Storicità dei Vangeli
Per la storicità dei Vangeli:
Gesù Figlio di Dio
nel Vangelo di Marco
di José Miguel Garcia
1. lNTERESSE DELLO STUDIO DEL SUBSTRATO SEMITICO DEI VANGELI
Durante il corso accademico 1980-81 studiai per un anno nella Scuola
Biblica di Gerusalemme. Al termine del corso, presentai uno studio sul sub-
strato aramaico del Vangelo di Luca. In esso analizzavo una serie di racconti
che appartengono a questo Vangelo sinottico e che, a causa di varie contrad-
dizioni linguistiche, lessicali e sintattiche, ci obbligano a considerarli come
traduzioni scorrette di un originale testo aramaico. L'anno successivo, l'Abbé
Jean Carmignac, antico allievo della Scuola Biblica, mi scrisse una lettera in
cui si rallegrava nel constatare che un giovane studioso spagnolo lavorava
nello stesso campo cui egli aveva dedicato vent'anni di lavoro. Io gli scrissi
informandolo che a Madrid c'era un gruppo di una mezza dozzina di giovani
sacerdoti, guidati dal professore di Esegesi del Nuovo Testamento e di Lingue
Semitiche e Orientali Mariano Herranz, che stava lavorando da tempo su
certi passaggi difficili, contraddittori o enigmatici dei Vangeli o di altri scritti
del Nuovo Testamento, facendone oggetto delle loro tesi di dottorato. Il
nostro punto di partenza era, ed è, la certezza di trovare un chiarimento di
questi passaggi utilizzando come strumento di lavoro l' ipotesi di una tradu-
zione sbagliata dei versetti originali in aramaico.
J. Carmignac mi rispose rallegrandosi vivamente del fatto che a Madrid si
cercasse di ricostruire il testo dell'originale aramaico dei Vangeli. Nella sua let-
tera mi diceva: «Sono convinto che questa questione dell' origine semitica dei
Vangeli sia di capitale importanza al fine di dimostrare il loro valore storico e
poter superare cosi il "bultmannismo" [Rudolf Bultmann, studioso protestan-
te che considera secondario il valore storico dei Vangeli; ndr] che in Francia ha
corrotto tanti studiosi e non. Per questo motivo intendo consacrare il resto
della mia vita allo studio del substrato semitico dei Vangeli smottici».
Purtroppo la sua dedizione a questo tipo di studi fu molto breve, perché
morì pochi anni dopo. Da parte nostra, noi continuammo le nostre ricerche
convinti del fatto che la dimostrazione che i Vangeli furono scritti original-
mente in aramaico, non in greco, appoggi saldamente la certezza del loro
valore storico. Al con tempo eravamo convinti che questo tipo di studi fosse
uno strumento efficace per risolvere le grandi obiezioni sollevate frequente-
mente dall' esegesi moderna.
È ben noto come il testo greco della, maggior parte dei primi scritti cristiani
raccolti nel Nuovo Testamento contenga passaggi di un' oscurità o stranezza
evidenti. Un dato questo che induce a pensare che quei testi non siano stati
scritti da autori di lingua greca. Inoltre esiste un certo numero di passaggi
che, pur essendo chiari per quel che rigarda il lessico e la sintassi, restano
confusi, o piuttosto, inaccettabili, per quanto riguarda il contenuto, dato che
risultano illogici o affermano cose contradittorie rispetto al contesto o a
quello che leggiamo nel resto dei Vangeli. Molti studiosi, dal diciottesimo
fino al ventesimo secolo, hanno utilizzato queste difficoltà per opporsi all' an-
nuncio della Chiesa. Essendo più figli dell' influsso culturale del razionalismo
proprio della loro epoca, che figli della Chiesa, opposero la fede alla ragione
(a una ragione ridotta a misura, a misura di tutto, non concepita come aper-
tura alla realtà intera) e cercarono di scoprire chi era Gesù, giungendo a con-
cezioni del tutto lontane o contraddittorie dalla fede della Chiesa. Per tutti
costoro, le difficoltà che resenta la redazione del testo e il significato di certi
versetti evangelici, insieme al loro carattere eccessivamente soprannaturale,
furono ragioni sufficienti per negare il valore storico dei Vangeli. Tali studiosi
ritennero che le suddette incoerenze o contraddizioni indicassero l'evidenza
del fatto che gli originali fossero stati scritti da persone poco informate, e per-
ciò risalissero a un' epoca posteriore a quella in cui ebbero luogo gli eventi
narrati. Questi testi non servirebbero quindi per giungere a conoscere chi fu
realmente Gesù. In realtà, concludono, il protagonista di quei libri che chia-
miamo Vangeli non sarebbe il Gesù storico, bensì il Gesù che la Chiesa con-
fessa e propone e che è il risultato di una elaborazione umana posteriore. La
fede cristiana, conformemente a questa ipotesi, non sarebbe il compimento
della ragione, cioè della capacità dell'uomo di riconoscere la realtà, bensì il
frutto dell'immaginazione o del sentimento.
