Medioevo Storico

 Viaggio nella letteratura Medievale

 

 

- Dalla Lirica Provenzale a Dante -

 

 

-Introduzione.

 

Nell’ introdurre il lettore alla lettura di questo testo abbiamo deciso di scrivere questa breve introduzione. Quello che vi accingete a leggere è un vero e proprio “viaggio” nella letteratura medioevale, diviso per temi e per autori. Per motivi logistici abbiamo preferito far rientrare nella letteratura medievale tutti gli autori dalla lirica provenzale a Dante. Infatti lo stesso Petrarca potrebbe essere considerato un artista medioevale, ma noi abbiamo preferito questa diversa divisione. Infatti come è noto tutte le divisioni tra i grandi periodi storici sono solo convenzionali, servono solo a non farci perdere nei meandri della storia, vengono usate come linee guida. La storia non cambia da un giorno all’altro: si passa molto lentamente da un periodo a un altro. Magari nel periodo precedente sono presenti già innovazioni proprie del periodo successivo, così come in quest’ultimo possono trovarsi elementi caratteristici del periodo precedente. La schematizzazione della storia quindi serve solo per fini pratici. Con queste poche righe vi lasciamo alla lettura del “viaggio” vero e proprio che, perché no, vi aiuterà a rivivere, sebbene solo con la fantasia, quel periodo che siamo soliti chiamare per convenzione Medio Evo.

 

 

-La lirica provenzale.

 

L’ideale cortese si sviluppò nel Sud della Francia dove c’era una società aristocratica per la quale anche il prestigio letterario aveva un ruolo decisivo. La concezione dell’amore cortese trovò espressione nella poesia lirica. Lirica deriva da lira, lo strumento con cui il poeta accompagnava il suo canto. Nella poesia epica si parlava delle gesta degli dei e degli eroi, mentre nella poesia lirica il poeta parlava dei propri sentimenti e delle proprie esperienze. La poesia lirica rinasce con la poesia provenzale. La lirica provenzale è scritta in lingua d’oc, veniva cantata in pubblico con l’accompagnamento musicale. Era destinata alla trasmissione orale. I poeti sono detti trovatori da trobar, che vuol dire comporre musica. Le raccolte di liriche(canzonieri) accompagnate dalla biografia degli autori(vidas), che sono ricche di elementi fantastici e commenti retorici. Ciò testimonia come i temi amorosi scatenassero la fantasia del pubblico, fino a circondare gli autori di un alone mitico. Gli autori non sono anonimi, ma hanno il bisogno di tramandare il proprio nome, hanno coscienza di sé. Il primo trovatore è Guglielmo IX di Aquitania che scrisse canzoni d’amore cortese. L’ambiente di lavoro dei trovatori è la corte feudale. La poesia divenne mezzo di promozione sociale. Il tema centrale è l’amore cortese. Troviamo dei topoi come l’adorazione e l’omaggio alla dama, servitore, nulla in cambio, tormento di non poter ottenere il suo fine. Dall’amore deriva la gioia, l’amore è fonte di bontà e bellezza, si parla di amore adultero e quindi si ricorre ad un soprannome(senhal) per non infangare il nome dell’amata(malparlieri). Ma i trovatori toccano anche temi politici, morali, guerreschi. La poesia trobadorica è raffinata nel linguaggio, piena di artifici retorici. All’interno di questa produzione ci sono due tendenze di stile: il trobar clus, poetare difficile, stile elaboratissimo, artificioso ed oscuro; e il trobar leu, poetare dolce, stile semplice, limpido ed aggraziato. Ma poi il papa Innocenzo III con il pretesto di una crociata contro gli albigesi scatenò una guerra che distrusse tutte le corti dei signori meridionali e la cultura dei trovatori che ruotava attorno a queste, così i trovatori si estinsero con la loro poesia, anche la lingua d’oc perse importanza con l’affermarsi del francese come lingua nazionale.

 

 

 

-La lingua.

 

Quali sono i fattori che inducono ad usare il volgare come lingua di espressione culturale? In Francia per rispondere al bisogno culturale di un nuovo pubblico, in Italia è il risultato dell’ascesa della classe borghese-mercantile nelle città, che ha bisogno di cultura per la propria attività e ha l’esigenza di esprimere il proprio parere sul mondo e sulla società. E, poiché i membri di questa classe non conoscono il latino, devono usare la lingua di uso comune. Un fenomeno a parte è la scuola siciliana. Il volgare risponde alle esigenze, non di diffusione della cultura, ma alle esigenze di una cerchia chiusa e raffinata di poeti. Che cercano nella poesia la nobilitazione. Non ricorrono al volgare siciliano parlato, rifiutano i modi bassi e colloquiali, ma elaborano una lingua letteraria raffinata, con calchi latini, creano un siciliano illustre. Questi testi erano molto amati in toscana e ci sono pervenute molte copie di copisti toscani che hanno anche sovrapposto le caratteristiche del proprio idioma a quello siciliano. Nel Centro-Nord il passaggio del volgare a lingua letteraria avviene in un contesto diverso: il COMUNE. E a causa del policentrismo politico, si ha anche un policentrismo linguistico. Così nel ‘200 si pone il problema della lingua: non ne esiste una unica, ma ognuno si esprime con il proprio volgare. Ma poi la Toscana assumerà una posizione di prestigio e il suo dialetto comincerà progressivamente ad imporsi come volgare unico. Dante voleva come lingua unica, una lingua formata da le cose migliori di ogni volgare, ma non fu possibile e si affermò la lingua di cui c’era un modello concreto, usata da grandi scrittori: il toscano. Così il fiorentino divenne la lingua italiana. Ma l’unificazione fu limitata al campo letterario. Ma il latino non scomparì, ma rimase come la lingua della cultura dotta. L’intellettuale doveva essere bilingue: latino e volgare. Il latino ebbe un notevole influsso anche sul lessico del volgare. Nel ‘300 si avrà il rilancio del latino da parte di Petrarca. Inoltre c’era la presenza del francese: la lingua d’oil aveva un grande prestigio: moderna lingua d’uso e lingua di cultura. Ma resiste in Italia anche l’uso del provenzale. Ne fanno uso gli imitatori settentrionali dei trovatori, e anche nella tradizione successiva Siciliana e Toscana si nota l’impronta lasciata dal provenzale. Anche nella lingua della “Commedia” di Dante sono frequenti i provenzalismi. Inoltre è grande l’influenza che le lingue francesi ebbero sul lessico italiano.

