereditate dall’Antichità sul
carattere, attivo o passivo, della funzione femminile nella concezione. Per
molti, il “sangue paterno” deve mantenere tutta la sua purezza nella donna
fecondata, che si limita a portare a maturazione ed a modellare il bambino. Ogni
buon lignaggio teme che un sangue estraneo s’introduca in lui a sua insaputa.
I figli di un uomo nati al di fuori del matrimonio inceppano, certo, il delicato
meccanismo delle eredità; ma sono ben individuabili. I figli adulterini di una
moglie, tanto più pericolosi quanto più la loro madre sa nascondere il
“delitto”, sono nati da una frode e, quando sopravvivono, incorrono nel
doppio biasimo di essere nati dal peccato della carne e del tradimento della
madre verso la famiglia in cui è entrata. La fedeltà sessuale delle donne è
proprio al centro del dispositivo familiare: il loro corpo richiede una
sorveglianza impeccabile per evitare delle azioni fraudolente che
danneggerebbero il gran corpo del lignaggio.
Il matrimonio e la fecondità della
coppia
Le
donne maritate, sistemate nella scomoda situazione di unioni spesso disuguali,
devono lealtà e devozione agl’interessi delle due famiglie che, per loro
mezzo, si sono imparentate. Simili esigenze possono entrare in conflitto con
l’affetto e l’obbedienza che devono anche al marito, dato che intervengono
qui le idee che la gente di chiesa si fa dell’accordo coniugale. Verso la fine
del Medioevo, la coscienza che prendono i laici intacca l’obbedienza al
lignaggio.
Finché
è ragazza, si chiede alla donna di obbedire senza fiatare al padre, al fratello
od al tutore, tacendo le intime aspirazioni per accettare l’uomo che le hanno
scelto. Ma la Chiesa interviene per dissuadere dallo sposare una cugina, insiste
anche, con voce sempre più ferma dalla fine del secolo XI in poi, sulla
necessità di ottenere in buona e debita forma il consenso dei giovani sposi
e di non farli sposare ad un’età in cui il loro consenso non avrebbe
alcun valore. Per lei, la fondazione di una nuova famiglia può aver luogo solo
nel rispetto della libertà dei contraenti che, in primo luogo, non sono i
lignaggi ma futuri sposi. Questo spostamento del punto di vista determina,
almeno in teoria, una notevole rivoluzione: accorda alla donna lo stesso posto
del marito nella somministrazione del sacramento matrimoniale.
Generare
dei buoni eredi: ecco la grande sfida che le famiglie devono raccogliere in
un’epoca in cui la morte colpisce duramente e spesso. Il cuore della casa
medievale è la camera, dove la donna se ne sta, lavora, concepisce, partorisce,
e dove morirà.
La
chiave che immette la donna nel ruolo di genitrice è il matrimonio. Si ha
l’impressione che, durante l’Alto Medioevo, l’età degli sposi alle loro
prime nozze fosse molto simile; fa eccezione, senza dubbio, l’aristocrazia, in
cui le ragazze venivano maritate in età molto tenera. Nel periodo centrale del
Medioevo si verifica senz’altro un rovesciamento; da un capo all’altro
dell’Europa: le ragazze, appena adolescenti, vengono date ad un marito
decisamente maggiore d’età. In Fiandra o in Inghilterra, in Italia, nella
Francia del 1200, l’aristocrazia ed il patriziato cittadino maritano le figlie
appena raggiunta l’età dello sviluppo. Un’età che varia tra i dodici ed i
tredici anni (età che, secondo il diritto canonico, consente d’impegnarsi nel
vincolo matrimoniale o di pronunciare dei voti monastici), torna sotto la penna
degli agiografi delle sante che, è vero, sono nella grande maggioranza nate da
buone famiglie. Più rare sono, prima del secolo XIV, le informazioni relative
al matrimonio nelle classi rurali e popolari, anche se parrebbe che, anche in
queste, l’età delle ragazze al loro primo matrimonio fosse di rado al di
sopra dei diciassette o diciotto anni, nonostante la pressione demografica
spingesse a ritardare un poco il matrimonio.
Dalla
fine del secolo XII in poi, gli uomini, per parte loro, sembrano farsi prendere
nella “rete del matrimonio” ad un’età più avanzata di prima. I rampolli
della classe cavalleresca ne danno l’esempio, aspettando di essere installati
in un feudo, di avere ereditato o scovato l’ereditiera che permetterà loro di
sistemarsi. Le informazioni sono ugualmente rare sugli usi seguiti nelle altre
classi prima del secolo XIV.
L’informazione
si fa più ricca dopo la peste nera, nella seconda metà del secolo XIV e nel
secolo XV. Censimenti più frequenti, che troppo di rado presentano la ricchezza
e l’omogeneità dei “catasti” fiorentini del secolo XV, lasciano tuttavia
capire qual è l’età media matrimoniale. Per le donne è inferiore a diciotto
anni, con una tendenza fra i contadini ed il proletariato urbano, ad aumentarla
di uno o due anni e, presso i ricchi, a portarla verso i quindici anni. La
letteratura familiare dei diari, soprattutto toscani, permette infine di
calcolare con certezza l’età matrimoniale femminile: nella borghesia
fiorentina, tra il 1340 e il 1530, circa 136 giovani spose si sono maritate ad
un’età media di 17,2 anni. Le variazioni su questo lungo periodo sono
modeste, anche se è sensibile la tendenza a ritardare un poco le nozze: verso
il 1500 le Fiorentine, in media, si maritano un anno dopo rispetto a quel che
avveniva prima del Quattrocento.
Calcoli
analoghi, eseguiti su un gruppo, altrettanto consistente di giovanotti,
provenienti dalle stesse famiglie di borghesia mercantile, ce li presentano di
un’età media superiore ai ventisette anni al momento della celebrazione delle
loro prime nozze. Quest’età subisce oscillazioni più marcate di quella delle
ragazze: per esempio, dopo le crisi di mortalità, si abbassa, e nell’ultimo
terzo del secolo XV segue una curva opposta a quelle delle donne. Tuttavia il
fatto importante è che una buona decina d’anni, quasi costantemente, separa i
due sessi.
