Il Cavaliere ed il Guerriero
Senza
dubbio è stata una grande rivoluzione quella che, nel corso del
X secolo, ha praticamente eliminato la vecchia distinzione della società
in liberi e servi per sostituire a tale antica dicotomia – ben più antica
della civiltà ebraica, romana e
germanica, dalle quali l’Occidente traeva la sua origine culturale – quella
più pratica e significativa in milites e rustici, che implicava
l’individuazione di un confine preciso non già nel campo
normativo-istituzionale, bensì in quello in quello delle funzioni sociali e dei
generi di vita, tra coloro (i pochi, in fondo) che avevano il privilegio di
portare le armi e di combattere ed erano per questo normalmente esenti dal
sopportare il carico delle imposizioni bannali e coloro (la stragrande
maggioranza dei laici) dai quali ci si aspettava un impegno nel mondo della
produzione tale da soddisfare alle loro stesse peraltro limitate esigenze e a
quelle, un po’ più pesanti e sofisticate, di quanti dei frutti del loro
lavoro avevano il privilegio di poter vivere.
Il
mondo del X secolo (e, già da prima, quello della metà del IX secolo) è duro
e pericoloso; la pura sopravvivenza vi costituisce da sola una preoccupazione
costante ed un assillante impegno. Le incursioni vichinghe, magiare saracene
razziano le coste e tormentano l’entroterra della compagine euro-mediterranea
orientale; ad esse si accompagnano – e, passate che esse saranno, si
sostituiranno – le continue lotte all’interno di aristocrazie rapaci e
violente, cristianizzate solo superficialmente anche se fiere delle delle
fondazioni monastiche da loro promosse e superbe del ricco bottino di reliquie
radunate un po’ da ogni dove ed ostentate, venerate ed onorate come oggetti
carichi di un magico potere. L’Europa del tempo fiorisce di castelli (alcune
regioni, come la Pastiglia ne traggono addirittura il nome), insediamenti
fortificati dove ci si rifugia stretti gli uni agli altri mentre fuori si
scatena la furia dei barbari e dei “tiranni”; eppure, sono in gran parte le
scomode e precarie condizioni del viver castellano che reinsegnano alle genti
d’Europa la pratica dell’autodifesa e dell’autogoverno.
La durezza dei tempi determinò d'altronde il riemergere di costanti e di esigenze profonde: per esempio la scansione della società nei tre livelli funzionali degli oratores, dei bellatores e dei laboratores. Ormai il pregare, il combattere e la fatica dei campi erano considerati, sia pure a un diverso livello di rispettiva dignità, come i tre fondamentali aspetti del vivere civile, i tre pilastri del mondo cristiano. Gli studi di Georges Dumézil hanno splendidamente e definitivamente confermato che questa tripartizione funzionale ha lontane scaturigini nella cultura indo-europea; ma a noi interessa non rintracciare delle costanti, bensì individuare lo specifico medievale di un processo secolare, anzi millenario, di apprezzamento della guerra e del guerriero che, in una lunga fase d'insicurezza, ha consentito tra X e XII secolo alla società cristiana — gli ideali più elevati della quale sono e restano, nonostante tutto, ideali di pace — di elaborare un complesso etico-teologico teso alla sacralizzazione della pratica militare.
Tutto può quindi cominciare di qui: dal fosco periodo delle incursioni barbariche e della cosiddetta « anarchia feudale » compreso tra fine IX e XI secolo; da questa parola, miles, che poco a poco sostituisce tutti gli altri termini indicanti il guerriero (sicarius, buccellarius, gladiatore fino ad allora usate a qualificare gli armati riuniti in comitive strette attorno a un dominus, a un principe. Già il vecchio Tacito aveva descritto il comitatus germanico, che conosce nell'alto Medioevo molteplici varianti dalla trustis franca alla druzina russa: all'interno di esso si era elaborata nel tempo un'etica fatta di coraggio, di fedeltà all'amicizia, di affetto verso il principe considerato non tanto il dominus quanto piuttosto il senior, il capobranco, il « vecchio » dal quale ci si aspettano doni e protezione. Era nell'ambito di questi Mànnerdùnde, di queste « società di uomini », che si erano conservati i rituali iniziatici di ammissione alla cerchia di quanti erano ritenuti degni di portare le armi: rudi prove di forza» e di sopportazione del dolore, ferite rituali e prove di destrezza ai limiti di quel che la Chiesa cristiana avrebbe potuto considerare lecito. Un tempo — ancora una volta, spetta a Tacito l'avercelo rammentato — tutti i giovani guerrieri delle selve e delle steppe avevano dovuto affrontare prove di quel genere: ma a partire dall’ VIII secolo la tendenza alla specializzazione del mestiere delle armi e quindi alla generale demilitarizzazione delle società romano-barbariche (resa necessaria dal crescente uso del cavallo in guerra e dall'appesantirsi nonché dal lievitare sul piano dei costi dell'equipaggiamento offensivo e difensivo richiesto al guerriero, come i Capitularia carolingi dimostrano) aveva fatto sì che soltanto fra quei gruppi ormai d'elite che erano
le comitive guerriere strette attorno ai principi aristocratici si mantenessero le antiche tradizioni; e la consegna solenne delle armi era divenuta addirittura patrimonio dei rituali che segnavano l'accesso dei giovani principi al mondo del potere. Queste le basi della cerimonia che noi siamo abituati a definire «addobbamento» e che, insieme con il combattimento a cavallo e i segni esteriori distintivi di tali condizioni e genere di vita, avrebbero, appunto, contribuito al definirsi del cavaliere.
Il professionista della guerra tra X e XI secolo è pertanto, ordinariamente, il membro della comitiva guidata da un grande aristocratico o chiamata a presidiare la sua dimora; può per questo detenere o no dal suo senior dei beni in possesso a titolo . vassallatico oppure armi, cavalli e vesti da considerarsi una sorta di stipendio; può vivere solitamente presso il senior oppure condurre la propria esistenza su terre proprie o concessegli; può essere di condizione personale libera o servile, appartenere cioè — in questo secondo caso — al gruppo dei cosiddetti ministerialis.
Sotto il profilo propriamente militare, ormai la critica ha abbandonato le sponde sia dell'evoluzionismo, sia del determinismo. Nessuno crede più alla tesi d'una cavalleria nata « naturalmente » nel corso dell' VIII secolo, dal bisogno di contrastare le rapide incursioni degli Arabi di Spagna; e quasi nessuno si ostina più a sostenere che essa sia il necessario prodotto dell’ invenzione di un oggetto, la staffa, che avrebbe consentito una maggiore stabilità in sella e quindi lo sviluppo dell'attacco a fondo del cavaliere lanciato al galoppo e il cui urto possente con la lancia tenuta stretta sotto l'ascella avrebbe travolto qualunque ostacolo. La nostra attenzione è semmai volta, oggi, a cogliere al crescente prestigio del combattente a cavallo attraverso la considerazione del permanere di un complesso sacrale connesso con quell'animale nelle culture delle steppe; e ad approfondire il legame tra i costi sempre più alti della guerra e dell'equipaggiamento militare (cavallo stesso, armi di ferro, giaccone imbottito e rinforzato detto bruina) da una parte, e il definirsi della gerarchia delle dipendenze vassallatiche e al tempo stesso il dilatarsi della distanza socio-economica e socio-giuridica tra armati e inermi dall'altra.
Lo scontro fra i grandi detentori di signorie bannali, ciascuno dotato di seguaci armati, diviene il dato caratteristico della vita del X-XI secolo, cioè del lungo periodo corrispondente al polverizzarsi dei pubblici poteri e alla cosiddetta « anarchia feudale ». È questo il tempo nel quale gli armati sono anzi tutto tyranni, praedones, e le loro violenze nei confronti degli indifesi e in genere di tutti quelli che la Chiesa definisce pauperes (i chierici stessi, le vedove, gli orfani, in genere gli incapaci di difendersi e gli sprovvisti di qualunque forma di tutela) sono sempre più spesso denunziate, specie nelle fonti vescovili.