 

 

 

-La letteratura religiosa.

 

La letteratura religiosa è un’area tematica, è difficile trovare un filone preciso di letteratura religiosa, in quanto nel medioevo la religione cristiana pervadeva tutta la cultura. Si considerano religiose quelle opere in cui il fine religioso è superiore agli altri. Un esempio è il primo componimento della letteratura italiana: “Il cantico di frate sole” di Francesco d’Assisi. Esalta l’umiltà e la povertà. Il testo è in volgare perché è rivolto a tutti, non solo ai dotti. San Francesco conosceva il latino, quindi il suo componimento non è un testo popolaresco: ci sono riferimenti alle sacre scritture, c’è la presenza di elementi retorici e stilistici. E’ una prosa ritmica: ci sono clausole ritmiche, è una preghiera, un inno di lode a Dio, di interpretazione controversa: lode per ciò che ha creato o lode pronunciata dalle sue creature. PER: causa o agente? Nel cantico si legge la visione di una terra riconsacrata dallo Spirito Santo, mondo rinnovato e pacificato. Altra forma letteraria religiosa è la lauda, cantata dei flagellanti. Argomenti di questo tipo di componimento sono gli episodi della vita di Cristo, lodi alla Madonna, il peccato, la Misericordia di Dio. La forma era semplice: spesso come la ballata. A volte c’era un solista che recitava la strofa ed un coro che cantava un ritornello, in questo caso si parla di laude drammatiche. Un poeta importante di questa corrente è Iacopone da Todi che, dopo la morte della moglie e la scoperta che indossava il cilicio, si schierò con gli spirituali. In questo periodo si crearono due filoni: nel primo è sempre presente il corpo come fonte di peccato, il disprezzo del mondo, la miseria della condizione umana, si pone lo sguardo sugli aspetti più crudi della realtà. Questa scelta porta appunto Iacopone al rifiuto totale del mondo. Pertanto il suo linguaggio risponde a questa visione. Secondo filone è il misticismo, il linguaggio muta elevandosi a Dio,  si pone rilievo all’esperienza mistica, si parla dell’impossibilità di poter rendere il senso dell’infinito. Inoltre intorno alla figura di San Francesco nascono “I Fioretti”, esempi gentili, in cui si evince lo spirito fanciullesco del francescanesimo, l’amore per tutte le creature, l’attesa di una terra promessa, la fiducia in una rigenerazione profonda del mondo. Dopo la morte di Francesco,  l’ordine si divise in due filoni: gli spirituali che predicavano la rigorosa fedeltà agli insegnamenti di Francesco, la povertà, la rinuncia; e i conventuali che scendevano a compromessi con gli interessi politici e mondani, attenuando la povertà e la rinuncia e accettando la proprietà collettiva. Inoltre gruppi di francescani, i fraticelli, arrivarono ad accusare di eresia il papa. Uno di questi fu Michele da Calci. Condannato al rogo per non aver riconosciuto l’autorità del papa. Altro francescano fu san Bernardino da Siena, famoso per le sue prediche in volgare con cui riusciva a trascinare le folle, trattando di temi morali legati alla vita di ogni giorno. Altra figura è santa Caterina da Siena, domenicana, si impegnò nell’azione sociale, nella riforma della chiesa e nel ritorno del papa a Roma da Avignone. Nelle sue opere si nota un senso di letizia, l’amore per Dio e per l’uomo. L’uomo comincia ad essere autonomo: non è più una fragile creatura inevitabilmente vittima del peccato, ma è lui che sceglie il suo destino. Il corpo non è più nemico dell’anima. I toni espressivi sono dolci ma forti, ricchi di metafore.

 

 

 

-La lirica: premessa.

 

Nel ‘200 c’è un’altra esperienza poetica in volgare che non ha fini pratici, se non quello puramente artistico, non usa il volgare per rivolgersi a tutti, ma lo usa in maniera elevata per rivolgersi ad una stretta cerchia di persone colte. Questa produzione è lirica: il soggetto esprime direttamente se stesso, tratta delle proprie esperienze e sentimenti. La tradizione lirica italiana prende le basi da quella provenzale, infatti i trovatori dopo la crociata contro gli Albigesi, si spostano nell’Italia settentrionale. Proprio qui si creano imitatori dei trovatori in lingua d’oc.

 

 

 

-La Scuola Siciliana.