Un
uomo che si avvicina ai trent’anni, un adulto, porta dunque nella sua casa
un’adolescente: questa è la situazione asimmetrica del Basso Medioevo, una
situazione che ricorda stranamente i costumi romani dell’età classica. Dalla
lettura moralistica e nei trattati di economia domestica riemergono ammonimenti
direttamente ispirati alla Politica di Aristotele od all’Encomio
di Senofonte. Razionalizzando le pratiche del loro ambiente e del loro tempo
uomini come L. B. Alberti nei suoi Libri della famiglia, erigono a
modello i fatti: l’uomo aspetterà di aver raggiunto la pienezza dell’età
perfetta prima di maritarsi, la donna, al contrario, sarà data giovane
fanciulla, ad uno sposo, perché non abbia a “pervertirsi” nell’attesa del
matrimonio: <<ché (le donne) divengono viziose quando non hanno quello
che la natura richiede>>. Alcuni deplorano un’evoluzione che che
giudicano e che ha portato i contemporanei a cedere le figlie ad età sempre più
precoce. Tutti convengono, tuttavia, nell’affermare che, per meglio imporre la
propria autorità in famiglia e generare figli più belli, l’uomo troverà un
vantaggio nel ritardare il momento delle nozze. Un’età ritardata per il
matrimonio (che continuerà a caratterizzare la popolazione dell’Europa
occidentale nell’epoca moderna) sembra dunque, tra il Duecento ed il
Quattrocento, al tempo stesso la pratica e la norma della sola parte maschile.
La
proporzione di prime nascite, quasi inesistente, avvenute nelle famiglie
fiorentine prima dell’ottavo mese successivo al matrimonio, sta ad indicare il
rigore della sorveglianza esercitata, dalle famiglie, su queste ragazze
giovanissime, che, talvolta, vedevano il promesso sposo solo il giorno in cui
dovevano ricevere l’anello nuziale. Ma, simmetricamente, lo scarto
relativamente pronunciato fra le nozze e la prima nascita dimostra che questi
adolescenti non avevano certo raggiunto una maturità fisiologica sufficiente
per restare subito incinte, il che non impediva del resto ai mariti di iniziarle
alle vita coniugale. Ma, dopo il primo bambino, gravidanze e nascite si tenevano
dietro con ritmo accelerato. Così a ventinove anni, nel 1461, una borghese di
Arras restò vedova dopo aver messo al mondo dodici figli in tredici anni di
matrimonio. Nulla di straordinario in questo: i rari diari francesi e le
numerose “ricordanze” italiane portano, fra il Trecento ed il Quattrocento,
numerosissimi esempi di questa fecondità molto spiccata che caratterizzava,
almeno, le donne degli ambienti agiati.
Una
Fiorentina di buona famiglia, che si fosse sposata a diciassette anni e che non
avesse perduto il marito prima dell’età della menopausa, avrebbe potuto
mettere al mondo una media di dieci figli prima di raggiungere i trentasette
anni, ossia un figlio in più delle contadine francesi dell’epoca moderna, che
si sposavano tra i sette ed i dieci anni più tardi delle italiane di città.
Maritare sistematicamente le ragazze molto giovani ha, dunque, un sensibile
effetto sul livello complessivo della fecondità e sul numero totale delle
nascite. Le famiglie cercavano più o meno consapevolmente, abbassando l’età
matrimoniale, di colmare le terribili brecce aperte dalla mortalità
dell’epoca.
Tuttavia
le loro speranze erano piuttosto fragili, perché, anche nelle famiglie protette
come quelle della borghesia di una delle più ricche città d’Europa, molte
unioni erano prematuramente spezzate, ed il numero dei figli procreati inferiore
alla decina, indicata per le coppie dotate di longevità. In complesso, le
coppie fiorentine, colpite o no dalla morte prematura di uno dei coniugi,
mettevano al mondo una media di sette figli; cifra ancora notevole, ma in questa
discendenza rapidamente decimata, pochi sopravvivevano ai genitori.
Importante
è sottolineare che le gravidanze occupavano circa la metà della vita delle
donne maritate prima della quarantina. In alcune famiglie di notabili del
Limousin francese, anch’esse ben note attraverso i loro diari, l’intervallo
medio tra due nascite è di circa ventuno mesi. E questa è anche la media
fiorentina calcolata su 700 nascite in famiglie così agiate. Cade anche al di
sotto dei diciotto mesi se si eliminano gli scarti eccezionali dovuti
all’assenza del marito per ragioni d’affari, o se si considerano le sole
coppie che percorrono tutto l’arco della loro fertilità naturale. Nel caso
fiorentino le concezioni si succedevano più rapidamente che non due o tre
secoli dopo. Praticamente ciò significa che la gestazione conclusa col parto e
con la purificazione, costituiva condizione abituale di una donna, nove mesi su
diciotto.
Altra
conseguenza: per metà della sua vita coniugale, in teoria, la coppia non
avrebbe dovuto avere rapporti per paura di danneggiare il feto, per lo meno a
partire dal momento in cui questo si muoveva: violare questa regola non era
forse più di un peccato veniale, dal tempo di Alberto Magno in poi, verso la
metà del Duecento; tuttavia era pur sempre peccato. Se la madre allattava, la
coppia avrebbe dovuto comunque astenersi, perché la nascita di un altro bambino
rischiava di abbreviare l’allattamento, e dunque la vita, del fratello
maggiore. Le coppie, però,
rispettavano ancora queste proibizioni antichissime? E’ difficile giudicare. I
contemporanei richiamano talvolta degli antichi tabù, che sembrano ancora agire
ma che riguardano piuttosto il pericolo dei rapporti sessuali durante i cicli
femminili: il grande predicatore Bernardino da Siena (vedi nota 1) ed il
mercante Paolo da Certaldo ricordano che, l’uno alle donne e l’altro agli
uomini, <<se si generassero in tal tempo, nascono poi figlioli mostruosi o
lebbrosi>>, figli <<malatti o tignosi>>, >>e mai la
creatura generata in tal tempo, non è senza grande e notabile difetto>>;
la macchia ricadrà sul padre che non ha rispettatoli divieto: <<E anche
puoi fare male a te grandissimo…>>.