Certamente le difficoltà che il testo greco dei Vangeli presenta non rap-
presentano in sé un' obiezione alla fede della Chiesa. Se si utilizzano in
questo senso, ciò è dovuto piuttosto alla posizione che lo studioso ha assunto
davanti alla realtà, allo schema con cui legge i testi che esamina. Infatti,
se si abborda la realtà con sospetto, si finisce col guardare tutto con sospetto
e si usa ogni difficoltà per confermare il proprio punto di vista.
Alcuni studiosi del XVIII e XIX secolo, estranei alla tradizione della
Chiesa o con un' appartenenza ecclesiale problematica e critica, considera-
rono gli argomenti che la nascente scienza storica offriva come validi per
respingere la pretesa cristiana. Invece di domandarsi se ciò che la Chiesa
afferma su Gesù trovasse fondamento nella storia, rifiutarono l' ipotesi
stessa e tentarono di spiegare l' avvenimento cristiano in modo alternativo.
Tuttavia, altri, davanti a queste difficoltà persistenti, si videro spronati a
cercare soluzioni che facessero risaltare l'armonia che esiste tra Vangeli e
tradizione cristiana, convinti che non possa essere altrimenti, se teniamo
conto che i Vangeli costituiscono parte integrante della Tradizione. Vale
forse la pena chiarire quest'ultima affermazione esaminando un capitolo
dell'esegesi moderna del Nuovo Testamento che ha avuto un influsso
molto nocivo fino ai nostri giorni. Mi riferisco alla conosciuta teoria del
segreto messianico nel Vangelo di san Marco.
2. IL SEGRETO MFSSIANICO
Nel 1901 WIlliam Wrede pubblicò un libro intitolato "Il segreto messianico
nei Vangeli. Un apporto per capire il Vangelo di Marco", un' opera che segnerà in
modo decisivo tutta l'esegesi del secolo XX. L'autore parte da una constata-
zione facile per chiunque: il Vangelo di Marco ci presenta Gesù che ordina
insistentemente agli apostoli e anche a coloro che vengono sanati, di tacere
ad altri l'indole eccezionale della sua persona. Secondo queste "ingiunzioni di
silenzio", Gesù sembra impegnato durante tutta la vita pubblica a occultare il
fatto di essere il Messia, sembra teso a non far conoscere la sua divinità poi-
ché, per Wrede, Messia e Figlio di Dio sono la stessa cosa. Se realmente Gesù
era il Figlio di Dio, questo suo modo di procedere sarebbe stato quanto
meno molto strano. Perché Gesù fece così? Queste ingiunzioni di silenzio
sono inaccettabili inoltre dal punto di vista della logica del racconto e, cosa
ancora più grave, sono tutte non credibili da un punto di vista storico.
Wrede fa uno studio di queste ingiunzioni di silenzio partendo da due pre-
supposti abbastanza comuni fra gli esegeti dell' epoca. In primo luogo, consi-
dera i Vangeli come un prodotto tardivo della comunità, in cui si riflettereb-
ero soprattutto e concezioni della fede proprie della comunità Cristiana pri-
mitiva. Il materiale evangelico giunto a noi sarebbe stato modellato e modifi-
cato secondo le situazioni e i problemi che la comunità cristiana affrontò al
suo sorgere. Da questo deriva un secondo presupposto: i Vangeli sarebbero
opere di fede, cioè, racconti della fede cristiana e non vere e proprie narrazio-
ni storiche. Il narratore non racconterebbe dei fatti realmente accaduti, ma la
concezione di Gesù e della dottrina che aveva la comunità cristiana. Solo in seconda istanza si possono utilizzare come testimonianze della vita di Gesù
dal punto di vista storico.