 

Nasce presso la corte di Federico II , i siciliani non usano la lingua d’oc, bensì il loro volgare depurato e nobilitato, così nasce la prima forma poesia in volgare italiano. I siciliani danno vita alla tradizione poetica italiana. La loro poesia riprende i temi e lo stile della lirica provenzale. Una differenza è che nella poesia provenzale accanto all’amore cortese c’era anche un filone che parlava di temi morali e politici. I poeti siciliani sono tutti impiegati statali come notai, giudici…e nei loro componimenti trattano solo l’amore. Questa differenza poiché nel nord c’erano scontri tra guelfi e ghibellini e scontri politici negli stessi comuni, mentre in Sicilia come nel sud Italia la monarchia reggeva tutto e non si sentiva il bisogno di una poesia politica o morale alimentata da contrasti. I temi sono quelli tipici dell’amore cortese, come il servigio d’amore senza avere nulla in cambio, la donna, fonte di virtù e bellezza, l’eccellenza della donna. Anche qui c’è paura dei malparlieri che potrebbero infangare il nome dell’amata. Tutti questi motivi vengono ulteriormente stilizzati dai siciliani, in quanto non presentano riferimenti temporali o di spazio, sono tutti immersi in una stessa atmosfera. Infatti la poesia siciliana nasce attraverso combinazioni di elementi già dati. Il linguaggio è elaborato, ci sono artifici retorici e metrici. Si tenta di arrivare ad uno stile sublime. Ma nella poesia siciliana ci sono anche componimenti popolareschi, come il “contrasto” di Cielo d’Alcamo, Rosa fresca aulentissima, che rappresenta il dialogo tra un giullare e la donna che tenta di sedurre, quasi come una parodia dell’amor cortese: l’amore inteso come qualcosa di sensuale e di carnale.

 

 

 

 

-I rimatori toscani di transizione.

 

Il modello della poesia siciliana trovò diffusione anche in altre zone d’Italia, specialmente in Toscana, infatti noi possediamo testi di poeti siciliani, tradotti da copisti toscani nel loro volgare. Dopo la caduta della monarchia sveva e il conseguente crollo della scuola siciliana, le sue tematiche vengono riprese dai poeti toscani. Infatti anche questi tratteranno temi amorosi, ma inseriranno anche tematiche politiche e morali, poiché in quel periodo si andavano formando i comuni, dove c’erano lotte e conflitti tra città, fazioni e classi. Quindi il poeta non è più il cortigiano raffinato, ma l’uomo che partecipa alla vita politica della sua città, che pervade anche i suoi componimenti. Uno dei maggiori esponenti è Guittone d’Arezzo. Questo riprende i temi dell’amore cortese, ma usa anche il trobar clus, tipico della lirica provenzale. Proprio per questo il suo stile risulta difficile e oscuro, ricco di artifici retorici e di un lessico particolare, criticato da dante, che unisce elementi toscani, siciliani, provenzalismi e latinismi. Troviamo un gusto logico e discorsivo, si dà importanza ai moti interiori, esempio nelle rime ascetiche e morali di Guittone, una volta convertito a vita religiosa, diventando Cavaliere di Santa Maria. Oltre a lui possiamo ricordare la poetessa misteriosa che si nascondeva sotto il nome di Compiuta Donzella, e Bonagiunta Orbicciani, che criticò le innovazioni di un poeta bolognese: Guido Guinizzelli. Questi rimatori non formavano una vera e propria scuola, ma erano semplicemente uniti dall’uso di convenzioni comuni.

 

   

 

Il “Dolce stil novo”

 

Nasce a Firenze, divenuto ormai il centro culturale d’Italia. I maggiori esponenti sono Guinizzelli, Cavalcanti, Dante. Ognuno aveva una spiccata personalità, per questo non si può definire una vera e propria scuola. Ma tutti avevano vari tratti comuni. C’è il rifiuto del poetare difficile, oscuro di Guittone, l’abbandono degli artifici retorici e la ricerca di uno stile semplice, limpido, “dolce”, che prende spunto dal trobar leu. Per quanto riguarda i contenuti, la donna è più spiritualizzata, è un angelo che porta salvezza, si dà più importanza all’interiorità dell’amante. Il tutto corredato da riferimenti filosofici dell’epoca. Inoltre non c’è più la corte reale, come quella siciliana, ma si sostituisce con una corte ideale, formata da pochi eletti, che si distinguono dai “villani”. Questo proprio perché non c’era più la necessità di una corte, a causa del cambiamento della struttura di governo delle città: non c’era più il monarca ma tutti partecipavano alla vita politica(comuni). Lo stil novo è lo strumento di espressione delle nuove classi dirigenti, fondate sull’altezza di ingegno. Il saper amare finemente è indizio di nobiltà d’animo. E la gentilezza o nobiltà, è un dato di natura, nobiltà non è più per schiatta, ma per quello che una persona è veramente, è nobiltà d’animo. Questo indica il desiderio di queste nuove classi di sostituirsi alla vecchia aristocrazia. La formula “dolce stil novo” fu coniata da Dante, che nel Purgatorio la fece pronunciare a Bonagiunta Orbicciani. Anche se l’espressione era definita ad un suo componimento, oggi viene usata per indicare tutta la scuola. Il precursore del gruppo, che creò il manifesto del nuovo stile, fu Guido Guinizzelli, giudice di Bologna. Nel suo componimento “Al cor gentil rempaira sempre amore” unisce la gentilezza all’amore, propone il tema della donna-angelo a cui si possono attribuire lodi che sarebbe corretto attribuire solo a Dio o alla Vergine, proprio perché è un angelo venuto a portare salvezza. Inoltre propone elementi filosofici nei sui componimenti. La sua canzone è scritta in uno stile dolce e leggiadro, semplice e presenta tutti itemi che verranno poi trattati da Dante e Cavalcanti: la lode alla donna paragonata alle bellezze naturali, il suo saluto che porta salvezza, gli effetti della passione sull’amante.

   

 

Poesia comico parodia.