L’obbedienza
ai divieti religiosi è più evidente, e più direttamente misurabile, in ciò
che concerne l’osservanza dei <<dei tempi proibiti>>, cioè
l’Avvento e la Quaresima, in cui la Chiesa proibiva di celebrare le nozze e
raccomandava, senza farne un obbligo, la continenza. In Toscana, si possono
constatare dei vuoti significativi nella curva delle nozze di dicembre ed in
marzo, ed una diminuzione delle concezioni in tempo di Quaresima. Perlomeno
presso la gente di città, buon bersaglio dei predicatori, le ingiunzioni della
Chiesa venivano, dunque, ascoltate.
Le
coppie Medievali suggeriscono, infine, che non cercavano di evitare di concepire
ricorrendo ai diversi mezzi (pozione abortive, unguenti, preservativi,
incantesimi) a cui, secondo i loro clienti ed i loro giudici, facevano appello
prostitute e donne accusate di magia e di stregoneria. Tutti i Concili,
dall’Alto Medioevo al secolo XII, hanno rafforzato senza posa divieti e le
pene che colpivano i comportamenti indirizzati a prevenire o sopprimere una
nascita. A partire dal secolo XIII, la conoscenza dei trattati di medicina arabi
hanno forse diffuso in certi ambienti delle pratiche contraccettive; in ogni
caso la loro discussione porta i teologi ad attenuare un poco la severità delle
proibizioni. Certi non vietano più l’unione di una coppia sterile, od
ammettono il coitus reservatus: una coppia può dunque ricercare il
piacere e non solo la procreazione. Altri non assimilano più la contraccezione
all’infanticidio. Tuttavia, sino alla fine del Medioevo, i predicatori tornano
costantemente sul peccato mortale di un’unione sessuale <<contro
natura>>, che va contro <<la forma del matrimonio>>.
Bernardino precisa, rivolgendosi alle sue uditrici:
<<
Ode: ogni volta che usano insieme per modo che non si potrebbe ingenerare; ogni
volta è peccato mortale. Alla chiara, te l’ ho detto. […] Peggio fa costui
ad usare in tal modo, che colla madre propria col debito modo […]. E però, o
donna, impara questo stamane, e legatelo al dito: se tuo marito ti richiede di
nulla che sia peccati conto natura, non li consentire mai>>. Il solo caso
in cui la donna può e deve infrangere il suo dovere d’obbedienza verso il
marito, sia pure a rischio della vita, si verifica quando egli le impone
nell’unione carnale una posizione che <<rompe l’ordine di Dio>>,
facendo sì che la donna <<trasmutasi in bestia o vero in maschio>>,
e le impedisce di concepire.
Sodomitiche
o no le pratiche, <<contro natura>> degli sposi cristiani, sono
combattute da questi direttori di coscienza, perché attribuiscono ad esse fini
contraccettivi. Non pare, tuttavia, che tali rapporti abbiano avuto
un’incidenza percettibile sulla fecondità delle coppie del tempo!
Gl’intervalli medi tra le nascite restano molto costanti fino al penultimo
figlio, il che dimostra che i coniugi non cercavano di sottrarsi in misura molta
consistente, con un artificio o con l‘altro, al loro dovere di procreare.
C’è un mezzo perfettamente naturale e
legittimo di rallentare il ritmo delle nascite: lasciare che la madre allatti il
suo poppante. Ora, negli ultimi secoli del Medioevo, la nutrice, personaggio
familiare delle chansons de geste e dei romanzi cortesi, non è più
privilegio dei signori. Nel secolo XIV, le famiglie patrizie di Firenze ospitano
abitualmente una nutrice e, nel secolo seguente, si generalizza in tutta la
media borghesia l’uso di ricorrere ai servigi di una donna che sta in
campagna. Doppia conseguenza: le donne povere che allattavano a lungo il proprio
bambino, quando questi moriva, davano latte dietro compenso; così guadagnavano,
oltre ad un salario, la possibilità di ritardare una nuova nascita. I ricchi, i
possidenti in cerca di eredi che, al contrario, valorizzano le famiglie
prolifiche e la fecondità delle loro donne, possono ravvicinare le nascite dei
figli e, dunque, moltiplicarli. Del resto è proprio sotto i tetti dei più
facoltosi che, all’inizio del Quattrocento, si censiscono in Toscana le più
alte percentuali di bambini. Il letto della miseria è meno fecondo, allora, di
quello dei potenti.
Punteggiata di nascite, la vita feconda di
una donna adulta sposata prima dei diciotto anni, si conclude una ventina
d’anni più tardi. Tuttavia, di tutti i figli che ha messo al mondo, pochi
sono presenti sotto il tetto paterno. La maternità medievale è una sorta di
linea punteggiata. Le madri, che danno a balia fuori di casa i loro piccoli
subito dopo il battesimo, non li recuperano, se sono sopravvissuti, se non un
anno e mezzo o due anni dopo. Nell’intervallo, qualcuno dei fratelli maggiori
avrà potuto soccombere alle malattie od epidemie di peste che dissanguano
periodicamente la popolazione. Le enormi discendenze (dieci, quindici figli)
restano sulla carta degli storici della demografia. Nel quotidiano succedersi
delle nascite e delle morti, le case della fine del Medioevo ospitano in media
poco più di due figli viventi, come fanno vedere i censimenti, ei sopravvissuti
che il padre o la madre mettono nel loro testamento, di rado sono al di sopra di
questo magro bilancio.