Partendo da queste premesse, Wrede ritiene che il Vangelo di Marco rac-
conti la visione della vita di Gesù di un narratore tardivo; e che non contenga
una narrazione fedele di quel che successe. Il narratore Marco, quando scrive,
riflette la fede in Gesù della comunità del suo tempo, che lo riconosceva già
come Messia sin dalla concezione nel seno di Maria, cioè confessava che
Gesù è il Figlio di Dio. Questa fede era il frutto della riflessione che i seguaci
di Gesù avevano fatto sulla Sua opera. Una concezione anteriore, più primiti-
va, vedeva invece Gesù come un uomo, costituito Messia solo nella resurre-
zione, come sembrano riflettere anche alcuni testi del Nuovo Testamento
(cfr. At 2,36; Rm 1,4; Fil 2,6-11). Col tempo, con lo sviluppo cristologico,
anche la Sua vita terrena venne considerata messianica, ma durante la vita
pubblica, afferma Wrede, Gesù non ebbe mai coscienza di essere il Messia.
Mai, pertanto, accennò a questo. Per spiegare questa discordanza tra i ricordi
della vita "reale" di Gesù e il culto del Signore risorto, la Chiesa primitiva
inventò il segreto messianico: se Gesù non parlò mai della sua dignità messia-
nico-divina durante il suo ministero, ciò si deve alla volontà di posporre que-
sto annuncio dopo la resurrezione. Quindi, il velo del segreto nel quale il
Vangelo di Marco circondò Gesù non sarebbe altro che un sotterfugio.
L'esistenza di questo artificio letterario, afferma Wrede, «è una positiva atte-
stazione storica del fatto che Gesù non si concepì come Messia». In sintesi,
per Wrede, l'esistenza di queste incredibili ingiunzioni di silenzio è prova evi-
ente che Gesù non ebbe coscienza di essere Messia, Figlio di Dio.
Le conseguenze di questi studi esegetici sono nefaste per la fede cristiana.
In primo luogo, se i Vangeli hanno scarso o nullo valore storico, come possia-
mo sapere realmente chi fu Gesù? In secondo luogo, se è vero, come sostiene
questa esegesi, che il Gesù storico non coincide col Cristo della fede della
Chiesa, allora in che cosa consiste la fede? A chi aderiamo? In terzo luogo, se
Gesù non ebbe coscienza di essere il Messia, non si considerò mai Figlio di
Dio, perchè la Chiesa si è impegnata nella storia a presentarlo come tale? La
conclusione si impone: la fede cristiana è uno schema, una interpretazione,
un mito, un'ideologia che si sovrappone alla storia.
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Voglio
cominciare ricordando i versetti finali di questo racconto di un
miracolo: «Ed
entrò dove era la bambina. Presa la mano della bambina, le disse:
"Talità qumì”, che significa: "Fanciulla, io ti dico,
alzati". Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare; aveva
dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. Gesù raccomandò loro
con insistenza che nessuno ne sapesse
(kaì diesteìlato autois pollà hìna medeìs gnoi touto)>> (Mc5,40). |
Gesù
raccomandò loro con insistenza che nessuno ne sapesse |
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fiche stavano già facendo il loro mestiere. Che in questa situazione, come è
naturale, vedessero la bambina correre e giocare per le strade della città, non
poteva certo rimanere nascosto. I genitori non potevano evitare che si sapesse
che quella bambina, che tutti sapevano morta, era resuscitata. Era naturale
che si sapesse subito che chi l'aveva resuscitata era Gesù.
Questa anomalia non è soltanto inaccettabile per una narrazione storica
che racconti un fatto accaduto a Giairo e a sua figlia, ma è anche completa-
mente inammissibile per un racconto-finzione, creato da qualche catechista
zelante nel primi decennni della Chiesa col fine di inculcare un ingenua conce-
zione del segreto circa l'indole eccezionale della persona di Gesù.