Indica il percorso poetico diverso di alcuni poeti. Questo genere è caratterizzato dal rifiuto di ogni schema prima usato. Usa stile basso e volgare e descrive la vita quotidiana. Come intento non c’è quello di descrivere perfettamente la realtà, ma semplicemente è un gioco letterario, col quale il poeta vuole mettere in ridicolo gli schemi poetici, rovesciandoli. Il procedimento più usato è la parodia, ad esempio viene usato un lessico pregevole per descrivere un soggetto vile o spregevole. I valori dell’amore e della cortesia vengono capovolti nei loro risvolti negativi: amore passionale-desiderio sessuale, donna nobile-donna plebea. Ma i temi della poesia precedente, anche se rifiutati, vengono comunque usati come punti di riferimento, solo che cambia il punto di vistadal quale la tematica viene osservata. Questi componimenti hanno un’ elaborata composizione e non sono opere trasandate, ma si svilupperanno in nuovi stili, come quello carnevalesco. Questo rifiuto della visione del mondo dell’epoca: gerarchizzato, dà spazio alla voce dei diversi, degli emarginati. Uno dei poeti più particolari di questo stile è Cecco Angiolieri, poeta di Siena, dai suoi componimenti emerge una figura ribelle, che impreca contro la sua sorte avversa, odia il padre avaro, ama una donna plebea, sostituisce l’amore carnale a quello cortese, non ama le donne-angeli degli stilnovisti. Si nota la sua ira contro il mondo, ma non bisogna considerarlo un primo poeta maledetto: è errato sovrapporre modelli moderni a quelli del ‘200-‘300. Perché tra poesia e vita c’è sempre un netto distacco. La poesia di Cecco si rifaceva al genere goliardico medievale. Poi c’è Rustico di Filippo, che con la satira, ritrae personaggi borghesi del tempo. Altro esempio è Folgore da San Gimignano, che scrisse due corone di sonetti: nella prima augura per ogni mese gioia e piaceri a una brigata di Siena. Nel secondo consiglia come passare bene i giorni della settimana, introducendo l’ideale di vita mondana: doveva avvenire in città con banchetti, feste, tornei, amore. Della prima corona abbiamo una rielaborazione parodica di Cenne de la Chitarra. Ma non bisogna pensare che lo stilnovismo e la poesia comica fossero divise da un muro invalicabile, anzi, persino Guinizzelli e Cavalcanti, a volte lasciavano la poesia “alta” per dedicarsi a quella “bassa”. Quindi un poeta poteva passare da un tipo di poesia all’altro, anche se si orientava prevalentemente verso uno dei due tipi.

 

 

La Poesia popolare e giullaresca.

Tutti i generi finora citati erano indirizzati verso un pubblico colto, ma accanto a questi c’era anche la poesia popolare, indirizzata ad un pubblico più basso ed eterogeneo. La trasmissione era orale e avveniva nelle o nelle corti tramite i giullari. Questa poesia infatti era legata a feste, banchetti e ad altri intrattenimenti. La forma è semplice, il linguaggio è popolaresco. Diffuso era il filone amoroso che riprendeva temi dalla poesia cortese, ma espressi in forma più semplice. Le forme principali erano: frottola, ballata, contrasto. I temi erano di vario genere: satira delle donne, del villano, politica, vanto. Molti componimenti ci sono pervenuti tramite i Memoriali Bolognesi. Quando i notai furono costretti a trascrivere tutti gli atti da archiviare, per eliminare spazi bianchi, utili per le contraffazioni, scrivevano negli spazi componimenti popolari molto diffusi. Questi componimenti in genere erano anonimi, ma ci sono giunti tre nomi: Cielo d’Alcamo con la parodia dell’amore cortese, Ruggirei Apugliese che si attribuiva le qualità più negative, Matazone da Caligano che scrisse una satira sui contadini.

 

 

 

Messor Dante

 

Dante nacque a Firenze nel 1265 da una famiglia di parte guelfa appartenente alla piccola nobiltà. Sebbene fosse le sue condizioni economiche fossero poco felici, Dante ricevette comunque una raffinata educazione. Si crede che Brunetto Latini fu suo maestro di retorica, ma imparò da sé “l’arte di dire parole per rima”.

Dante lesse i rimatori provenzali, siciliani ed anche Guittone, Guinizzelli, Cavalcanti. La sua intera esperienza ruota attorno ad una donna, Beatrice, per la cui morte nel 1290 Dante passò un intero periodo di smarrimento dedicandosi però allo studio della filosofia nella quale troverà conforto.

Nello stesso periodo il Poeta lesse poeti latini quali Virgilio e si accostò alla poesia burlesca e realistica.

In seguito Dante si iscrisse all’ordine degli speziali per poter entrare in politica e ricoprire una carica pubblica. Nel 1300 divenne Priore in una Firenze lacerata dagli scontri tra Guelfi bianchi e Guelfi Neri.

Dante fu più vicino ai primi, fermi oppositori del Papa Bonifacio VIII il quale più volte aveva costituito una minaccia nei confronti di Firenze con i suoi progetti. I neri nel 1301, mentre Dante era a Roma come ambasciatore presero il potere. Il Poeta si vide accusato di corruzione e mandato in esilio in contumacia. Non essendosi presentato per discolparsi fu quindi condannato al rogo e così incominciò il suo pellegrinaggio nelle regioni italiane.

Dante divenne un uomo di corte presso vari signori magnanimi, pur accarezzando di continuo il sogno di tornare a Firenze e di ricevere la giusta ricompensa per il suo valore. Capì che tutto era a causa della mancanza di un imperatore che bilanciasse il sempre più grande potere della Chiesa in Italia. Il suo sogno stava per realizzarsi nel 1310 quando arrivò Enrico VII per esser incoronato, ma i Papa assunse un atteggiamento ambiguo, i comuni italiani si opposero e in seguito l’imperatore morì. Nel 1315 Dante rifiutò un’amnistia che aveva come prezzo il riconoscimento delle proprie colpe e un’umiliazione pubblica.