Furono appunto i capi di certe diocesi, ben presto affiancati da aristocratici e da milites che essi erano riusciti a convertire al loro programma e da laici di condizione anche subalterna preoccupati per l'endemicità di uno stato di violenza che impediva il decollo o la ripresa dei traffici e della vita economica, ad avviare tra la fine del X e i primi dell'XI secolo il movimento della pax e della tregua Dei: santuari, ospizi, mercati, guadi, strade, furono posti sotto una speciale tutela (la pax, appunto) sulla base della quale chiunque commettesse in quei luoghi atti di violenza era passibile di scomunica; lo stesso provvedimento fu varato a tutela di tutte quelle categorie di persone che per la loro debolezza venivano considerate pauperes (una parola dal senso tutt'altro che esclusivamente economico); e si giunse infine a stabilire che gli atti di guerra, già proibiti dalla pax in certi luoghi e nei confronti di certe categorie, erano altresì vietati in precisi giorni della settimana. Se l'uccidere era sempre e comunque peccato mortale, la tregua Dei faceva sì che il commettere assassinio tra il pomeriggio del giovedì e quello della domenica comportasse addirittura la scomunica. In questo modo, pur senza proibire tout court la guerra (un provvedimento che sarebbe stato impensabile, in una società egemonizzata da guerrieri), la si limitava il più possibile piegandola alle esigenze della generale ripresa della vita sociale ed economica e a quelle della riforma della Chiesa che appunto in quei medesimi anni si andava attuando nel contesto di un vasto movimento avviato dalla congregazione monastica facente capo all'abbazia di Cluny in Borgogna; riforma che puntava alla cosiddetta libertas Ecclesiae, cioè all'eliminazione delle pesanti ipoteche poste da parte dei poteri laici sulle istituzioni ecclesiastiche.
D'altra parte il programma del movimento di pax e tregua Dei, che si sviluppava attraverso una serie di concilii locali ai quali partecipavano, regione per regione, il clero ma anche i laici dell'area interessata, non avrebbe avuto la possibilità di espandersi e di affermarsi (al pari del resto di quanto accadeva ad esempio in Italia con i movimenti che anche a mano armata appoggiavano il programma del clero riformatore nella cosiddetta « lotta per le investiture ») se non fosse riuscito a mobilitare dei guerrieri disposti a imporre con la forza il programma di pacificazione a quei tyranni che ancora si ostinavano a insanguinare la Cristianità con le loro lotte private e a quegli aristocratici i quali, dopo aver giurato i patti di pace e di tregua, si erano dati di nuovo alle violenze ed erano detti per questo infractores pacis. Se già le comitive di milites conoscevano un'etica basata sul coraggio, la fedeltà al capo e l'affetto per il compagno d'arme, l'etica più propriamente « cavalieresca » nasce invece dai canoni ecclesiastici dei concilii di pace: essa si basa sul servizio dovuto alla Chiesa e sulla difesa dei pauperes — dei più deboli — spinta sino al sacrificio di sé. Fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta dell'XI secolo papa Gregorio VII, assumendo a modello figure come il miles Erlembaldo Cotta che era stato il capo militare della pataria milanese, elaborava il nuovo concetto di miles sancti Petri, sviluppo certo ma anche sostanziale modificazione di quello di miles Christi. Quest'ultima espressione aveva a lungo indicato il martire; in seguito era passata a qualificare il monaco, l'asceta, insomma chiunque si desse alla preghiera e alle cose dello spirito affrontando nel silenzio del suo cuore la pugna spiritualis contro il peccato. In questo senso militia Dei e milifia huius saeculi, impegno religioso e impegno mondano, erano stati a lungo sentiti come antitetici. La Chiesa impegnata nella lotta per la riforma e per l'affrancamento dalla tutela dei principi laici sentiva ora però di aver bisogno di tutte le forze che potevano essere funzionali al suo nuovo programma, le militari non escluse: e papa Gregorio non esitava, per questo, a rimproverare severamente un nobile che aveva deciso di abbandonare il mondo e di rinchiudersi in un'abbazia. Quel che fino a poco tempo prima sarebbe parso scelta tanto santa quanto eroica, ora si presentava come abbandono di una trincea di prima linea. Nasceva un nuovo tipo di miles Christi, o meglio, appunto, sancti Petri, disposto a impegnare la sua spada al servizio del sacerdozio. E forse allora l'addobbamento cavalleresco, che era stato fino a quel punto cerimonia laica compiuta all'interno dei gruppi di professionisti delle armi che liberamente avessero deciso di cooptare un nuovo compagno d'arme, cominciò a comportare un riconoscimento religioso da parte di una Chiesa che del resto già da tempo (e ce ne rende certi una fonte come il pontificale romano-germanico di Magonza del X secolo) usava benedire le armi, al pari di quanto faceva con gli strumenti di lavoro e d'uso quotidiano.
Dura con tyranni e praedones, la nuova Chiesa uscita dalla riforma si dimostrava quindi, al contrario, significativamente benevola con quanti nel mondo laico avessero accettato di porre al suo servizio la loro abilità militare e il loro coraggio. Modello di questo nuovo atteggiamento può in parte essere considerato uno scritto agiografico, la Vita di san Gerardo d'Aurillac scritta da Odono abate di Cluny: prima di accedere al mondo del monastero, Gerardo aveva difatti condotto vita di guerriero; e anche in quella veste, secondo il suo biografo, aveva servito adeguatamente Iddio. L'addio alle armi come segno di convento, secondo lo schema edificante formulato nella Vita Martini di Sulpicio Severo, sembrava con ciò superato. Ora, ci si poteva santificare anche servendo in armi la Chiesa.
Non si deve pensare che questo mutato atteggiamento fosse dovuto soltanto alle esigenze affiorate attraverso il movimento della pax Dei o durante la lotta per le investiture. Il fatto è che la Cristianità occidentale dell'XI secolo attraversa una fase di vigorosa espansione, della quale sono espressione anche le imprese militari condotte da gruppi di cavalieri oppure dai marinai delle città marittime specie del Tirreno contro un Islam che, dopo la straordinaria esplosione dei secoli VII-X, sta ora attraversando una fase di ristagno nel suo movimento di conquista e di crisi nella sua interna compagine. Sembra giunta pertanto la volta della controffensiva cristiana, quella che nella Spagna islamizzata a partire dall' VIII secolo si manifesta appunto con la cosiddetta Reconquista e che trova le sue basi nella propaganda — in qualche misura favorita da Cluny — del pellegrinaggio verso il santuario di Santiago de Compostela in Galizia e nella sete di avventura e di bottino di certi gruppi di cavalieri soprattutto francesi che non esitano a porsi al servizio mercenario dei nobili cristiani di Leon, di Castiglia e di Aragona. Esito di questa tensione e di questi scontri non è, sul piano della tradizione culturale, soltanto l'epopea cristiano-nazionale del Cantar de mio Cid, bensì una vasta messe di canti epici e di leggende in cui la fede cristiana e il senso del miracolo appoggiato alla narrazione di frequenti apparizioni e al culto di reliquie e di santuari si traducono in un originale « cristianesimo di guerra », che fa coincidere l'esaltazione della spiritualità cristiana con la gloria militare e mostra sovente la Vergine e san Giacomo insieme con i « santi militari » Giorgio, Teodoro, Mercurio, Demetrio, Martino ed altri nell'atto di comparire in battaglia, tra bianchi vessilli, incitando i cristiani e atterrendo e fugando gli infedeli. Analogo clima si respira in certe narrazioni relative alla conquista normanna della Sicilia, nelle fonti che narrano le gesta
dei marinai pisani all'assalto di al-Mahdiah nel 1087 o, venticinque anni più tardi, delle Baleari, oppure nello stesso più celebre testo della poesia epica occidentale del tempo, la Chanson de Roland.
L'eroe cristiano Rolando, nipote di Carlomagno, non è privo di un rapporto con una veridicità storica pur molto tenuemente attestata. Quel che qui importa, tuttavia, non è il sapere se un personaggio di tale nome sia davvero esistito nell'entourage carolino e se la sua fama sia in qualche modo giustificata dalle sue gesta. Il fatto è che la sua morte, avvenuta nelI' VIII secolo durante un'imboscata al passo pirenaico di Roncisvalle, dette
più o meno immediatamente luogo al nascere di una tradizione epica che venne assunta nell'XI secolo a paradigma di martirio per la fede. La sua fine, narrata dai versi commossi della Chanson. è quella di un santo vassallo d'un Dio guerriero; prima di chiudere gli occhi, il paladino rivolge un autentico canto d'amore alla sua lucente spada Durendal, nel pomo della quale sono racchiuse preziose reliquie, e indi porge in atto supremo di fidelitas il suo guanto a Dio, alzandolo verso il cielo; che immediatamente si apre, per consentire a una turba evangeli di scendere ad accogliere l'eroe e a portarlo in volo alle porte del Paradiso.