La nostra opinione, invece, è che l'unica spiegazione coerente di questa
enigmatica espressione greca sia di tipo linguistico. Il problema è innanzitut-
to un problema di lingua, e nell' ambito della lingua occorre cercare la spiega-
zione e con essa la soluzione di ogni stranezza. L' equivoco linguistico che
diede luogo a questo passaggio fu una traduzione sbagliata dell' originale rac-
conto aramaico.
Secondo noi, il termine "nessuno" (médeìs) è il risultato della traduzione
di un'espressione aramaica, bar'anasà', alla quale il traduttore attribuì il
senso di "uomo", che con la particella negativa si usa per dire "nessuno".
Tuttavia questa espressione significa anche "il figlio dell'uomo" e serve
come circonlocuzione per designare Gesù. In questo caso aveva il secondo
significato.
D'altra parte, dobbiamo ricordare che l'aramaico, dato che non possiede
un verbo specifico che significhi "ringraziare", utilizza con questo significato
verbi che esprimono "amare, conoscere". E questo era il senso che aveva qui
il verbo aramaico che fu tradotto in greco come "conoscere" (gnoi). Tuttavia
nell' originale aramaico, questo verbo era scritto in forma passiva, "essere rin-
graziato". Infine ricordiamo che il dimostrativo greco touto traduce l'aramai-
co femminile dà' o il maschile denàh, usato come neutro; e la sua funzione
sintattica è qui quella di accusativo di causa. Con questa spiegazione filologi-
ca arriviamo a dare una traduzione dell' originale aramaico che noi conside-
riamo quella corretta:
E raccomandava loro con insistenza che il Figlio dell'uomo non fosse
ringraziato per questo.
Pertanto, qui, nell' originale aramaico, da parte di Gesù non c'era nessun
ordine di tacere, nessuna ingiunzione di silenzio, bensì una raccomandazione
chiara a Giairo e sua moglie di ringranziarlo per aver ridato la vita alla loro
figlia che era morta, ma di ringraziare Dio che è Signore e datore di ogni vita.
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Alla
domanda di Gesù ai discepoli: «E voi, chi dite che io sia?», risponde
Pietro: «Tu sei il Messia». Il narratore aggiunge un breve versetto in
cui si dice: «E ordinò loro con insistenza che non dicessero questo di
lui a nessuno» (Mc, 8,30). In
questa versione italiana, l'ordine di Gesù risulta pienamente
intelleggibile, ma ciò si deve al fatto che il traduttore ha aggiunto
il pronome dimostrativo "questo" di cui non si trova traccia
nel greco. Il testo greco, in versione italiana corretta, dice così: «E
ordinò loro con insistenza che a nessuno dicessero di lui». Ed è
precisamente la carenza di accusativo, oggetto del verbo
"dire", quello che rende oscuro e inintelleggibile questo
comando di Gesù. |
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Come
spiegare l'enigmatica espressione
greca? A nostro giudizio, risalendo dalla traduzione erronea a un
originale aramaico. Tenendo conto del testo greco che è arrivato fino a
noi, abbiamo ricostruito l'originale aramaico della parte finale
dell'ingiunzione di tacere che crediamo possa essere questo: |
dì lebar 'anasà' là
ye'merun alohì (hìna medenì légosin perì aùtoù)
Nel racconto della figlia di Giairo abbiamo visto come a médeìs corri-
spondesse in aramaico l'espressione bar 'anastà', che tradotta letteralmente
può significare ('il figlio dell'uomo". Ma il traduttore interpretò di nuovo .
qui ("figlio dell'uomo" come "uomo" che, unito alla particella negativa la'
- letta come tale -, poteva tradursi con ("nessuno". L'unica differenza in que-
sto contesto è che si tratta di un dativo, perché l'espressione è preceduta da t
una preposizione che normalmente introduce il dativo. Ma il monosillabo
là, oltre a essere la particella negativa, può essere anche una particella enfa-
tica, come ci ha dimostrato lo studio delle lingue sorelle dell' aramaico, il
fenicio e l'ugaritico e, in questo caso, una traduzione più adeguata sarebbe
"sempre", poiché in tutti i passaggi in cui questo monosillabo compare il
traduttore può scegliere l'avverbio o una espressione che sia stilisticamente
più riuscita. A volte può essere perfino necessario prescindere dalla parti-
cella nella traduzione.