Negli ultimi anni della sua esistenza visse a Ravenna, dove morì di ritorno da Venezia nel 1321.

 

 

La “Vita Nova”
 

Ai tempi della giovinezza di Dante, Firenze era ricca di fermenti poetici e culturali. Dante si dedicò ben presto alla poesia e i suoi primi componimenti sono contenuti nelle "Rime", egli si ispirò alla lirica d'amore di tipo cortese, seguendo il modello guittoniano, ma quando divenne amico di Cavalcanti si venne a formare il "dolce stil novo", come gruppo di spiriti eletti.

Dante sogna di evadere dal mondo circostante insieme a questa elite e alle donne amate.

Nel passaggio dallo stile guittoniano a quello cavalcantiano lo stile si fa piano, le rime dolci, i concetti semplici, i temi sono quelli della sofferenza amorosa e dell'io dolente.

In seguito lo stile cambia di nuovo e ciò viene spiegato nella "Vita Nova".

Qui raccoglie le poesie scritte fino a quel momento facendole precedere da una prosa che ne spiega i motivi e seguire da un'altra che ne è il commento.

Qquesta fu una grande novità rispetto al passato, poiché Dante con le prose unisce le poesie in un solo senso.

L'opera venne compiuta tra il 1293 e il 1295.

Il titolo “Vita Nova” indica il rinnovamenti interiore provocato dall'amore per Beatrice.

Trama: Dante incontra Beatrice a nove anni e Amore diventa suo signore; la incontra dopo nove anni e lei gli porge il saluto; egli ne è profondamente colpito ma non vuole rivelare a tutti, secondo i canoni dell'amor cortese, chi è la donna da lui amata e fa finta che questa non sia Beatrice, ma si rivolge ad altre donne definite dello schermo; ma Beatrice, venutane a conoscenza, gli nega il saluto; così Dante inizia a scrivere della sua sofferenza ma subito si rende conto che il fine del suo amore è la lode stessa che egli fa alla donna; ma un sogno gli preannuncia la morte di Beatrice; lei muore veramente e Dante si dedica allo studio della filosofia scolastica e trova consolazione nello sguardo di questa "donna gentile"; ma Beatrice gli riappare in sogno e lo spinge a pensare di nuovo solo a lei e la nuova intelligenza datagli da Amore lo innalza tra i beati, dove vede Beatrice nella gloria di Dio; alla fine ha un'altra visione che gli impedisce di trattare ancora di Beatrice finché non trovi parole mai usate prima.

Nella "Vita nova" vi è una trama reale ma al di là di essa vi sono significati segreti validi in ogni occasione, da qui il carattere irrealistico della vicenda, a cui contribuiscono anche le descrizioni ovattate.

Il libro è diviso in 3 parti:

- effetti dell'amore

- lode della donna

- morte di Beatrice

ognuna corrisponde ad uno stadio dell'amore:

- amor cortese, in cui la ricompensa è il saluto

- amore fine a se stesso, il cui fine è lodare la donna; quando, a metà del libro, Dante prende coscienza del suo nuovo amore, grazie alla negazione del saluto, iniziano le sue "nove rime", che assimilano il suo amore all'amore mistico, quello dei beati nei confronti di Dio

- contemplazione del cielo; questo amore è superiore a tutti quelli narrati in precedenza; infatti per Guinizzelli e Cavalcanti l'amore era discendente (da Dio, alla donna, al poeta) ed ascendente solo dal poeta alla donna, con il conseguente conflitto amore-religione; con Dante questo conflitto si supera in quanto l'amore per la donna permette di innalzarsi a Dio; inoltre Beatrice, al contrario delle donne della letteratura precedente, è considerata veramente un miracolo (ricorre infatti spesso anche il numero 9, la cui radice è 3, simbolo della Trinità).

La "Vita nova" narra dunque anche di un itinerarium mentis in Deum (come quelli di Sant'Agostino e San Bonaventura) che secondo la tradizione mistica del tempo si divideva in 3 stadi:

- extra nos: si ama Dio per riconoscenza per il creato

- intra nos: si ama Dio di per sé

- super nos: l'anima si ricongiunge a Dio

La fine della "Vita nova" lascia quindi intravedere l'idea di Dante di scrivere la "Commedia" (anche questa viaggio verso Dio), ma tra le due opere vi saranno prima le esperienze filosofiche e politiche di Dante.

 

 

Il “Convivio”

Frutto della filosofia e della politica in Dante fu il "Convivio", sua prima opera dottrinale.

Quest’opera fu scritta tra il 1304 e il 1307.

Essa doveva essere una vasta enciclopedia di tutto lo scibile umano, che sarebbe dovuta servire a dimostrare la sua dottrina. Doveva esser composta di 15 trattati, il primo introduttivo e gli altri come commento in chiave allegorica a 14 canzoni. Ma Dante compose solo i primi 4 trattati, il primo introduttivo e quelli di commento a "Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete", "Amor che ne la mente mi ragiona", "Le dolci rime d'amor ch'i' solia".

Molto probabilmente Dante interruppe l'opera quando sostituì la teologia alla filosofia per il raggiungimento della conoscenza, quindi la "Commedia" è il ritorno alla "donna gloriosa" (teologia), rispetto alla "donna gentile" (filosofia) del "Convivio", alla Verità rispetto alla Filosofia.