Si discute da decenni circa l'originalità della Chanson de Roland, il ruolo della poesia epica e il suo rapporto con una precedente tradizione guerriera, che potrebbe appunto risalire alla stessa antichità germanica pagana. Ma certo è che questi angeli che scendono verso il conte Rolando e lo scortano in cielo non sono travestimenti delle Valchirie: sono proprio angeli cristiani, rivissuti e rivisitati tuttavia in un complesso di valori concettuali e di sensibilità che deve molto alla tradizione guerriera ancestrale, ma molto di più a un'ecclesiologia ispirata al Vecchio piuttosto che non al Nuovo Testamento. Il Michele guerriero dell'epica è il biblico « Principe degli eserciti del Signore », e il Dio cristiano di Rolando, anche se sovente lo si ricorda amorosamente come « Figlio di Maria », è in realtà anzitutto il terribile Dio d'Israele, il Dominus Deus Sabaoth Signore delle battaglie e della vendetta.
Ma, giunti a questo punto, un problema s'impone: è stata davvero la Chiesa gregoriana gerarchica e ierocratica, così com'è scaturita dalla riforma dell'XI secolo, a « inventare » gli ideali cavallereschi, modificando sostanzialmente l'antica etica feudomilitare e, anzi, originariamente opponendosi a quella ed elaborando un sistema di virtù guerriere basato sull'ideale di difesa dei deboli e di martirio per la fede da opporre al mondo dei vecchi valori, basato sul coraggio e sulla coesione professionale-iniziatica di gruppo? La constatazione che le chansons de geste dovessero concettualmente e stilisticamente molto alle formule liturgiche e ai testi agiografici, e che quindi potessero essere in realtà strumenti di una propaganda gestita da ambienti ecclesiastici, ha in passato giocato un ruolo notevole nell'imporre tale tesi. Oggi, tuttavia, molti sono gli studiosi che pensano semmai, al riguardo, proprio l'opposto: che cioè le chansons siano la voce antica, magari riveduta e affinata fra XI e XII secolo (e se si vuole aggiornata a un nuovo sentire possentemente segnato dal leit-motiv dell'eroismo religioso), di una cultura laica largamente autonoma; e che sono forse le formule liturgiche e la letteratura agiografica ad essersi adeguate ad esse in modo da acquistare, giocando sulla loro popolarità, una più forte capacità di impiantarsi solidamente nelle coscienze e nell'immaginario collettivi. Non tanto quindi cristianizzazione della cultura cavalleresca quanto, se si vuole, militarizzazione ed eroicizzazione di alcuni modelli di testimonianza cristiana giudicati particolarmente capaci di far presa, di commuovere, di servire insomma quale strumento di propaganda.
La Chanson de Roland offre un primo importante modello di codificazione del ritterliches Tugendsystem, del « sistema etico cavalleresco ». I due poli attorno ai quali esso ruota sono la prouesse, il valore, e la sagesse, « la saggezza », cioè quella speciale sagacia affinata dall'esperienza che suole tradursi in termini di prudenza. Termini l'uno complementare all'altro, il risultato dell'armonica compresenza dei quali è la mesure, il ben
sorvegliato equilibrio. Il prode che non sia saggio, è un folle; il saggio che non sa essere prode, cade per contro nella viltà.
Ma in effetti di rado il cavaliere possiede entrambe le virtù basilari in armonico rapporto: esso nasce piuttosto dalla fratellanza d'arme di cavalieri l'indole dei quali sia complementare; dal compagnonaggio di uno prevalentemente forte e di uno prevalentemente saggio. Insomma, il perfetto cavaliere — e su ciò insisterà anche la trattatistica, dal riformatore gregoriano Bonizone da Sutri fino a Raimondo Lullo teorizzatore della soluzione mistica della cavalleria — più che un individuo è il risultato dell'esercizio di quello che tanto Cicerone quanto san Bernardo e Aelredo di Rievaulx definiscono amor socialis e che coincide con la notitìa contubernii. lo spirito di gruppo e di corpo. Questo è forse il senso più riposto ma anche più evidente dell'immagine raffigurata nel controsigillo dell'Ordine templare, che mostra due cavalieri su un solo cavallo; ed è nel nome di questi sensi di fraterna amicizia e di calda solidarietà che un autore del Trecento, appunto esaltando i valori cavallereschi, esclamerà — senz'ombra di quell'estetismo che ha fatto dire tra Otto e Novecento tante analoghe frasi — « Che dolce cosa è la guerra! ».
A questo punto è necessario aggiungere tuttavia — e proprio a comprovare quanto profondamente « laico », e quanto poco cristiano nell'intimo, fosse il mondo di Rolando — che a "guerra giovane e fresca", la "bella guerra" che tanto urtava un Mare Bloch, non è affatto invenzione di certo isterismo decadente di moda alcuni decenni or sono. Essa si trova senza dubbio nella tradizione epica antichissima; e in una specifica forma è appunto presente nel mondo cavalleresco medievale, nel quale si ha la sensazione che il saggio adagio erasmiano, bellum dulce inexpertis, non sia neppure granché valido.
Uno dei più caratteristici elementi della poesia cavalleresca, che tornerà difatti nella fin'amor trobadorica, è la joie, che di solito si associa alla gioventù. Un'interpretazione unilateralmente sessualistica o addirittura erotica di questi valori, mirante a sottolineare i nessi fra età giovanile e godimento della vita, sarebbe però malintesa: in realtà, la gioventù va messa in rapporto stretto con gli iuvenes, i cavalieri addobbati di fresco i quali vagano in gruppi alquanto turbolenti in cerca di un'avventura che è, sovente, violenza e soperchieria; la « gioia », così come la troviamo in talune chansons de geste, più che a uno stato di piacevole e ottimistica euforia corrisponde a un'eccitazione feroce, a un'esaltazione ferina non lontana dal wut della tradizione germanica pagana, il furor, la trance guerriera della quale sono state poste in rilievo le valenze sciamaniche. Non ci stupiremo certo di imbatterci in questi elementi in un testo come il Raoul de Cambrai, cupa storia di atroci vendette: ma un clima non dissimile anima anche le chansons, per tanti versi edificanti, del ciclo di Guglielmo d'Orange, che è invece un guerriero convertito al chiostro; e perfino un poema come l' Aliscans, nel quale si narra il martirio del giovane puro eroe Vivien, quasi un santo nella logica della narrazione e nondimeno un terribile macellaio nella sostanza degli episodi narrati.
Insomma, se le chansons sono una straordinaria finestra apertura sulla mentalità delle corti e dei mercati, dei cavalieri e dei laici di ceto inferiore che al narrar delle gesta cavalleresche prendevano piacere, bisogna ben guardarci dal fraintendere il loro pur sincero e magari ardente spirito cristiano accogliendolo come esito di una teologizzazione dello spirito militare da parte della Chiesa. Non solo in moltissimi episodi — ad esempio nelle scene di battesimo forzato dei saraceni —, ma più in generale nello spirito di fondo che anima questa letteratura, il tipo di cristianesimo proposto è esplicitamente laico e sovente folklorico, esente comunque da preoccupazioni dottrinali e non di rado venato addirittura di umori antichiericali il tono più qualificante dei quali è talora l'irriverenza, talaltra la rivendicazione di una sacralità specifica della professione cavalleresca, diversa
e magari migliore e più grata al Signore di quanto non sia quella amministrata dai preti. Tale, ad esempio, l'atmosfera che sembra circolare in scene come quelle, abbastanza frequenti, nelle quali i cavalieri feriti e in punto di morte si confessano e si assolvono
tra loro o addirittura si comunicano l'un l'altro usando a mo' di sacra particola un filo d'erba raccolto sul campo di battaglia.