I diari lasciano vedere che, nella classe
mercantile, almeno un quarto dei piccoli Fiorentini dati a balia, muore presso
la nutrice. Ma c’è di peggio: il 45 per cento dei figli messi al mondo in
queste famiglie facoltose, non raggiungono i vent’anni. La morte minaccia
allora una nuova vita e spia la madre che la dà alla luce.
Le partorienti muoiono, forse, più di rado di quanto di quanto spesso
non si dica durante il parto. Tuttavia, anche le donne ricche, attraversano uno
dei momenti più rischiosi della vita: una su tre delle mogli fiorentine che
muoiono prima del marito soccombe mettendo al mondo un bambino o muore per le
conseguenze immediate del parto.
Il fardello delle gravidanze e dei parti
sbocca così, solo una volta su due, sulla speranza di portare il bambino
all’età adulta. Si capisce l’accento di rassegnazione cristiana dietro cui
si trincerano i genitori che perdevano una volta di più un bambino, una
rassegnazione che, per la mentalità dei nostri giorni, ci spinge ad accusarli,
un po’ frettolosamente di insensibilità. Certo che, l’invio dei poppanti
subito dopo la nascita presso una balia lontana, non favoriva lo sbocciare del
sentimento materno o dell’interesse paterno: la notizia della loro morte, non
squarciava quel tessuto affettivo che crea la quotidiana osservazione dello
sviluppo del bambino. e di cui testimonia, spesso con forza, il dolore del padre
quando il bambino che vive in casa viene a mancare.
Al di fuori di certi ambienti privilegiati,
che sanno esprimere le loro speranze e le loro pene, le testimonianze dirette
sui rapporti tra genitori e figli sono rare. Nella stragrande maggioranza della
popolazione le madri allattano i loro neonati; tuttavia, numerose sono quelle
che si trovano costrette dalla miseria, dalla malattia, dalla pubblica
disapprovazione, ad abbandonare, più o meno in fretta, il loro bambino. Il
rifiuto del neonato sembra una pratica molto diffusa per lo meno nelle città.
La alimentano le gravidanze delle domestiche, libere o schiave, e la povertà,
cronica o legata a crisi di sussistenza: i miserabili lasciano all’ospizio
delle città i loro figli legittimi, cullandosi talvolta, nella speranza che li
riprenderanno più tardi e che l’ospizio potrà salvarli dalla morte meglio di
quanto non potrebbero loro. Tuttavia la mortalità è terribile nei primi ospizi
specializzati, come quello degl’Innocenti di Firenze. Abbandonare un bambino
significa senz’altro moltiplicare le sue probabilità di morire presto, anche
se c’è nei genitori
la speranza che, rimettendo a Dio ed alle anime caritatevoli la salute terrestre
del piccino, questi possa vivere più a lungo sulla terra
e garantirsi la vita eterna nell’aldilà. Fra i trovatelli, i bambini
di sesso femminile sono più numerosi: esiste una discriminazione che, fin dalla
nascita, accorda un leggero vantaggio ai maschi. Ma è difficile capire le
motivazioni inconsapevoli, mai spiegate dai biglietti attaccati ai cenci del
bambino, che spingono la madre od i genitori a privilegiare i maschi.
Se nascite, accolte a malincuore, incitano
numerosi genitori a rinunciare ai loro compiti educativi, la necessità di
allattare mette, anche, alla prova il loro senso di responsabilità verso i
neonati. Come si è visto, i dottori della Chiesa esortano i genitori alla
continenza nel periodo dell’allattamento. Il Clero mette l’accento anche su
un altro aspetto delle responsabilità dei genitori. Lottando con vero
accanimento, a partire dal secolo XV, contro l’”oppressione” dei poppanti,
soffocati nel letto dai loro genitori o dalla balia, ripetendo ai genitori che
essi sono allora colpevoli di un delitto di negligenza e, persino, sospetti di
premeditazione, curati e confessori hanno, evidentemente, risvegliato presso i
laici, che consideravano questi accidenti con indulgenza o con disinvoltura, la
preoccupazione salutare della sopravvivenza del piccino.
Insomma, la fine del Medioevo vede
lentamente maturare delle prese di coscienza che, molto più tardi, renderanno
possibili i primi veri comportamenti anticoncezionali. L’aspetto paradossale
sta nel fatto che, all’origine di questo risveglio della responsabilità dei
genitori che, dopo il Seicento, li porterà a distanziare le nascite, ci sia il
rispetto assoluto della vita, predicato dai più decisi avversari di qualunque
pratica che impedisse la comparsa.
Tra moglie e marito
Tra le tante prescrizioni, e proibizioni
sessuali, che pretendono di inquadrare i rapporti fra uomini e donne fino in
seno alla coppia, le persone sposate della fine del Medioevo tengono conto
soprattutto dell’appello alla moderazione, che le “autorità” mediche
raccomandano, anch’esse fin dall’Antichità,
a chi vuole una discendenza sana e numerosa. Questo non significa che
ogni matrimonio sia stato dettato dalla riflessione, e che ogni moto passionale
sia stato bandito dalla <<vita familiare>>. Ma l’ideale del buon
matrimonio, che la letteratura morale o satirica tende ad imporre ai tre ultimi
secoli del Medioevo, deplora gli eccessivi ardori, l’intemperanza dei
desideri, assimilati ad un ingordigia alimentare che distruggerebbe
l’equilibrio interno degli umori. <<Usa temperatamente con lei [la tua
moglie], e non ti lasciare punto trasandare>>: questo consiglio di un
Fiorentino ai suoi figli eviterà loro di <<[guastarsi] lo stomaco e le
reni>>, di avere solo figlie oppure
figli <<tisichi>>, di vivere lui stesso <<tedioso ed ondoso e
maninconico e tristo….>>.