Nel primo trattato dice di voler offrire un "banchetto" di sapienza a chiunque abbia uno spirito gentile che non abbia fini di lucro ma non si sia potuto dedicare alla sapienza per mancanza di tempo, sia uomini che donne non letterati, e quindi scrive la sua opera in volgare.

La lettura delle canzoni è puramente allegorica: questo è spiegato nel secondo trattato dove descrive i cieli e le gerarchie angeliche.

Il terzo trattato, invece, è un inno alla sapienza, somma perfezione dell'uomo.

Nel quarto trattato parla della vera nobiltà, non solo privilegio di sangue, non solo per schiatta, ma piuttosto conquista personale grazie alle proprie virtù.

La prosa si distingue da quella della "Vita nova" in quanto serve al ragionamento: non è pervasa dall'afflato mistico. Ha una costruzione tipica del latino, con molte subordinate, ma ben disposte. E’ questo il primo vero esempio di prosa in volgare della storia.

 

 

Il “De vulgari eloquentia” 

Il "De vulgari eloquentia" è un trattato di retorica che stabilisce le regole nell'uso del volgare, con conseguente affermazione del volgare come lingua letteraria.

L'opera fu scritta da Dante nello stesso periodo del "Convivio" e a differenza di quest’ultimo è scritta in latino e doveva comprendere quattro libri, ma Dante ne scrisse solamente uno e mezzo.

Il primo libro parla del "volgare illustre", adatto ad uno stile sublime, per argomenti importanti.

Ma prima di ciò bisogna sapere che per la retorica medievale vi erano tre stili della lingua:

- sublime o "tragico"

- mezzano o "comico"

- umile o "elegiaco"

per Dante il volgare "illustre", del primo stile, deve essere

- "cardinale": cardine di tutti i volgari municipali

- "aulico": proprio della reggia (aula), se ci fosse stata in Italia

- "curiale": con l'eleganza e la dignità delle eccellentissime corti, una delle quali, in Italia, era rappresentata dagli uomini di cultura (membra della corte).

In quest’opera, Dante, dopo una storia del linguaggio (che parte da Babele), ricerca un volgare italiano che abbia queste caratteristiche, ma non lo trova e ne affida l'elaborazione alle membra della corte (gli uomini di cultura dell’epoca).

Nel secondo libro espone gli argomenti per cui si doveva usare il volgare "tragico": l'amore, le armi e la virtù.

Infatti la forma poetica che si addice a questi argomenti è la lirica, quella con più antica tradizione. Qui ritroviamo la presa di coscienza dell'allargamento d'orizzonti riguardo agli argomenti nella poesia di Dante. La "Commedia" usa invece lo stile "comico", utile a descrivere sia l'inferno (dove troviamo anche espressioni molto basse “…taide merdona…”) che il paradiso (dove il lessico cambia di tono e si fa più colto e ricercato).

 

 

 

Il “De monarchia” e le “Epistole”

Oltre alla riflessione intellettuale e pratica espressa nella "Commedia", vi è una riflessione politica espressa nella "Monarchia" e in alcune "Epistole".

La "Monarchia" nasce dalla situazione politica dell'epoca: i due massimi poteri, Impero e Chiesa, avevano in breve tempo perso autorità e ciò cagionò lo sbando dell'umanità ritrovatasi senza una guida, né temporale, né spirituale; il sogno di restaurazione imperiale di Dante sembrò allora concretizzarsi nel 1310, con la calata di Enrico VII di Lussemburgo in Italia:

in questa occasione Dante scrive 3 epistole (ai "reggitori d'Italia", agli "scellerati” Fiorentini e ad Enrico) in cui esprime speranza e paura per l'impresa e biasimo per chi la ostacola.

E così scrive anche il "De monarchia" (di cui però non conosciamo una data certa).

L'opera è in latino ed è rivolta ad un pubblico di dotti.

Questa è l'unica opera dottrinale di Dante che sia compiuta, divisa in 3 libri:

nel primo libro troviamo espressa la necessità di un monarca assoluto argomentata con vari sillogismi; mentre nel secondo spiega che Dio ha scelto il popolo romano come detentore dell'autorità imperiale (infatti Cristo nacque nell'impero romano); e nel terzo si espongono i rapporti tra Impero e Chiesa. Infatti all'epoca vi erano due tesi in proposito: una affermava la supremazia dell'Impero sulla Chiesa, l'altra il contrario. Dante disse invece che i due poteri sono autonomi perché entrambi discendono da Dio, ma mentre il primo si deve occupare della felicità terrena degli uomini, il secondo deve pensare alla loro beatitudine eterna; il fine della Chiesa è dunque più alto di quello dell'Impero e questo dunque deve riverenza alla prima.

La teoria di Dante veniva però smentita dalla storia, configurandosi così come un'utopia regressiva (in quanto tendeva a restaurare una situazione definitivamente superata); è da questa utopia, però, che nasce la costruzione poetica della "Commedia".

Nell' "Epistola XI" del 1314 si rivolge ai cardinali italiani, colpevoli di aver spostato la sede papale ad Avignone. E nell'epistola all'amico fiorentino del 1315 Dante dice di non poter tornare a Firenze perché offeso e troppo attaccato alla libertà. Infine nell'epistola a Cangrande della Scala, che alcuni dicono non essere autentica e sembra sia stata scritta tra il 1315 e il 1317, Dante dedica il Paradiso a questo signore di Verona e dà alcune indicazioni per la lettura del poema:

- il soggetto è lo status animarum post mortem (condizione delle anime dopo la morte)

- i sensi di lettura sono 4: letterale (il primo stadio di lettura, ovvero ciò che si legge scritto nel libro), allegorico(il secondo stadio, ovvero ciò che lo scrittore vuole dire nascondendo il tutto dietro le parole), morale (terzo stadio: ciò che lo scrittore vuole insegnare tramite l’opera), anagogico (ultimo stadio: rivolgere il tutto verso Dio).