A tale logica non sfuggono neppure le chansons del ciclo consacrato alla prima crociata, nelle quali vibra l'epos di quell'impresa compiuta tra 1096 e 1099 nella quale — e non a torto, ne illegittimamente — si è voluto scorgere l'esito diretto e immediato della cristianizzazione della cavalleria. Oggi noi sappiamo che nella prima crociata (come del resto in Francia nelle contese nate attorno alla pax Dei, nell'Italia della lotta per le investiture e nella Spagna della Reconquista) agivano gruppi di « poveri
cavalieri » ricordati anche nelle chansons, ma a proposito dei quali l'aggettivo « poveri » non dev'essere interpretato genericamente. Non si trattava affatto, in altri termini, di gente necessariamente indigente o di mèmbri della piccola aristocrazia, per quanto guerrieri di tale condizione socio-economica — magari privi di seguito sia pur modesto e proprietari solo del loro cavallo e delle armi che recano indosso — si incontrino in effetti
tanto nella poesia quanto nella realtà documentaristicamente attestata del tempo. Questi cavalieri si dicevano « poveri » in quanto, accettato il programma d'austerità della Chiesa riformata, avevano messo da parte la loro sete di gloria, di ricchezze e di avventura per consacrarsi ad esso pur restando laici e guerrieri: la loro vocazione, in altri termini, profila un'esperienza comune a quella di molte confraternite laicali del tempo. Si ha,
vogliamo dire, fondato motivo di credere che il nuovo clima che si respirava nella Cristianità all'indomani del trionfo del pur a sua volta composito gruppo dei riformatori (e chiamare la riforma dell'XI secolo, in blocco, « gregoriana », è inaccettabilmente riduttivo) avesse coinvolto molti membri del mondo cavalleresco. Tuttavia il prodotto più interessante della crociata sotto il profilo della poesia epica, la Conquéte de Jérusalem,
non si mostra per nulla toccato dal senso più profondo della riforma: la scena che esso ci presenta è quella dei consueti prodigi (angeli e santi che scendono in campo accanto ai cristiani) e di quel senso di emotività stilizzata e formalizzata, ma anche violenta, tipico degli eroi epici — i quali si commuovono, svengono per l'emozione, singhiozzano —, ma anche di efferata spietatezza (in questo caso, peraltro, sappiamo che la conquista della Città Santa fu in effetti accompagnata da un terribile massacro nel quale perirono alla rinfusa musulmani, ebrei e cristiani orientali che i crociati non distinguevano gli uni dagli altri). Eroe della Conquéte, accanto a Goffredo di Buglione, è Thomas de Marle, che ascende per primo le mura della città quasi volando sui ferri delle lance dei suoi uomini e che non esita neppure a massacrare delle donne; è animato da pio fervore e si commuove fino alle lacrime dinanzi al Sepolcro del Cristo, ma ciò non toglie che sia in possesso di un talismano magico che gli assicura invulnerabilità in battaglia. Nella realtà dei fatti, non sappiamo se davvero Thomas de Marle scalò per primo le mura gerosolimitane, merito che più tardi gli sarebbe stato conteso da legioni di eroi veri o supposti: quel che sappiamo di lui (e diffusamente ce ne parla Guiberto abate di Nogent, egli stesso cronista della crociata e autobiografo), cioè della sua figura storica, fa rabbrividire. Si è davanti a un feudatario le cui gesta oscurano, per ferocia e barbarie, quelle del Raoul de Cambrai dell'epopea: evidentemente, il suo pianto dinanzi al Santo Sepolcro (che può ben essere stato episodio autenticamente storico, e della sincerità del quale non si ha motivo di dubitare) non ha in sé proprio niente di contraddittorio, a patto che si tenga presente che nella ricostruzione della vita mentale, affettiva ed emotiva dei secoli XI-XII non si debbono commettere anacronismi, e che quella gente pensava in modo molto diverso dal nostro e non condivideva affatto il nostro concetto di coerenza.
Thomas de Marle tuttavia, pur potendo ben essere stato un valoroso crociato, non era certo un « povero cavaliere » del tipo di quel Gualtieri detto « senza Averi » che alla prima crociata guidava una schiera di populares, forse addirittura di ribaldi; e che più che un avventuriero senza mezzi sembra essere stato un esempio di quei membri dell'aristocrazia militare veramente, e sinceramente, guadagnati alla causa della riforma ecclesiastica e decisi a spendere il resto della loro vita al servizio del nuovo ideale. Dello stesso tipo doveva essere quel pugno di guerrieri e di piccoli aristocratici soprattutto provenienti dalla Borgogna e dalla Champagne che, verso la fine del secondo decennio del XII secolo, si riunirono attorno a un personaggio del loro stesso rango, tale Hugues de Payns. Si trattava di ex crociati o di nuovi arrivati in Terrasanta in qualcuno dei molti pellegrinaggi che si erano succeduti dopo che la notizia della conquista crociata del 1099 si era diffusa per il continente europeo. Avevano trovato dovunque, in Palestina, non entusiasmo, ma disordine, desolazione, abbandono. I massacri indiscriminati della gente del posto, insieme con l'esodo di parecchi terrorizzati superstiti, avevano ridotto alla miseria quelle contrade un tempo fiorenti; d'altro canto, esaurito l'effetto della sorpresa al quale si deve in gran parte il successo della crociata, l'Islam si andava riorganizzando e puntava alla riconquista. I pellegrini, sciolto il loro voto al Sepolcro, tornavano in patria: ma chi avrebbe garantito la difesa delle conquiste del 1099?
Dalla necessità di presidiare i territori guadagnati, di difendere i pellegrini, di assistere i deboli e gli ammalati, di rendere, per così dire, « permanente » la mobilitazione che aveva reso possibile l'impresa crociata, nacquero i cosiddetti Ordini monastico-militari (o religioso-militari, religioso-cavallereschi); che per molti versi si possono considerare il più caratteristico prodotto dell'etica elaborata nelle « leghe di pace » e del desiderio dei
riformatori ecclesiastici di subordinare la cavalleria ai loro programmi, ma che sotto un altro profilo vanno, nei loro esiti anche immediati, molto al di là di tali limiti in quanto rappresentano li totale e integrale conversio di una parte almeno del mondo cavalleresco europeo alla vocazione ecclesiale. Non più, quindi, subordinazione e funzionalizzazione, bensì identificazione. La differenza è grande: Gregorio VII, che pur aveva parlato di una militia sancti Petri, non avrebbe forse gradito una soluzione così estrema e a suo modo estremistica.
Il legame fra le libere e forse spontanee confraternite di "poveri cavalieri" del tempo delle « leghe di pace » e della lotta per le investiture e gli Ordini religioso-militari è evidente sino
dal sodalizio riunito da Hugues de Payns: egli e i suoi seguaci pare assumessero in origine la denominazione di pauperes milites Christi, votandosi alla difesa del Sepolcro e dei pellegrini; ma al concilio di Troyes del 1128, formalmente accettata la regola del sodalizio, esso si trasformò da fraternitas in autentica religio, in Ordine. Poiché nel frattempo Baldovino II re di Gerusalemme aveva concesso a questi cavalieri di alloggiare in alcuni ambienti siti nel recinto dello Haram esh-Sharif, presso le due moschee della Cupola della Roccia e di al-Aqsa (che per i crociati erano, rispettivamente, il Templum Domini e il Tempio di Salomone), l'Ordine assunse il nome di « templare » che avrebbe mantenuto fino al 1312, anno del suo scioglimento per volontà del papa Clemente V in seguito a una serie di scandali nei quali esso era stato coinvolto, pare, soprattutto a causa delle ingenti ricchezze accumulate e che erano oggetto degli appetiti di re Filippo IV
di Francia.
Quello del Tempio è solo uno dei molti Ordini religioso-militari fondati nel corso del XII secolo in Terrasanta e nella penisola iberica, e più tardi anche nel Nord-Est europeo (dove avrebbero avuto il ruolo di condurre la conquista e la colonizzazione del mondo slavo e baltico) ma impiantatisi un po' in tutta Europa a causa del loro iniziale successo e anche delle molte donazioni in danaro e in terre delle quali furono fatti segno, nonché delle conversioni di membri dell'aristocrazia militare che, attratti dalla loro fama di austerità e di ascetico coraggio, accorsero nelle loro file. La fama di avidità, di violenza, di corruzione che taluni di loro in tempi differenti si sarebbero poi guadagnata, e nella quale non sempre è facile distinguere la corrispondenza con la realtà storica dall'interessata propaganda di avverse forze politiche, niente toglie comunque al significato originale della loro esperienza.