Il “buon uso” delle mogli vuole, in
effetti, che si diffidi costantemente delle loro esigenze. Il loro corpo, così
necessario alla sopravvivenza dei lignaggi, è sottomesso ad una natura troppo
incostante. Mal governato dalla ragione incompleta che è tipica delle donne,
questo corpo esige dal suo “signore”, il marito, una soddisfazione prudente
e regolare degli appetiti senza che il marito stesso si abbandoni alla vertigine
dei sensi; il che rovinerebbe la sua autorità…..
L’autorità: ecco un’altra
“parola-chiave” che domina la visione maschile dei rapporti tra coniugi (la
sola che ci stata tramandata direttamente). Prima creazione, immagine di Dio più
vicina all’originale, natura più perfetta e più forte, l’uomo deve
dominare la donna. Questi temi, ripetuti con insistenza, trovano la loro
applicazione nel campo chiuso della vita familiare. Giustificano, con la
subordinazione femminile, la divisione dei compiti che ne deriva. L’uomo ha
una “naturale” autorità sulla moglie. Base teorica della riflessione di
numerosissimi trattati dal secolo XIII in poi, la debolezza ed inferiorità
della natura femminile impongono, fin dall’Antichità, che il campo, in cui le
donne dispongano di una certa autonomia, sia ben circoscritto.
Questo campo è in primo luogo la casa,
spazio ad un tempo protetto e chiuso e, nella casa, certi spazi più segreti: la
camera, la stanza da lavoro, la cucina (a volte isolata in certe regioni)
collocata in sommità od a lato della casa. Introdurvi la novella sposa
comporta, sempre, certi riti che sanzionano la sua ammissione, ma che anche la
tagliano fuori dal mondo esterno. La fragilità e la debolezza della donna
esigono protezione e sorveglianza. I suoi andirivieni all’esterno devono
limitarsi a percorsi ben controllati: chiesa, lavatoio, forno pubblico o
fontana, luoghi che variano a seconda della condizione sociale, ma esattamente
delineati. Luoghi, anche, che suscitano curiosità ed angoscia negli uomini, i
quali hanno l’impressione che, le parole che vi circolino, possano sfuggire
alla loro sorveglianza. Ne sono testimoni alcuni testi francesi nei quali si
manifesta, a briglia sciolta, la
temibile saggezza delle comari riunite che, spesso provocano lo sbigottimento e
la disapprovazione dei mariti quando cicalecciano, circondando una partoriente;
quando partono insieme in pellegrinaggio, complottando la loro rovina.
Dunque, tenere ed occupare le donne in
casa, ecco l’ideale maschile diffuso. Ne è pieno l’orientamento dei compiti
che si assegnano ad esse. Quando i mariti, <<quelli che guadagnano>>,
devono ammassare fuori casa beni e ricchezze, i luoghi comuni della letteratura
medievale d’economia domestica attribuiscono alle loro compagne la cura di
conservare e trasformare per il consumo familiare, in proporzione ai bisogni, i
prodotti che essi incamerano. La gestione quotidiana delle provviste, la
sorveglianza e la previsione del loro impiego, le cure che preparano al loro
uso, sono altrettante attività in cui possono dispiegarsi i talenti che si
attribuiscono alle donne, quando sono opportunamente incanalati dalla loro
docilità e ponderazione. Una buona moglie, una donna accorta, dolce e
temperante, saprà regolare la circolazione interna dei beni che, per opera
dell’uomo, affluiranno all’esterno verso la casa.
Ingranaggi essenziali del buon
funzionamento sociale, le donne, che assumono pienamente la loro funzione,
garantiscono l’armoniosa assimilazione dei prodotti dell’industria maschile.
Qualunque eccesso nelle loro spese danneggia l’intero corpo sociale ed il
complesso degli scambi. Così le leggi suntuarie (vedi nota 2) che vegliano a
preservare le manifestazioni dell’ordine sociale, infieriscono contro gli
scarti femminili. Vanagloria, ingordigia, lussuria, sono tutti peccati che
traggono alimento da un disordine degli appetiti che la vita domestica animata
dalle donne dovrebbe, al contrario, regolare ed arginare.
La “famiglia” è anche tutto un
complesso di persone su cui la moglie deve vegliare ordinandone i ritmi e le
attività. In primo luogo il marito, che conta di trovare, nel calore del
focolare, il riposo ed i piaceri del bagno caldo, della tavola servita, del
letto pronto (quando torna esausto dalle sue tribolazioni legate alla vita fuori
di casa); poi i servitori, quando la famiglia è abbastanza agiata da averne. La
sposa ha la missione di dirigerli e di punirli quando il loro comportamento
rischia di danneggiare gl’interessi dei padroni; in poche parole, deve farli
cooperare all’onore della casa. I bambini, inoltre, la cui prima educazione le
spetta senza discussione; un’educazione che trova un incentivo nel suo esempio
e nella sua “pietà”, molto più che nella sua attitudine ad avviarli ai
rudimenti della lettura. La sposa deve assicurare la coesistenza pacifica di
tutti questi individui, ognuno con i propri bisogni: è lei la signora
dell’ordine domestico, della pace familiare.
La pace, in effetti, dovrebbe fare della
sua casa un riflesso dell’armonia del mondo se….se la natura femminile, a
dispetto delle briglie che le s’impongono, dei sermoni che le si indirizzano,
non venisse subdolamente a turbare ciò che sarebbe stato suo compito
promuovere. Le donne (così pensavano i dottori e chierici, del tempo) sono in
grado eminente false, volubili ed ingannatrici, e <<tutti i grandi
disonori, vergogne, peccati e spese s’acquistano per femine; e acquistano le
grandi nimistà, e perdonsene le grandi amistadi>>. Il rimprovero
maschile, ripetuto in forma ossessiva, ha la radice nel senso sempre di essere
messi nel sacco da loro. La loro chiacchiera riempie la calma della casa, ne fa
trapelare i segreti al di fuori; aiutato dalla loro folle ed egocentrica
prodigalità il loro spirito litigioso disperde tra mille preoccupazioni
trascurabilissime la più solida ragione maschile. Tutte queste forme di
vituperio derivano da un profondo senso di fallimento in confronto alle
illusioni di stabilità ed autorità domestica, tanto agognate dagli uomini del
tempo.