- il titolo è dovuto al lieto fine ed allo stile"comico" (o mezzano)

- il fine è portare gli uomini dalla miseria alla felicità

Ma ora vedremo di esaminare meglio la “Commedia”.

 

La “Commedia”

La "Commedia" nasce da una visione cupa del presente, nella speranza di un riscatto futuro: il mondo per Dante è caotico e corrotto, a causa dello sconvolgimento dell'ordine voluto da Dio.

Dante coglie la crisi a lui contemporanea ma la considera dal punto di vista del passato, non vedendola come un passaggio da un mondo vecchio a uno nuovo, ma come fine del mondo. La punizione divina, però, salverà gli uomini grazie ad un inviato, un Veltro, che sconfiggerà la Lupa, cioè l'avarizia, per Dante la fonte di tutti i mali.

Così egli si ritiene investito da Dio della missione di mostrare a tutti gli uomini la "diritta via"; il poema infatti è scritto "non ad speculandum, sed ad opus"

per farlo deve conoscere tutto il male, trovare l'espiazione ed innalzarsi a Dio, visitando i tre regni dell'oltretomba: e compito di Dante è far rivivere il suo viaggio agli uomini tramite il poema.

Egli è il terzo a scendere vivo nell'oltretomba, dopo Enea, fondatore dell'Impero romano, e San Paolo, difensore dei fondamenti della Chiesa; ma ha un compito ben diverso dal loro, infatti deve dimostrare la necessità di rinascita di Impero e Chiesa, per la salvezza dell'umanità.

Nonostante questa sia la storia della redenzione personale di Dante, Dante in questa occasione ritiene di rappresentare tutta l'umanità.

Questa redenzione ha come fine ultimo la salvezza nella città celeste, ma prima la felicità nella città terrena.

Dante iniziò a scrivere la "Commedia" nel 1307; "Inferno" e "Purgatorio" vennero pubblicati prima del 1319, il "Paradiso" invece fu pubblicato postumo. Nella realizzazione del poema il poeta si rifece a tutti i modelli disponibili: lo schema dell'oltretomba è quello comune nel Medio Evo; il genere si ricollega al poema allegorico ("Roman de la rose")e alla letteratura didattico-enciclopedica (Brunetto Latini); il viaggio è tipico del ciclo bretone e della letteratura mistica ("Itinerarium mentis in Deum" di Sant'Agostino); il tono apocalittico-profetico è dei libri profetici dell'"Antico Testamento" e dell'"Apocalissi"; la descrizione di luoghi e figure nell'"Inferno" è ripresa dall'Eneide; alcuni passi ("Paradiso"), ma anche la concezione filosofica totale, sono ripresi dalla Scolastica e da San Tommaso (si ricordino le sue "Summae").

Per Dante la perfezione della natura umana è nella conoscenza e la conoscenza è adeguamento alle auctoritas, concezione tipica medievale.

Ma nello stesso tempo Dante ammira gli antichi, i quali sono riusciti a raggiungere un livello altissimo di conoscenza pur senza la rivelazione divina, anticipando così in un certo senso l'umanesimo.

L'universo sembra retto da un ordine divino in cui tutto ha un significato e tutto deve essere descritto nel suo poema.

 

 

 

Interpretazione figurale nella “Commedia”

L'interpretazione figurale stabilisce fra due fatti o persone un nesso in cui uno di essi non significa soltanto se stesso, ma significa anche l'altro, mentre l'altro comprende o adempie il primo. I due poli della figura sono separati nel tempo, ma si trovano entrambi nel tempo, come fatti o figure reali; essi sono contenuti entrambi [ ... ] nella corrente che è la vita storica, mentre solo l'intelligenza, l'«intellectus spiritualis», è un atto spirituale; un atto spirituale che considerando ciascuno dei due poli ha per oggetto il materiale dato o sperato dell'accadere passato, presente o futuro, non concetti o astrazioni; questi sono affatto secondari perché anche la promessa e l'adempimento sono fatti reali e storici che in parte sono accaduti nell'incarnazione del Verbo, in parte accadranno nel suo ritorno. È vero che nelle concezioni dell'adempimento finale intervengono anche elementi puramente spirituali, perché «il mio regno non è di questo mondo»; ma sarà pur sempre un regno reale, non una costruzione astratta e sovrasensibile; questo mondo perirà soltanto come «figura», non perirà la sua «natura», e la carne risorgerà. L'interpretazione figurale pone dunque una cosa per l'altra in quanto l'una rappresenta e significa l'altra, e in questo senso essa fa parte delle forme allegoriche nell'accezione più larga. Ma essa è nettamente distinta dalla maggior parte delle altre forme allegoriche a noi note in virtù della pari storicità tanto della cosa significante quanto di quella significata. Nella loro grande maggioranza le allegorie che si trovano nella letteratura o nelle arti plastiche rappresentano per esempio una virtù (come la sapienza) o una passione (invidia) o un'istituzione (diritto), o in ogni caso la sintesi più generale di un fenomeno storico (la pace, la patria): mai la piena storicità di un fatto determinato. Allo stesso modo, o se si vuole all'inverso, si svolgono le interpretazioni allegoriche di fatti storici, che di solito vengono spiegati come occulte rappresentazioni di dottrine filosofiche. Così, come nella sua persona e nella sua influenza terrena Virgilio aveva guidato alla salvezza Stazio, così ora, figura adempiuta, egli guida Dante: anche Dante ha ricevuto da lui il bello stile della poesia, da lui è salvato dalla perdizione eterna e guidato sulla via della salvezza.