In quanto al verbo "dire" (légosin) dell'originale greco, dobbiamo apportare
un' altra novità che ci viene dagli studi filologici di testi ebraici alla luce del
semitico del nord ovest. Dato che il verbo "dire" (amar) in ebraico è lo stesso
che si usa in accadico e ugaritico per esprimere l'azione di "vedere", si è cerca-
to di spiegare i passaggi della Bibbia ebraica in cui il verbo "dire" non ha
senso, attribuendo anche a questo verbo il significato di "vedere, guardare".
Valga come esemplificazione questa passaggio del Sal 105,28. Narrando la
storia delle piaghe d'Egitto, il salmista dice: «Dio, inviò le tenebre e creò l'
oscurità, in modo che non potessero vedere le loro azioni (welò amerù et deba-
rao»>.
Per quel che riguarda la locuzione prepositiva perì aùtoù, è chiaro che la
preposizione perì traduce l'aramaica 'al. Bisogna qui puntualizzare che questa
preposizione, il cui significato più frequente è "su", con non poca frequenza
indica anche il luogo, "in". E con questo passiamo a offrire la versione italiana
corretta dell' originale aramaico:
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E ordinò loro con insistenza che vedessero sempre in lui il Figlio dell'uomo.
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Il suffisso aramaico tradotto per il pronome greco aùtoù non si riferiva a
Gesù, bensi a Pietro; e l'espressione "il figlio dell'uomo" è, come abbiamo già
visto, un modo di indicare Gesù. Quindi, secondo il racconto dell' evangelista
che scrisse in aramaico, quello che fece Gesù con queste parole fu costituire
Pietro come suo vicario davanti ai dodici. Un fatto che Matteo nel suo
Vangelo racconta in un modo più dettagliato.
4. VALORE STORICO DEI VANGELI
Abbiamo fatto due esempi, ma fenomeni simili accadono anche nelle
altre ingiunzioni di silenzio che troviamo nel Vangelo di Marco. La
conclusione si impone: nell'originale aramaico di questo Vangelo non
c'erano tali ingiunzioni relative all'identità messianica di Gesù. Inoltre,
se la Chiesa afferma che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio, questo non è
dovuto a un processo di idealizzazione della persona di Gesù di
Nazareth, bensì alla fedeltà all'incontro che ebbero i primi discepoli,
fedeltà a ciò che videro con i loro occhi, ascoltarono con i loro orecchi
e toccarono con mano. Come afferma Peter Stuhlmacher: «A Gesù non
furono attribuiti semplicemente dagli apostoli, dopo la Pasqua, pro-
prietà e comportamenti che egli non possedeva (né pretendeva di posse-
dere) sulla terra, ma nella professione di fede postpasquale della comu-
nità cristiana si conferma e si riconosce ciò che egli volle essere storica-
mente, ciò che fu ed è ancora: il Figlio di Dio, il Messia. La storia rea-
lizzata da Dio in Gesù e con Gesù, il Cristo di Dio, è anteriore alla fede
cristiana. Essa guida e determina la fede e non è, al contrario, creata da
essa» .
Dopo questo approfondimento, crediamo risulti più evidente l'affer-
mazione dell'Abbé Carmignac citata all'inizio della conferenza: lo studio
dell'origine semitica dei Vangeli è di capitale importanza per dimostrare
il loro valore storico e per uscire dal "bultmannismo", cioè, per liberarsi
di tutta quell'esegesi che, ammantandosi di critica "scientifica", ma
carente di solido fondamento, ha difeso un Gesù contrario o molto
diverso da quello che la Chiesa ha predicato lungo i secoli. In realtà,
assodato il valore storico dei Vangeli, è facile sbarazzarsi di tutta questa
esegesi perniciosa e inutile al fine di conoscere ,veramente chi fu e chi è
Gesù.
Anni fa D. F. Strauss, un altro dei pionieri del cosiddetto studio critico
dei Vangeli, intuì la grande obiezione alle sue stesse ricostruzioni delle
origini della fede cristiana quando affermò: «La storia evangelica diven-
terebbe inattaccabile se fosse stabilito che fu scritta da testimoni oculari
o almeno da uomini vicini agli avvenimenti». Ebbene, i nostri studi evi-
denziano che i Vangeli, essendo originalmente redatti in aramaico, risal-
gono ai primordi del cristianesimo. Naturalmente furono scritti in
Palestina dove si parlava l'aramaico, quindi nel luogo dove successero i
fatti che narrano e in una data molto vicina a quando accaddero.