L’insubordinazione delle donne, del
resto, non è solo oggetto del biasimo dei mariti; incorre anche nella sanzione
collettiva. Le infrazioni dell’ordine normale delle cose ed il voler rivoltare
troppo l’autorità naturale, sono passibili di un giudizio e di un castigo
simbolico imposto dalla comunità. Dall’inizio del Trecento, le prime menzioni
di scampanate rituali arrestano questo controllo pubblico sulle scelte
matrimoniali; il secondo matrimonio delle vedove o, più generalmente, le
unioni multiple di uno stesso individuo, attirano così le folgori dei giovani
su coppie, giudicate male assortite od intemperanti. Attraverso tutta
l’Europa, soprattutto il rito della cavalcata dell’asino, viene a punire il
troppo “rovesciamento” dei ruoli coniugali: se la donna domina il marito, lo
strapazza e lo mena per il naso, lo sposo, o chi ne fa le veci, dovrà
percorrere lo spazio del villaggio, seduto alla rovescia sulla derisoria
cavalcatura, tenendone la coda. L’insubordinazione della donna mette in
pericolo l’ordine stesso del mondo e suscita quei riti
in cui la redenzione passa attraverso lo scherno. Non c’è sfera
privata, in cui gli individui regolino i loro contrasti, senza dover fare i
conti con l’intervento di censori esterni.
La mancanza di docilità o la doppiezza dei
figli, in compenso, non suscitano gli stessi interventi della comunità. Il
fatto, che i figli mettano in dubbio il potere del padre, offre materia di
tragedia piuttosto che di scherno e, questa situazione, provocherà il consiglio
degli “amici” o della parentela, senza dare agli estranei il diritto di
ficcare il naso negli affari di famiglia che implicano, naturalmente, dei
problemi d’eredità.
La morale dei fabliaux (vedi nota 3)
dedicati ai problemi generazionali ha una tonalità molto cupa, ben diversa
dalle novelle tra dolci ed amare o licenziose che narrano come la donna copra di
ridicolo l’uomo. Al padre che si disfà troppo presto dei suoi beni, e quindi
della sua autorità, in favore dei figli, il novelliere ripete che <<non
ci si deve fidare di questi, perché i figli sono senza pietà>>, oppure
che <<il figliuolo sta al padre soggetto e sottomesso e umile infino a
tanto che ‘l padre tiene la signoria della casa e de l’avere suo; e quando
il padre ha data la signoria al figliuolo di governare ‘l suo avere, egli
soprastà al padre e hallo in odio e pargli mille anni il dì che non si muoia
per non vederlosi innanzi>>.
La donna e i suoi lavori
La donna, tuttavia, dall’alto od in basso
della scala sociale, non resta così confinata e sottomessa allo sposo quanto
desidererebbero i mariti ed i teorici della <<santa masserizia>>. Le
contadine lavorano duramente nei campi, le artigiane nella bottega del marito
che, talvolta, rilevano alla sua morte. Anche dentro la casa, signorile o
borghese che sia, non si lasciano in ozio figlie e moglie.
Gli educatori rivelano l’utilità dei
lavori d’ago, o di fuso, che dovrebbero sempre occupare il tempo in cui la
donna non ha altre faccende da sbrigare. Questi lavori hanno il compito di
immobilizzare il corpo femminile, di intorpidire i pensieri della donna,
evitando che essa non si perda in fantasticherie pericolose per il suo onore e
per quello della casa. Fin dalla più tenera età le donne fileranno,
tesseranno, cuciranno e ricameranno senza posa; e, quanto migliori saranno le
loro origini, quanto più esse saranno dotate di onore tanto meno tempo si
accorderà loro per giocare, ridere e danzare. Pertanto anche le ragazze della
nobiltà occupano le loro mani e la loro “pazza” mente, nei delicati ricami
di pianete( vedi nota 4) o di paliotti (vedi nota 5); ci guadagnano, per lo
meno, in anni di purgatorio: il compenso per il loro interminabile lavoro.
Per giustificarlo, si dice che il padre deve provvederle di un’arte che
consenta loro di sopravvivere se cadessero in povertà; tuttavia, la
preoccupazione che più profonda che affiora, nei testi degli educatori, è
quella di neutralizzare la natura femminile instabile e fragile, costringendola
in un’attività senza fine. Secondo Francesco da Barberino (vedi nota 6), che
scrive una specie di trattato di educazione delle donne all’inizio del
Trecento, la figlia d’un <<cavaliere o di solenne iudice o di solenne
medico o d’altro gentil uomo li cui antiche ed ello usati sono di mantenere
onore>> dovrà imparare a <<borse fare o cucir o filar […] sì
che, poi sarà con suo marito in casa, possa malinconia con ciò passare, oziosa
non stare e anco in ciò alcun servigio fare>>.
Quest’incessante attività tessile ha
certo ugualmente una funzione economica. Risponde alle necessità del consumo
domestico; ed è anche volta verso
la ricerca di guadagni che vengono dal di fuori. Molti, tra i poveri,
cercano di equilibrare il loro magro bilancio col prodotto dei lavori
femminili o coi salari delle donne che lavorano in filanda.
Molte donne esercitano, soprattutto priam
delle crisi del Trecento, un’attività più autonoma, fuori della famiglia.