Virgilio non è dunque l'allegoria di una qualità, di una virtù, di una capacità o di una forza, e neppure di un'istituzione storica. Egli non è né la ragione né la poesia né l'impero. È Virgilio stesso. Per Dante il senso di ogni vita è interpretato, essa ha il suo posto nella storia provvidenziale del mondo che per lui è interpretata nella visione della Commedia, dopo che nei suoi tratti generali essa era già contenuta nella rivelazione comunicata ad ogni cristiano. Così nella Commedia Virgilio è sì il Virgilio storico, ma d'altra parte non lo è più, perché quello storico è soltanto «figura» della verità adempiuta che il poema rivela, e questo adempimento è qualche cosa di più, è più reale, più significativo della «figura». All'opposto che nei poeti moderni, in Dante il personaggio è tanto più reale quanto più è integralmente interpretato, quanto più esattamente è inserito nel piano della salute eterna.


In questo modo ogni accadimento terreno non è visto come una realtà definitiva, autosufficiente, e neppure come anello di una catena evolutiva in cui da un fatto o dalla concorrenza di più fatti scaturiscano fatti sempre nuovi, ma viene considerato innanzi tutto nell'immediato nesso verticale con un ordinamento divino di cui esso fa parte e che in un tempo futuro sarà anch'esso un accadimento reale; e così il fatto terreno è profezia o «figura» di una parte della realtà immediatamente e completamente divina che si attuerà in futuro. Ma questa non è soltanto futura, essa è eternamente presente nell'occhio di Dio e nell'aldilà, dove dunque esiste in ogni tempo, o anche fuori del tempo, la realtà vera e svelata.

 

 

L’allegoria

Quel che appare sorprendente circa la poesia di Dante è che essa, in un certo senso, è assai facile a leggersi. Non intendo dire che scriva un italiano molto semplice, perché accade proprio il contrario, o che il suo contenuto è semplice o sempre semplicemente espresso, ma spesso è rappresentato con tale forza di condensazione che, per esser spiegati, tre versi richiedono un paragrafo, e le loro allusioni una pagina di commento. Dante è il più universale dei poeti di lingua moderna. Il che non vuol dire che è «il più grande», o che è il più comprensivo. L'italiano, e specialmente quello dell'età di Dante, molto acquista dall'essere l'immediata derivazione del latino universale. Tuttavia questo non significa che l'inglese o il francese siano inferiori all'italiano, come mezzi di poesia, ma il volgare italiano dell'ultimo medio evo era ancora molto vicino al latino come espressione letteraria perché uomini come Dante, che lo adoperavano, erano stati ammaestrati, in filosofia e in tutte le scienze astratte, col latino medioevale. Quando leggiamo la filosofia moderna, in inglese, francese, tedesco, e in italiano, siamo subito colpiti dalle differenze di pensiero nazionali e di razza: le lingue moderne tendono a separare il pensiero astratto; ma il latino medioevale tendeva a concentrare quel che pensavano uomini di varie razze e paesi.

L'italiano di Dante, sebbene in modo essenziale italiano d'oggi, non è per questo una lingua moderna. La cultura di Dante non apparteneva ad un solo paese europeo ma all'Europa; l'italiano di Dante è più vicino nel significato al latino medioevale.

Ma la semplicità di Dante ha un'altra ragione specifica. Egli non solo pensava in un modo in cui ogni uomo della sua cultura nell'intera Europa allora pensava, ma usava un metodo che era comune e comunemente compreso in tutta l'Europa. Quel che importa è il fatto che il metodo allegorico era un metodo ben determinato non limitato all'Italia; e il fatto, in apparenza paradossale, che il metodo allegorico genera semplicità e intelligibilità. Noi tendiamo a considerare l'allegoria come un noioso indovinello e ad ignorarla come irrilevante in un gran poema. Quel che noi non conosciamo è, in un caso come quello di Dante, il suo speciale effetto di stile.

Il primo canto dell'Inferno con l'identità della Lonza, del Leone o della Lupa. In realtà è meglio, all'inizio, di non sapere o curarsi che cosa significhino. Quel che considereremo è quel che porta un uomo che ha un'idea ad esprimerla con immagini. Dobbiamo considerare il tipo di mente che per natura e per pratica tendeva ad esprimersi con l'allegoria; e per un poeta competente, allegoria significa chiare immagini visive. E le chiare immagini visive ricevono assai più intensità dal fatto d'avere un significato - non è necessario che noi sappiamo quale sia questo significato, ma nella nostra consapevolezza dell'immagine dobbiamo accorgerci che c'è pure il significato. L'allegoria è solo uno dei metodi della poesia, ma è un metodo che offre molti grandi vantaggi.

L'immaginazione di Dante è visiva. In quanto egli viveva in un'età in cui gli uomini avevano ancora visioni. È un abito psicologico. L'allegoria non era un espediente per mettere in grado i non ispirati di scrivere versi, ma davvero un abito mentale, che quando veniva elevato all'altezza del genio poteva produrre un gran poeta come un gran mistico o un gran santo. Ed è l'allegoria che rende possibile al lettore di gustare Dante. “Varia la lingua, ma i nostri occhi restan gli stessi”.

   

 

Ardzrouni e Rhydderch

 

Bibliografia

Per la stesura del seguente testo ci siamo valsi particolarmente di:

· G. Baldi – S. Giusto – M. Razetti – G. Zaccaria “Dal testo alla storia dalla storia al testo”

· Marchese “Le strutture della critica letteraria”

· AA. VV. “L’analisi del racconto”

· Saggi di U. Eco, F. Gritti, V. Morin, C. Bremond, T. Todorov.