Almeno per quel che riguarda il Vangelo aramaico di Marco possiamo
affermare che fu scritto entro i primi cinque anni dopo la morte di
Gesù, quando ancora erano vivi i testimoni dei fatti e dei detti di Gesù.
5. TU CHI SEI?
Il cristianesimo è l'avvenimento inimmaginabile di Dio fatto uomo: il
Mistero che è origine presente di tutto, si è fatto visibile, udibile, tocca-
bile in un uomo concreto, Gesù di Nazareth. Un uomo certamente ecce-
zionale. Basterebbe leggere con semplicità i racconti evangelici per speri- I
mentare lo stesso stupore che ebbero coloro che furono contemporanei
di Gesù, testimoni del suo operare e parlare. Le prime pagine del
Vangelo di Marco, per esempio, dopo aver riferito l'elezione dei primi
discepoli, raccontano vari miracoli in un giorno di sabato: l'esorcismo di
un indemoniato nella sinagoga di Cafarnao, la cura della suocera di
Pietro e, al tramonto, la salute ridata a molti altri malati. Chi fosse stato
testimone di queste cose, come avrebbe potuto non stupirsi, "essere stu-
pefatto" come dice lo stesso evangelista? E questi prodigi si ripetevano
per giorni e giorni: lebbrosi guariti, paralitici che cominciano a muovere
con normalità le loro membra prima immobili, ciechi che vedono, sordi
che sentono, moltiplicazioni di pani per soddisfare gli affamati, tempeste
calmate a causa dell'autorità della sua parola, morti che resuscitano.
Dicono gli evangelisti che a volte arrivava a sera stanco di guarire.
E insieme a tutta questa attività prodigiosa, un'intelligenza incompara-
bile tanto per il modo di vedere la realtà come per quello di argomentare
davanti agli avversari. I suoi contemporanei lo ascoltavano con gusto,
riunendosi intorno a lui a centinaia, migliaia. Con lui, per mezzo di lui,
uno era introdotto nella realtà in modo nuovo e diventava evidente che
tutto è bene e che la vita è data per una pienezza. Ma senza dubbio la
cosa più impressionante era la sua infinita tenerezza coi peccatori, con
quelli che si sapevano condannati dalla Legge e sperimentavano il rifiuto
degli uomini "giusti". Il suo misericordioso perdono era il maggiore
miracolo. Non è diffici e spiegare il fascino e l' attaccamento che Gesù
suscitava nei suoi contemporanei.
«Ma, tu chi sei?», gli domandarono i suoi ,discepoli, cioè coloro che
furono testimoni delle sue azioni quotidiane. Nessuna delle loro spie-
gazioni, nessuna delle risposte che potevano immaginare svelava l'esse-
re misterioso di quell'uomo. Anzi, nessuna delle risposte che Gesù
dava loro esauriva l'appassionata curiosità che Lui aveva suscitato in
loro. La realtà che vedevano i loro occhi era molto iù rande di quel-
lo che essi potevano capire e la loro domanda diventava sempre più
ardente. Convivevano con lui, ma si rendevano conto che quello che i
loro occhi percepivano era soltanto la riva di un mare insondabile, di
un essere senza confini. «Ma, tu chi sei?», l' insistente domanda di
quelli che erano i suoi discepoli è la prova migliore della realtà ecce-
zionale della sua persona, del suo essere misterioso.
Se la Chiesa legge e venera i Vangeli, se rinnova costantemente il suo
annuncio è solo per un motivo: per dire chi è Gesù Cristo. Anzi, la Chiesa
esiste per facilitare l'incontro e sostenere una convivenza quotidiana con
Lui. Perché è impossibile conoscere chi è Gesù se non si è a Lui contem-
poranei, è impossibile raggiungere una certezza su Gesù senza una relazio-
ne concreta e reale con il Mistero fatto carne che continua nella Chiesa.