Tra questi Ordini vanno ricordati quello ospitaliero (quindi dedicato anzitutto all'accoglienza e all'assistenza dei pellegrini) di San Giovanni di Gerusalemme (che a partire dal Trecento si sarebbe detto « di Rodi », e dal Cinquecento invece « di Malta »,
a causa degli spostamenti del suo centro; e che sarebbe divenuto famoso per la sua marina), e di Santa Maria detto « dei Teutonici » in quanto potevano accedervi soltanto cavalieri d'origine tedesca. Entrambi furono fondati in Terrasanta. In Spagna invece, con lo scopo precipuo di ospitare e difendere i pellegrini diretti a Santiago e di combattere i Mori, sorsero Ordini quali quelli di Santiago, di Calatrava, di Alcantara; in Portogallo quelli di Montesa e di Aviz; nel Nord-Est europeo, dove ben presto s'impiantarono i Teutonici, la militia Christi di Livonia, detta « dei Portaspada » dall'emblema adottato (una spada cruciforme vermiglia in campo d'argento).
Sull'esperienza degli Ordini religioso-cavallereschi esistono intere biblioteche, ma non tutti gli scritti sono ugualmente affidabili. Quanto alla fonte prima della loro vocazione, si è parlato di una sua possibile derivazione dal Ribat musulmano, le fortezze di mistici-guerrieri frequenti soprattutto sul confine cristiano-musulmano della penisola iberica. Che contatti e influssi reciproci tra cristiani e musulmani, al tempo delle crociate e della Reconquista, vi siano stati, è fuor di dubbio, anche se ancora animatamente si discute sulla loro natura e intensità. Tuttavia, a parte una certa somiglianza tipologica che non impone comunque il ricorso, per essere spiegata, alla tesi dell'influsso reciproco (anche perché il cristianesimo non conosce un jihad, una « guerra santa »), resta il fatto che l'esperienza della pratica associativa fra i laici viva dall' XI secolo e le esigenze pratiche di difesa, sia in Terrasanta sia in Spagna, concorrono a spiegare con sufficiente carattere di convincibilità il sorgere di questi nuovi sodalizi solidamente impiantati sul tronco della tradizione monastica ma al tempo stesso dotati di una loro carica rivoluzionaria. In effetti, caratteristica ferma di qualunque Ordine religioso d'area cristiana è il rifiuto di compromissione a qualunque titolo con la guerra; sulla base della necessità contingente, viceversa, quelli religioso-militari — cui sono ammessi chierici e laici, questi ultimi distinti in cavalieri e in servientes — prescrivono, per le categorie laicali che vi hanno accesso, il voto del combattimento accanto a quelli di castità, obbedienza e povertà personale caratteristici di tutta la tradizione monastica. I Templari ammettevano, con una normativa speciale, anche cavalieri sposati. Gli Ordini poi, fra i quali i Templari e gli Ospitalieri giovanniti avevano una struttura sovranazionale non condivisa dagli altri, dipendevano direttamente dalla Santa Sede: cosa che faceva di loro altrettanti « stati nello stato », e ciò a lungo andare avrebbe creato grossi problemi.
Il fatto è comunque che, almeno sulle prime, gli Ordini parvero incarnare l'ideale della «cavalleria divina », la militia Christi contrapposta alla militia saeculi alla quale asceti e rigoristi della Chiesa non perdevano occasione — anche in polemica con i seguaci più fedeli di Gregorio VII, accusato non a torto di essersi tutto sommato preoccupato più di utilizzare la cavalleria ai fini della sua lotta politica che non di curarne una cristianizzazione profonda — per rimproverare la violenza fine a se stessa, la fatuità, il culto mondano della gloria, la ricerca del piacere.
Non militia, sed malitia. Il crudele gioco di parole, nel quale si riflette l'implacabile virtuosismo stilistico degli asceti, torna — pochi anni dopo il concilio di Troyes che aveva legittimato l'Ordine del Tempio — sotto la penna di colui che dei Templari fu il protettore e l'ispiratore: Bernardo di Clairvaux, uno zio materno del quale era stato tra i primi collaboratori di Hugues de Payns. In un trattato non privo di forza poetica — specie
là dove vengono rievocati quei Luoghi Santi che Bernardo non aveva mai visitato, ma che amava e che conosceva attraverso le Scritture — intitolato Liber ad mìlites Templi de laude novae militiae, il santo traccia il profilo ideale di una nuova cavalleria fatta di monaci-guerrieri, del tutto dimentica del mondo e integralmente votata alla causa della guerra agli infedeli e della difesa amorosa dei cristiani. La militia saeculi, dice Bernardo, non è solo empia per la sua mondanità e per il suo folle darsi alle guerre fratricide tra cristiani: essa manca anche di quella virilità che si richiede al guerriero, e difatti si distingue per la cura accordata all'acconciatura dei capelli e all'abbigliamento. Le pagine destinate alla satira del bel cavaliere laico — e quindi alla sferzante condanna proprio di quella cultura che si andava affermando nelle corti del tempo — sono durissime: le morbide mani chiuse da guanti di ferro, i bei profumati capelli coperti dall'elmo cesellato, la cotta di maglia di ferro lunga fino alla caviglia che ormai si cominciava a coprire (secondo un uso appreso forse in Oriente) di sontuose sopravvesti di seta colorata o trapunta, il grande scudo a mandorla ben dipinto, il cavaliere profano galoppa per prati in fiore verso la dannazione eterna. Gli si contrappone punto per punto il Templare: egli non cura i capelli, che anzi porterà rasati in segno di penitenza e per meglio calzare l'elmo; non pensa ad avere un volto liscio e levigato, e al contrario si lascia crescere una barba incolta (secondo un uso vivo in Oriente, ma allora non seguito dagli occidentali); non porta vesti colorate ne armi cesellate, in quanto la regola gli prescrive esplicitamente il divieto di dorature e ornamenti; non caccia sé non animali feroci, dal momento che tale esercizio — oltre che simbolo della pugna spiritualis: nel sapere allegorico del tempo le belve sono sovente simbolo e figura del demonio — gli è utile per la guerra; è temibile al pari di un leone per i nemici, gli infedeli, ma dolce come un agnello per i cristiani. Il Templare è monaco, eppure uccide: ciò è ben triste, ammette (un po' imbarazzato?) l'abate di Clairvaux, ben lungi naturalmente dal negare agli infedeli il diritto alla vita: peraltro, prosegue, la soppressione del pagano in armi si rende necessaria per difendere i cristiani e per impedire l'ingiustizia. Piuttosto che alla soppressione del nemico in quanto essere umano, il Templare deve por mente a sopprimere il male in ogni sua forma, e senza dubbio di male il pagano è in una qualche misura portatore: sia quindi un « malicidio », piuttosto che un omicidio, la sua morte.
Se Bemardo ha dunque giustificato e addirittura lodato l'istituzione dei monaci-cavalieri, egli non ha in cambio per niente giustificato la cavalleria tout court, ne ha proceduto a un disegno di sua cristianizzazione integrale. Al contrario, proponendo la soluzione dei bellatores negli oratores, e addirittura prospettando una sia pure ardua e in certo senso paradossale soluzione della guerra stessa in termini di preghiera e di esperienza ascetica, egli ha formulato nei confronti della professione cavalleresca come fatto esistenziale e come « genere di vita » una condanna totale.
Ciò non significa tuttavia che la sua testimonianza sia stata accolta in tale senso: ne che tale sia obiettivamente il senso storico da attribuirle. Sta di fatto che il modello anche stilistico degli scritti di Bernardo di Clairvaux e il suo insegnamento mistico-ascetico hanno contribuito potentemente all'edificazione della cultura e della poesia « cortesi », e che la sua venerazione per la Vergine è stata esemplare per lo sviluppo del concetto cavalleresco di servizio da rendersi disinteressatamente alla dama avvertita come superiore e inattingibile. Vero è che Eric Kohler e Georges Duby ci hanno insegnato, in ciò, ad andare oltre lo schermo delle forme letterarie e a cogliere le realtà sociali ad
esse sottostanti e di cui esse erano metafore; e non meno vero è che, nella logica non solo della vita di corte, ma anche della stessa poesia cortese, tale servizio alla dama si rivelava nella pratica molto meno spirituale e disinteressato di quanto possa alla lettera sembrare, e che anzi la decodificazione dei componimenti poetici prodotti in quell'ambito e del sistema ideologico ad essi sottostante ha dimostrato di quanto intenso e addirittura
pesante erotismo essi fossero permeati. Ciò non toglie tuttavia che il magistero del grande mistico cistercense e il fascino delle sue immagini sovrastino il secolo XII e costituiscano — insieme con altri fattori, quali ad esempio il paradigma offerto dalla poesia di Ovidio — la compagine intellettuale del mondo cortese.