Per la maggior parte la necessità di lavorare è direttamente collegata con la
loro condizione matrimoniale o con la perdita della protezione familiare. Per
mettere insieme la dote od il corredo, le figlie delle famiglie povere vanno a
servizio, talvolta, ancora bambine, più spesso adolescenti. Vanno a costituire
il nucleo degli eserciti di lavoratrici soprattutto le vedove, troppo
spesso minacciate dalla solitudine e dalla miseria. Anche nelle classi agiate
della società medievale la vedovanza minaccia le donne di un rapido
declassamento per cui precipitano nella povertà quando non possono ottenere
dagli eredi del marito il rispetto dei loro diritti. Qui il parentado non è
l’ultimo a spogliare la vedova e l’orfano. <<Sono rimasta soletta
senza un amico>>, lamenta in una ballata celebre la prima donna che sia
vissuta della sua penna, Christine de Pisan (vedi nota 7), rimasta vedova a
venticinque anni con tre bambini. Seguendo il suo esempio, i romanzi medievali
abbondano di cupi destini di donne sole che devono sopravvivere nelle situazioni
più avventurose; ma, del resto, vengono rappresentate del tutto capaci di
trarsi d’impaccio.
Sono donne senza famiglia quelle, che si
collocano fuori dell’ordine “naturale” assegnato al sesso femminile dalla
società medievale. Tanto più vulnerabili perciò, e la loro reputazione è
senz’altro macchiata. Vedove
isolate, indigenti che si guadagnano il pane filando, domestiche, recluse che
vivono fuori di una comunità religiosa, tutte sono presto sospettate di cattiva
condotta e facilmente accusate di prostituzione. Le donne senza radici che, nel
secolo XI, seguono dei
sant’uomini come Robert d’Arbrissel, fondatore di un monastero
<<misto>> di cui affida la direzione ad una donna, quelle che ne
Trecento si aggregano alle compagnie di flagellanti, si reclutano nelle legioni
di coloro che la situazione matrimoniale, il genere di vita e, talvolta,
l’indipendenza economica bastano a designare come elementi al margine.
Conclusione
Il discredito in cui sono tenuti il lavoro
fuori casa, le manifestazioni troppo autonome della devozione, l’andare
errando delle donne mostrano, con evidenza,
che le società della fine del Medioevo hanno concepito con difficoltà
la “condizione femminile” al di fuori del quadro matrimoniale. Senza dubbio
la coppia ha acquistato, in questo periodo, una certa autonomia all’interno
dei gruppi di parentela: ma vizi e virtù, macchie e comportamenti femminili
sono stati visti in rapporto alla famiglia di cui la coppia diventa il
fondamento. Le donne sono rimaste un ingranaggio subordinato alla riproduzione
familiare. Tuttavia, senza essere negata, questa subordinazione si è trovata più
spesso ad essere giustificata, spiegata, per dirla in breve, discussa. Non è
stata più del tutto una cosa pacifica.
Naturalmente anche queste mie parole
saranno discusse nel Regno e nel Forun del Regno ma, sappiate, che questa è la
fotografia, più o meno sfocata, della condizione femminile durante il Medioevo
ed, inoltre, è solo un piccolo cammeo nell’immenso oceano delle disquisizioni
su di esso. Ai giorni nostri tutto, o quasi, di quello che si è letto in
quest’articolo non sarebbe più nemmeno lontanamente pensabile, ma tra il
secolo XI e XIV secolo queste erano le “leggi” che regolavano i rapporti fra
le donne e la società del tempo.
Note del Redattore
Nota 1
Bernardino da Siena (santo; Massa
Marittima, Grosseto 1380 - L'Aquila 1444), appartenente alla nobile famiglia
senese degli Albizzeschi, entrò a 22 anni tra i frati minori. Abilitato alla
predicazione (1405), continuò tale attività fino alla morte, dapprima in
Toscana poi in tutta l'Italia centrale e settentrionale, suscitando sempre vivo
fervore e ovunque accolto come un benefattore. Particolarmente devoto al Santo
Nome di Gesù, di cui faceva scolpire o dipingere su tavolette la sigla JHS (Jesus
Hominum Salvator, Gesù salvatore degli uomini) divenuta comunissima, fu per
questo più volte accusato di culto superstizioso ed eresia. Sempre riconosciuto
innocente, fu ampiamente lodato dal papa Eugenio IV in una bolla del 1432. Nel
suo Ordine fu il principale propagatore della riforma degli osservanti, di cui
fu eletto (1438) vicario generale. Fu canonizzato da papa Niccolò V nel 1450.
Oratore di grande vivacità ed efficacia, improvvisava le sue prediche
adattandole al pubblico presente e arricchendole di aneddoti e di riferimenti
alla società del tempo. Esse ci sono pervenute in buona parte, autografe o
trascritte stenograficamente da uditori (Prediche volgari). Gli scritti più
importanti sono tutti di prediche in lingua latina, eccettuando il Quaresimale
fiorentino (1425). I Sermones, da lui editi per comodo dei predicatori, sono
veri trattati di teologia soprattutto morale, in cui si sente l'influsso del suo
maestro Umbertino da Casale. Degni di ricordo sono i quattro quaresimali:
"De christiana religione" (1427, La religione cristiana), "De
Evangelio aeterno sive de charitate" (1428, Del vangelo eterno ossia
dell'amore), "Seraphim" (1422, I Serafini), "De pugna
spirituali" (La lotta spirituale), e i trattati "De vita christiana"
(La vita cristiana), "De beata Virgine" (1430-40, La beata Vergine),
"De Spiritu Sancto" (1443, Lo Spirito santo).
Nota 2
Si dicono “leggi suntuarie”, le
disposizioni contrarie al lusso, che arrivano a sanzionare la scomunica di chi
non ne rispetta il contenuto. Le origini di tali disposizioni sono antichissime;
i divieti originari previsti, partono da un concetto di uguaglianza e riguardano
le manifestazioni del lusso quali: gioielli, stoffe, lunghezza degli strascichi.
Già nel primo documento legislativo romano di cui si abbia notizia, le XII
Tavole, si ha una limitazione per le vesti di lutto.
Ricordiamo Cesare che emanò una legge che
vietava l’uso di manti di porpora, di perle ad eccezione di certe età e di
rango, ma non per agli uomini.