Senza questa contemporaneità non è possibile conoscere Gesù e perciò
farsi cristiano. In altre parole se oggi io non posso avere un rapporto con-
creto e reale con Gesù, non posso essere cristiano, perché non basta che
questo atto sia successo nel passato, deve succedere ora, in questo istante,
nel luogo dove vivo. Essere battezzato, come ci insegna il catechismo, e
essere discepolo di Cristo: attenzione, non soltanto della sua dottrina,
bensì della sua persona. E affinché questo sia possibile, è indispensabile
che Lui sia presente ora.
In questo senso, voglio ricordare un piccolo aneddoto. Una volta un
mio amico, sentendo don Giussani leggere un passaggio del Vangelo, mi
disse ammirato: «Da dove tira fuori tutto quello che dice? Quel che c'è nel
Vangelo è molto più breve! Che capacità di immedesimazione!». È vero
che don Giussani ha una straordinaria capacità umana di immedesimarsi e
una dote poetica e immaginativa, ma se è capace di leggere il Vangelo in
modo così vivo e suggestivo, lo deve alla sua esperienza: il Vangelo accade
oggi. Lui esprime quel che è e fa Cristo nella sua vita e in quella dei suoi
amici. Cioè, legge il Vangelo in un certo modo perchè è contemporaneo a
Gesù.
Questa contemporaneità non è l'esito di una certa tecnica o abilità,
bensì del trionfo di Gesù sulla morte e i nostri limiti. Per la sua resurrezio-
ne è stato costituito di nuovo Signore del tempo e dello spazio, che usa
tutto per farsi presente: «Io sono con voi fino alla fine del mondo». Il
tempo e lo spazio per Gesù risorto non sono dei limiti come lo sono per
noi, ma occasione per manifestare la sua signoria. Egli può farsi presente
dove e come vuole, è sovranamente libero di apparire come vuole. Oggi la
presenza di Gesù arriva a noi attraverso il viso dell'uomo di fede, di colui
che Gesù stesso assimila a sé. E così, ne abbiamo esperienza nell'incontro
con una umanità diversa, eco dell'avvenimento iniziale. Giovanni Paolo II
lo ricordava poco tempo fa: «La scoperta di questa strada (cioè di Cristo)
avviene normalmente grazie alla mediazione di altri esseri umani. Segnati
mediante il dono della fede dall'incontro con il Redentore, i credenti sono
chiamati a diventare eco dell'avvenimento di Cristo». E basta riconoscerlo
affinché tutto diventi più luminoso, le circostanze che viviamo svelino un
senso positivo e il cuore sperimenti la letizia e la pace. Solo dentro
questa esperienza nella quale uno diventa oggetto dello sguardo e dell'
abbraccio di Gesù può ripetersi l' esclamazione che l' autore di un
Vangelo apocrifo pone nelle labbra di coloro che si incontrano con
Gesù: "Gesù, figlio di Davide, tu sei colui che cambia la tristezza in
gioia e i lamenti in grida di giubilo. Felici gli occhi che godono
della bellezza del tuo volto".
LA SCUOlA ESEGETICA DI MADRID
All'origine di questa scuola sta un professore di esegesi del Nuovo
Testamento del Seminario di Madrid, D. Mariano Herranz Marco. Le sue
lezioni, accurate e rigorose, riuscirono a risvegliare in un gruppo di giovani
studenti di teologia la passione per uno studio approfondito del Nuovo
Testamento. Il suo magistero, invece di indurre al sospetto verso i dati e i testi
su cui di fonda il fatto cristiano - oggi così frequente nello studio esegetico -,
confermava la fede e procurava argomenti adeguati per dar ragione di essa.
Lungi dal pietismo superficiale e dalla critica razionalista, il suo avoro tenta di
mostrare il solido fondamento della fede cristiana.
La preparazione specificamente esegetica del professor Herranz inizia poco
dopo la sua ordinazione sacerdotale. Nel 1953 studia lingue semitiche per ben
nove anni con P. Joaquìn M. Penuela, s.j.dottore in lingue semitiche presso
l'Università di Berlino. Acquisisce cosi un'eccellente preparazione in ebraico,
aramaico, ugaritico, siriaco, arabo, etc., idiomi indispensabili per lo studio
delle Scritture. A questo bisogna aggiungere la sua passione per la letteratura,
che gli giova un' acuta intuizione letteraria nel leggere le Scritture e individuare
le difficoltà che presenta la lettura di un testo, e, allo stesso tempo, gli fornisce
una vera acutezza nella lettura degli indizi di una possibile soluzione.