Ciò spiega quindi l'apparente paradosso del fatto che, per quanto san Bernardo avesse respinto del tutto l'esperienza della cavalleria mondana, essa direttamente o indirettamente si rifece alla sua personalità e ai suoi scritti per cercarvi elementi tali
da legittimare il sistema immaginario elaborato riguardo ad essa da trattatisti e da romanzieri.
La ripresa di temi a carattere mistico-sacrale da parte di autori laici o in scritti comunque destinati a laici si coglie nettamente nel corso del XII secolo e poi in parte del XIII, mentre
le cerimonie di addobbamento — che tuttavia, nonostante qualche sforzo in tal senso, non avrebbero mai acquisito un vero e proprio carattere sacramentale ne sarebbero mai state celebrate tassativamente ne in Chiesa, ne da o alla presenza di religiosi (comunque, alla fine del Duecento il Pontificale di Guglielmo Durand forniva la sua sistemazione liturgica di questi riti) — acquistano forme sempre più simili a quelle dei sacramenti, specie del battesimo. In un testo anonimo primoduecentesco che può essere stato originariamente prodotto nella Terrasanta crociata, l'Ordène de chevalerìe protagonista del quale è il crociato Ugo sire di Tiberiade, il Saladino stesso è presentato come desideroso di ricevere « l'ordine di cavalleria ». Ugo lo veste di bianca tunica e di clamide vermiglia, gli calza bruni calzari, gli cinge il rituale cingolo e orna di sproni dorati i suoi talloni; lo introduce ai misteri del bagno purificatore e del letto ristoratore (il Paradiso che attende chi si sia purificato); solo, si rifiuta di somministrargli la colée, l'alapa militaris, il colpo in-
ferto con la mano destra sul collo o sulla nuca dell'iniziando che, evidentemente, è giudicato l'atto fondamentale per conferire il caracter cavalleresco. Perché questa omissione? Ugo di Tiberiade è prigioniero del Saladino — si spiega — e non gli è lecito colpire quindi colui che temporaneamente è il suo signore. Ma forse la realtà è diversa: il Saladino, pur essendo il più generoso, nobile e prode degli uomini (e come tale in possesso di tutti i requisiti per diventar cavaliere), non è tuttavia cristiano. In quel nuovo battesimo che è l'ordinazione cavalleresca, gli viene quindi interdetto il rito definitivo e fondamentale. Non è la prima volta che la cavalleria cristiana piange sull'abisso religioso che la separa dagli eroi musulmani: già nella Conquete de Jérusalem, del valoroso guerriero pagano Cornumarant si dirà: « Se avesse creduto in Dio, nessuno sarebbe stato altrettanto prode ». Ma il fatto è che, nel genere letterario allegorico che immediatamente si impadronisce della trattatistica cavalleresca, ogni veste, ogni arma, ogni gesto divengono simboli di virtù e di requisiti cristiani. La spada sarà il gladio dello spirito,
l'elmo la fede e così via: modello di tutto ciò, le arma lucis di una celebre lettera di san Paolo.
Questa interpretazione etico-allegorica della cavalleria e delle armi del cavaliere avrà lunga vita: la ritroveremo in un trattato di Raimondo Lullo, il Libre de l'orde de cavayleria destinato a diventare un livre de chevet per tutta la nobiltà europea anche moderna, dopo che nel XV secolo il Caxton ne ebbe curato un'edizione a stampa; e la incontreremo ancora in Bernardino da Siena, in Caterina da Bologna, in Ignazio di Loyola, in Teresa
d'Avila, in Benedetto di Canfeld, in Lorenzo Scupoli. Tradizione ambigua: che, per un verso, essa invita a un'obiettiva svalutazione dell'esperienza guerriera, considerata come pura allegoria della pugna spiritualis', ma, per un altro, riveste le armi e il combattimento d'una dignità spirituale profonda.
L'invito alla soluzione mistica della cavalleria mondana fungerà, sempre ai primi del Duecento, anche da un testo di probabile autore o quanto meno ispiratore cistercense. La queste del Graal, dove i temi avviati dal romanzo Perceval di Chrétien de Troyes, nell'ultimo quarto del secolo precedente, sulla base della leggenda arturiana e di un patrimonio mitico-folklorico di base celtica (non senza tuttavia, com'è stato notato da Pierre Gallais, forti elementi che fanno pensare ad ascendenze arabo-persiane desunte attraverso la Spagna o la Terrasanta crociata) sono risolti in chiave ascetica, e dove la misteriosa presenza del Graal — ora coppa o bacino dotato di magiche virtù, ora pietra dagli arcani poteri — viene decodificata secondo una puntuale simbologia eucaristica.
Se il cavaliere delle chansons epiche era tutto ardore guerriero e fede cristiana, e in lui si rifletteva la Cristianità della Riconquista e delle crociate, quello del romanzo arturiano — come quello della poesia cortese occitana — è caratterialmente ben più complesso: e non a caso ha per questo interessato non solo storici e filologi, ma anche antropologi e psicoanalisti. Accanto agli scontri (piuttosto duelli che non battaglie) e alle cacce in questi racconti vibra la tensione erotica e spirituale della conquista della dama e attraverso di essa dell'affermazione di sé; il cavaliere continua ad essere un eroe guerriero, ma diviene soprattutto il tipo umano del cercatore d'un'identità e di un'autocoscienza che tuttavia gli sfuggono. La sua esperienza si esplica quindi nelle forme dell'aventure e della queste: inquieto, solitario, costretto a correre in un paesaggio onirico di foreste e di brughiere da una prova all'altra — e le prove hanno sovente alla loro base un chiaro dispositivo iniziatico —, il « cavaliere errante » è stato troppo a lungo considerato una figura del tutto letteraria, atemporale, improbabile anche come modello e assolutamente improponibile come specchio di una qualunque realtà vissuta.
Non era così. Nuove tecniche d'interpretazione dei testi letterari e di interrogazione del passato ci hanno posto, anche in quest'ordine di problemi, dinanzi a una differente realtà. Psicanalisi, semiologia e antropologia culturale, congiunte, ci hanno invitato a leggere con altra ottica quegli « improbabili » testi arturiani. Un sociologo della letteratura come Eric Kohler e uno storico come Georges Duby ci hanno insegnato a cogliere, al dilà dei sogni e delle finzioni letterarie — sogni e finzioni, comunque, in costante rapporto con la realtà effettiva —, quelle che potremmo definire le forme concrete dell'avventura.
Certo, l'avventura cavalleresca è costellata di fate e di draghi, di mostri e di castelli o giardini incantati, di nani e di giganti. Ma si tratta, più che di fantasie, di metafore.
L'avventura si correva sul serio. Georges Duby ha dimostrato come fra XI e XIII secolo l'elemento attivo della piccola aristocrazia europea — soprattutto francese; ma, seguendo il modello francese, anche di quella anglo-normanna, tedesca, spagnola e italica — sia costituito dagli iuvenes: vale a dire dai cavalieri « addobbati » da poco, che cioè hanno appena ricevuto le armi durante la cerimonia di vestizione e che sciamano raggruppati in più o meno numerose comitive fuori dal loro ambiente abituale inseguendo forse anche sogni, ma certamente soprattutto ben concreti anche se non sempre raggiunti ideali di sicurezza e di prestigio sociale. Loro ottimale punto d'arrivo è un buon matrimonio, possibilmente con una dama di condizione più alta e di facoltà economiche più ampie delle loro: dietro lo schermo raffinato della Fin'Amor, tanto dottamente trattata in testi come il celeberrimo De Amore scritto da Andrea Cappellano tra la fine del XII e i primi del XIII secolo, urge questa volontà di accasamento e di affermazione sociale. Non si tratta, in altri termini, di discutere se l'amor cortese sia in effetti una sublimazione mistica dell'eros oppure il mascheramento di una tensione sensuale e sessuale esasperata fino ai limiti del licenzioso. Il punto è, piuttosto, che questa cultura è funzionale a una mentalità esogamica e a un bisogno di affermazione socio-culturale: la feudataria bella, fredda e lontana, è metafora di una molto meno inaccessibile ereditiera alla quale si può giungere dimostrando audacia e valore.