In Italia nel duecento compaiono le prime
leggi suntuarie, ad esempio in Sicilia la prima è opera di Carlo D’Angiò del
1272. All’inizio del 1300 è contemplato il lusso delle vesti e degli
ornamenti femminili, ad eccezione di pettorali, monili e fregi che però non
eccedano dieci libre di denari. Successive riforme della metà del 1330, si
rivolgono tanto agli uomini che alle donne, con divieti che non riguardano solo
il lusso di ori, argenti, perle e pietre preziose (del quale il limite è
portato a una cifra pari a più del doppio della precedente), ma degli
strascichi di vesti e mantelli e delle vesti a diversi colori.
C’è da considerare però, che gli
estensori delle leggi suntuarie fanno parte delle classi privilegiate e, con il
passare del tempo, finiranno per imporre divieti alla popolazione, riservando il
lusso a sé stessi. Sono inoltre uomini e per questo in rari casi i divieti li
interesseranno.
Nel 1506 a Perugia si stabilisce una sorta
di stratificazione sociale sulla base degli sfoggi permessi o limitati o
proibiti, lasciando libertà di lusso per “li gentilhomini legitimi et
naturali che hanno dominio de doi castelli o più”, le donne “dé Cavalieri
e dé Judici e dè
Medici fisici” possono portare bottoni
dorati (per le altre vale la limitazione ai bottoni argentati e che non superano
i 40 soldi di valore).
Altre usanze vengono comprese nel lusso per
gli sprechi che causavano, così si impone l’uso di un solo panno per cappelli
e vesti, l’uso di un particolare tessuto di seta, lo sciamito.
Fino al settecento si trovano leggi che
vietano il lusso, l’ultima disposizione apparsa è del 1824 sotto forma di
editto sul vestire a Roma. Per i disubbidienti le multe imposte erano a volte
assai salate; in alcuni casi invece era garantita una certa permissività.
Esempio è la città di Venezia che per fini politico economici, permette il
lusso senza limitazione a dogi, alla dogaressa e alle persone della famiglia
nonché al patriziato, in occasione di visite di sovrani stranieri, che si
vogliono abbagliare con lo sfoggio di ricchezza di una delle città più
importanti d’Italia.
Curiosa, e forse unica disposizione
suntuaria che ha riscosso nel corso del tempo successo, è quella che impone che
le gondole della città di Venezia siano di colore nero, “senza ornamenti né
pittura alcuna”.
Nota 3
Genere letterario medievale a cavallo tra
una barzelletta spinta ed una storiella. Mugnai e villani, ladri e mercanti,
asinai e vedove, giovinetti e giullari si aggirano nel mondo fantastico eppure
iperrealistico dei "Fabliaux", anonime narrazioni in versi dei secoli
XII-XIV provenienti dalla Francia nordorientale. Questi racconti, dove
coesistono alto e basso, nobiltà e miseria, passioni e avvenimenti, sono i
precursori della novella e dunque alle origini della narrazione moderna.
Dalla fine del XII secolo fino a tutto il
XIV secolo, si ha nelle regioni francesi una buona produzione di fabliaux. Sono
brevi racconti in versi, caratterizzati da un linguaggio e contenuto procace e
scurrile, miranti a suscitare il riso. Ce ne rimangono circa 150, di cui una
cinquantina di autore sicuro, gli altri anonimi. Sono opera per lo più di
trovieri di professione (tra essi Rutebeuf, e Huon le Roi), esperti nelle
tecniche narrative codificate dalle scuole di retorica. Il divertimento è
prodotto a volte da un gioco di parole, oppure da una situazione grottesca,
dalla caratterizzazione comica dei personaggi, con arguta precisione. Si tratta
di divertimenti per aristocratici, destinati al pubblico dei castelli in vena di
sollazzo, di qui la presenza di un'aspra satira dei ceti inferiori; ma buoni
anche per il sollazzo degli stessi ceti popolareschi, proprio per la presenza
dello scurrile. Il genere diede un apporto realistico alla produzione letteraria
francese (si pensi a Rabelais, Thé ophile de Viau, Scarron ecc.) con influssi
indiretti, tramite traduzioni e riduzioni, su una parte della produzione italica
del XII-XV secolo (Boccaccio, Bandello).
Nota 4
Paramento
che il sacerdote indossa sopra il camice durante la messa; è di diverso colore
secondo il tempo liturgico e le feste celebrate.
Nota 5
Drappo
o stendardo di tessuto dipinto o ricamato
Nota 6
Francésco
da Barberìno - (Barberino 1264-Firenze 1348) Soprannome di Filippo Neri di
Ranuccio. Poeta, di professione notaio a Firenze, città alla cui vita politica
partecipò attivamente. Della sua opera ci sono arrivati i Documenti d'amore
(1314) e il Reggimento e costumi di donna (1320), un galateo femminile.
Nota 7
Christine de
Pisan (1364-1430) poetessa francese di origini italiane. Scrisse molti
romanzi, versi e novelle ma anche poemi per i quali divenne molto famosa. Molto
colta e di carattere forte, Christine ha tentato di esprimere la dignità della
donna. Le sue opere includono:
Le Livre des fais d'armes et de chevalerie,
che fu tradotto e stampato in inglese da Caxton con il titolo di: The Book of
Fayttes of Armes and of Chivalrye (1489; new ed. 1932).
Le Livre du duc des vrais amans (tradotto
in inglese con il titolo di The Book of the Duke of True Lovers, 1908).
Sir
Madhead
Bibliografia
Jack Goody: Famiglia e matrimonio in
Europa. Milano 1984
Maria Consilia de Matteis (a cura di), Idee
sulla donna nel Medioevo, Fonti ed aspetti giuridici, antropologici, religiosi
sociali e letterari della condizione femminile, Patron editore, Bologna 1981.
Benedetto Vetere e Paolo Renzi (a cura di),
Profili di donne, mito, immagine e realtà fra Medioevo e realtà contemporanea,
Congedo editore, Galatina 1986.