I suoi discepoli, che formano con lui il gruppo della Scuola di Madrid,
hanno studiato sotto la sua guida. Tutti hanno frequentato la Scuola Biblica di
Gerusalemme e altre università. Lo stage a Gerusalemme offrì loro l'indiscuti-
bile vantaggio di familiarizzare con lo scenario dei fatti raccontati nei Vangeli,
oltre alla possibilità di lavorare anche con studiosi di fama internazionale.
Lo studio della Scuola di Madrid si incentra su quei passaggi del Nuovo
Testamento che presentano difficoltà nella redazione o nel significato. La ricer-
ca concerne i passaggi che, a causa di una redazione incongruente, implicano
un significato oscuro o inintelligibile. Tempo fa, sorse in loro il dubbio che
tutte queste "inesattezze" non fossero dovute all'autore originale, ma a delle traduzioni sbagliate di un testo primitivo aramaico. Nonostante ciò, il loro
primo e principale interesse non è mai stato quello di dimostrare che i
Vangeli o le loro fonti furono scritti originalmente in aramaico. L' ipotesi di
originali semitici di questi scritti si resentò con chiarezza mentre cercavano
di far luce sull' oscurità di determinati passaggi, mediante un lavoro filologico
del quale formava parte importante la possibilità che in quei casi il testo
greco rappresentasse una traduzione difettosa di un originale ebraico o ara-
maico. In realtà, quello che veramente li spronò dall' inizio, fu il desiderio di
chiarire gli enigmi che si trovano nei testi Sacri.
Il primo compito di studiosi che cerchino di fare una buona esegesi è quel-
lo di identificare le anomalie di redazione o di senso e spiegare come hanno
potuto prodursi le strane espressioni del greco che ci troviamo davanti. Non
è necessario dimostrare che questa ricerca risulti in molte occasioni faticosa e
lenta, e, purtroppo, per raggiungere una sufficiente certezza di aver raggiunto
la meta, non si conta su altro che non il senso trasparente e coerente della
narrazione ricostruita per sanare i difetti del testo greco.
Una esegesi degna non è possibile senza un lavoro duro e rigoroso di ordi-
ne filologico. Nel caso dei testi del Nuovo Testamento questa filologia non
potrà non essere mai completa se non si specifica, in caso di necessità, come
filologia bilingue, greca ed ebraico-aramea. Perché un' elementare considera-
zione di fronte a determinati testi, tanto dei Vangeli come delle lettere di
Paolo, è il fatto che sia inconcepibile che un autore che scrivesse direttamente
in greco lasciasse dei passaggi di uno o più versetti, e perfino capitoli interi,
in una redazione oscura, che resiste a ogni traduzione e interpretazione,
oppure il cui significato risulta chiaro, ma con un senso completamente
incomprensibile, contraddittorio e inaccettabile.
Purtroppo l'esegesi odierna non tiene conto abbastanza di questo dato. Nel
secolo XIX e al principio del XX si pubblicarono non pochi studi sul substra-
to semitico del greco del Nuovo Testamento; ma attualmente sono piuttosto
rari. Questa situazione si deve in parte alla decadenza degli studi umanistici e
filologici, ma anche a ragioni ideologiche. Ammettere il substrato semitico
dei Vangeli e di altri libri del Nuovo Testamento, mette in questione certi
schemi esistenti sull' evoluzione e lo sviluppo della primitiva tradizione
cristiana. Certamente la dimenticanza di questo dato favorisce il permanere di
certi schemi e cliché di interpretazione esegetica, ma soprattutto ostacola la
comprensione viva dei testi sacri. Perché le traduzioni sbagliate hanno intro-
dotto in essi non solo oscurità o stranezze, ma a volte hanno occultato dati
significativi e bellissimi della vita reale o della teologia, che rimasero
sepolti sotto le macerie di traduzioni sbagliate.
PER
DEI VANGELI:
GESÙ FIGLIO DI DIO
NEL VANGELO
DI MARCO
al Centro Culturale di Milano
3 ottobre 2002
Adriano