Ne deriva, paradossalmente, uno strano contrasto fra dimensione professionale e quasi vocazionale dell'esser cavaliere da un lato, e l'abilità esistenziale della condizione cavalleresca (che si esaurisce con l'accasamento) dall'altro. I secoli XII-XIII, che tradizionalmente si sogliono indicare come l'acme dell'età equestre nel nostro Medioevo, segnano senza dubbio una sorta di trionfo della cavalleria. Poeti, trattatisti, perfino teologi e agiografi sembrano non parlare d'altro; cronisti e pittori inviano di continuo lucenti riverberi dello splendore delle cerimonie d'addobbamento; l'alta aristocrazia e perfino i re tralasciano i loro titoli gloriosi per fregiarsi semplicemente — e lo vediamo in
tutti i grandi monarchi di quell'età, da Riccardo Cuor di Leone a san Luigi — del titolo di cavaliere; esso d'altronde, viene intensamente ambito dai ceti ascendenti, dai nuovi ricchi delle società soprattutto urbane, dalla « gente nova »: e vedremo tra breve come appunto questo dilagare delle insegne e delle consuetudini cavalleresche — cui non poteva alla lunga non accompagnarsi un loro obiettivo deprezzarsi e involgarirsi — fosse ostacolato dalle nascenti monarchie feudali, e come tali ostacoli venissero in un modo o nell'altro aggirati da ceti desiderosi di distinzioni e capaci bensì di darsi istituzioni politiche e di affrontare esperienze socio-economiche in modo rivoluzionario, ma tenacemente attaccati per contro alle tradizioni e in posizione largamente dipendente quando si trattava invece di elaborare una propria cultura.
L'avventura cavalleresca — prospettive matrimoniali a parte — era essenzialmente la ricerca di nuove fonti di ricchezza e di possibilità d'ingaggio: il servizio militare mercenario — molto diffuso già a partire dal XII secolo, ma in fondo anche da prima: i cavalieri normanni che nell'XI secolo sciamavano verso la Puglia e Bisanzio erano appunto soliti offrire il loro braccio armato a chi fosse in grado di pagarlo meglio, a cominciare dallo stesso basileus di Costantinopoli —, le varie campagne militari in Spagna o, soprattutto fra Due e Quattrocento, nel Nord-Est europeo contro Slavi e Balti pagani; e naturalmente la crociata vera e propria, quella che secondo Adolf Waas ha consentito l'elaborarsi di una vera e propria Ritterfrommigkeit, una pietas religiosa caratteristicamente cavalleresca che si esprime, appunto, nelle molte canzoni per la partenza in crociata scritte da poeti che furono anche feudali e cavalieri: Hartmann von Aue, Friedrich von Hausen, Walther von der Vogelweide, Tibaldo di Champagne, Conon de Béthune e così via. Identificazione del servizio all'Altissimo con quello a un forte, gene-
roso, splendido signore feudale; servizio alla Vergine Maria inteso come servizio alla Dama celeste; ricerca della patria divina attraverso il pellegrinaggio a Gerusalemme; disponibilità al martirio, ma anche fedeltà ai compagni d'arme e leale ammirazione per gli stessi guerrieri nemici degni di lode e d'onore (la gloria occidentale del Saladino, che sarà più tardi consacrata dal Lessing, comincia di qui) sono gli ingredienti fondamentali di questo sentire crociato-cavalleresco tipico della cavalleria « mondana » e sul quale pertanto la specifica spiritualità degli Ordini religioso-militari, che dall'esperienza crociata sono pur nati, non ha modo di influire. L'aspirazione cavalleresca alle avventure in terra lontana — e all'amors de terra lonhdana, come appunto si esprimeva il trovatore Jaufré Rudel, innamorato secondo la tradizione d'una feudataria franco-libanese da lui mai veduta — si traduceva in un'attrazione invincibile per i misteri e le meraviglie d'un Oriente che andava ormai ben al di là di Gerusalemme e della Terrasanta. La rinascita culturale del XII secolo, insieme con molti testi greci, arabi ed ebraici che ormai cominciavano a circolare in Europa in sia pur cattive o comunque infedeli traduzioni (e dalla Spagna giungevano perfino i primi tentativi di versione del Corano), accendeva interesse e fantasia per un Oriente che era bensì — come è stato detto — un « orizzonte onirico », ma che già si cominciava a intravedere nei suoi connotati fiabeschi certo, non però privi di addentellati con la realtà. L'Asia profonda con la quale si viene a contatto dopo le crociate è quella delle spezie che giungono dall'India attraverso le carovaniere della « Via della Seta » nonché attraverso le rotte dell'Oceano Indiano, ancora precluse agli occidentali; ma è anche quella dei cicli leggendari che del resto sono appunto
legati alle spezie, che si dicevano provenienti dal Paradiso Terrestre (da cui uscivano, secondo la cosmografia del tempo, i grandi fiumi delle partes infidelium: il Gange, il Tigri, l'Eufrate, il Nilo). Gli sterminati territori abitati da mostri ma rigurgitanti di tesori, e quindi, isolato nell'Oriente più lontano, lo stesso Paradiso Terrestre: questa la geografia immaginaria dell'Asia, che tornava nelle molte versioni del « romanzo di Alessandro » o in certi curiosi scritti quali la « lettera del Prete Gianni » (un fiabesco sovrano di genti innumerevoli, cristiano di fede, dietro il quale è adombrata la reale esistenza delle comunità cristiano-nestoriane estese dalla Persia fino alla Cina) indirizzata ora al papa, ora a questo o a quell'imperatore, e nella quale si descrivono le immense ricchezze e i misteri di un regno che i viaggiatori del Due-Trecento, Marco Polo alla testa, avrebbero vagheggiato a lungo.
Cantari e romanzi cavaliereschi subiscono profondamente il fascino di quest'Asia e diffondono anche a livello popolare le leggende del Paradiso Terrestre, del regno del Prete Gianni, del paese delle Amazzoni, dell'impero segreto e terribile del Veglio della Montagna capo della Setta degli Assassini. L'attrazione per le terre lontane e per i loro costumi, che avrà un così decisivo peso nella cultura europea fra XVIII e XX secolo e che darà aditoa quell'esotismo che — come si è di recente più volte ribadito — è del resto funzionale alle conquiste coloniali, trova le sue radici proprio nella letteratura cavalleresca medievale che mutua i suoi contenuti dalla letteratura geografica antica e dalla spiritualità crociata (e che confina pertanto con lo spirito missionario il quale, per altri versi, sembra rispetto ad essa lontano ed estraneo) ma che al tempo stesso è tutt'altro che sordo alle voci provenienti dalle copiose testimonianze dei viaggiatori e, appunto, dei missionari. Questo spirito d'avventura crociata e cavalleresca sarà ereditato, nell'era delle grandi scoperte geografiche e dei viaggi transoceanici, da Enrico il Navigatore, da Cristoforo Colombo e dai conquistadores, i quali se ne faranno alibi per violenze e spoliazioni ma nondimeno gli resteranno a loro modo fedeli.
Tuttavia, l'avventura si viveva anche nel quotidiano, senza bisogno di guerre o di crociate. Essa era già nella caccia, specie in quella alle grandi e nobili belve delle foreste europee — il cervo, il cinghiale, l'orso, con il loro tessuto simbolico assunto dalla stessa araldica e con il background mitico-folklorico, entrambi accolti dalle allegorie dei bestiari e dai racconti agiografici —, che spesso viene riecheggiata nei romanzi dove assume il carattere dell'esperienza iniziatica. E soprattutto si poteva tradurre in una caratteristica attività agonistica per un verso, funzionale all'addestramento militare per un altro, ma soprattutto significativa al livello della teatralizzazione delle funzioni sociali e dell'autorappresentazione delle aristocrazie: il torneo.
È difficile dire quando sia nata la pratica dello scontro di gruppi contrapposti in campo chiuso, detto hastiludium (dal caratteristico scontro fra cavalieri armati delle pesanti aste di legno, che avevano come principale scopo quello di scavalcare l'avversario) o conflictus gallicus (come lo chiamano le fonti anglo-normanne, dato che nell'isola la pratica fu evidentemente importata dalla Francia); ne a partire da quando insieme con
il vero e proprio torneo si sia presentata la giostra, cioè la serie di scontri di coppie di cavalieri più ordinato e meno cruento della mélée, la « mischia » che era solitamente il tratto più tipico del torneo. Dal punto di vista puramente tipologico è abbastanza facile ipotizzare che questo sia nato presto, come forma di addestramento alla guerra; e il fatto che si disputasse in campo chiuso — e la giostra addirittura fra singoli « campioni » — lo
ha fatto anche avvicinare al « giudizio di Dio », al duello giudiziario. D'altronde sta di fatto che la moda del torneo, sconosciuta sino alla fine dell'XI e ai primi del XII secolo, sembra
repentinamente scoppiare allora: ignoto nelle più antiche chansons, il torneo riempie la letteratura cavalleresca successiva con le nubi di polvere alzate dagli zoccoli dei cavalli, le grida dei partecipanti, gli incitamenti del pubblico, gli alti richiami degli
araldi, il fragore di tuono delle armi che cozzano e delle lance che volano in pezzi verso il cielo. La simbologia araldica si diffonde rapidamente, a partire da allora, senza dubbio anche per rispondere alla necessità di distinguere i vari campioni nella mischia. E intere generazioni di cavalieri vengono falcidiate — con ciò concorrendo a impedire il polverizzarsi delle eredità, e quindi a mantenere saldi i lignaggi e le loro fortune — dalla morte in torneo più forse che non da quella in battaglia. I cavalieri infatti non miravano, nello scontro bellico, a uccidersi, ma piuttosto a prender prigioniero il nemico per poterlo poi riscattare; in cambio gli incidenti letali in torneo o in giostra dovevano essere straordinariamente diffusi, così come i gravi effetti delle cadute maldestre dal cavallo lanciato al galoppo, quando il guerriero rovinava col peso delle sue armi di ferro.
A proposito di questi giochi militari, gli storici hanno polemizzato a lungo: avevano o no, e fino a quale punto, un effettivo valore sul piano dell'addestramento? Il problema non è da trascurarsi, in quanto rientra in un'altra e più ampia questione: gli eserciti dei secoli X-XIII, nei quali la cavalleria era la truppa scelta e anzi il vero e proprio nucleo combattente in quanto tutti gli altri (fanti, guastatori, addetti agli ordigni d'assedio o alle macchine d'artiglieria a leva) erano piuttosto degli inservienti, conoscevano il valore della tattica e della strategia? Oppure esso sarebbe tornato in auge solo al contatto con l'Oriente bizantino e musulmano (il quale in cambio aveva conservato e aggiornato l'arte militare greco-romana), e soprattutto attorno al Due-Trecento, quando per esempio avrebbe ripreso a circolare per l'Europa, anche in traduzioni non prive di valore letterario, il De rè militari di Vegezio (che ad esempio Jean de Meung e Christine de Pizan avrebbero tradotto in francese come Art de chevalerie)? Certo, la grande era della trattatistica tattico-strategica — occasione della quale era spesso la prospettiva di una nuova crociata: si sarebbero avuti così i manuali di Benedetto Zaccaria, di Pierre Dubois, di Marino Sanudo il Vecchio —sarebbe stata il Tre-Quattrocento. Ciò non significa d'altronde che i cavalieri ignorassero, prima di allora, le questioni tattiche e i problemi strategici; e che si limitassero ad attaccare frontalmente, nelle elementari formazioni « a siepe » o « a cuneo »,
riducendo
lo scontro militare a una pura questione di forza fisica e di destrezza
equestre. È vero che, se facciamo attenzione alle formulazioni teoriche, sarà
facile raccogliere da chansons e romanzi un fluorilegio di massime eroiche nelle
quali qualunque tipo di artificio e di stratagemma viene equiparato a slealtà e
a tradimento; e anche i cronisti più tardi — anzi, forse soprattutto quelli:
si pensi al grande Froissart, il cantore dell'« autun-
no della cavalleria » al tempo della guerra dei Cent'Anni — godono nel collezionare episodi di valore inteso come pura e dura ricerca dello scontro. Si dice che a Nicopoli, nel 1396, il fiore della cavalleria europea si sia lasciato così sterminare o ridurre in prigionia dai Turchi, i quali combattevano alla loro maniera, vale a dire mediante rapidi raids di arcieri a cavallo e sottili formazioni che si aprivano dinanzi alle cariche pesanti dei cristiani coperti da capo ai piedi di ferro, per rinchiudersi poi alle loro spalle e serrarli in una morsa. Ma nel Trecento la cavalleria è in via di ridefinizione in quanto distinzione sociale e in crisi in quanto forza militare.
Se guardiamo invece alla realtà dei secoli nei quali essa era in auge, ci rendiamo conto che i guerrieri a cavallo erano ben,lungi dall'ignorare le ruses de guerre: e in questo senso il torneo, che sovente si configurava come una vera e propria battaglia, poteva costituire una buona occasione di addestramento. In effetti, contrariamente a un'immagine che ha romanticamente avuto il sopravvento, non sempre esso era disputato da soli cavalieri; anzi, di solito questi potevano disporre di ausiliari a piedi in misura anche rilevante; e, quanto al « campo chiuso », vediamo che esso comprendeva talvolta una vasta regione con prati, boschi, radure e giungeva fino a lambire qualche centro abitato. Insomma, non una modesta lizza ben delimitata, ma un vero e proprio campo di battaglia.
I cavalieri e i trovatori, gli araldi e i giullari che rotavano attorno ad essi non cessavano di vantare le lodi del torneo come scuola di coraggio e di lealtà; lo proponevano anche come specchio di valori cristiani, cercando di presentarlo come addestramento alla crociata e come occasione durante la quale ci si poteva accordare per la spedizione in Oltremare. In effetti accadde talvolta che, durante un torneo o alla conclusione di esso, molti cavalieri facessero voto di partire per la guerra agli infedeli: voti di questo e di altro tipo (a sfondo talora devoto, talaltra erotico o di pura ostentazione di valore fine a se stesso) erano cari alla tradizione cavalleresca. La Chiesa però, a proposito dei tornei, fu per lungo tempo molto poco tenera. La condanna delle « detestabili fiere e mercati detti volgarmente tornei, nei quali i cavalieri sono soliti riunirsi per esibire la loro forza e la loro
impetuosa temerarietà» è di Innocenzo II e data dal 1130, allorché la moda-torneo era esplosa in tutto FOccidente, nella Terrasanta crociata e anche nel mondo bizantino e islamico ch'era a contatto dei crociati. Essa fu ribadita nel II Concilio Laterano del 1139: a chi fosse caduto in torneo si negava il diritto a venir sepolto in terra consacrata (ma gli Ordini religioso-militari, facendo leva sulla loro ampia autonomia in quanto direttamente
dipendenti dalla Santa Sede, accettavano di derogare da questa norma e accoglievano i morti in torneo nei loro perimetri cimiteriali). Predicatori e autori di trattati teologico-morali o di vite dei santi facevano a gara nel moltipllcare le loro esortazioni con-
tro i giochi militari e anche nel mettere in giro dicerie paurose: si diceva che, in un luogo che era stato campo di scontro per un gara particolarmente cruenta, fossero poi stati visti dei demoni disputare volando per l'aria un loro torneo fra strida agghiaccianti di gioia; altri demoni, stavolta sotto forma di corvi di avvoltoi si aggiravano su un'altra lizza di torneo in evidente ricerca delle anime da carpire così come i rapaci strappano brandelli di carne ai cadaveri degli uccisi; e talora perfino qualche nobile, tornato arcanamente in vita per alcuni istanti, si era alzato dal catafalco e aveva narrato in poche tremende parole la sorte dell'aldilà per chi si dilettava di queste atroci gare. Giacomo da Vitry, nel XIII secolo, dimostrò partitamente come in torneo si commettessero tutti e sette i peccati capitali: la superbia, in quanto questo tipo di competizioni nasceva dallo smodato desiderio di gloria e di onori; l'ira, perché lo scontro, pur occasionato dalle regole del gioco, finiva fatalmente con il generare odio e desiderio di vendetta; l'accidia, in quanto gli
sconfitti in torneo si davano facilmente alla prostrazione e allo sconforto; l'avidità, dal momento che si gareggiava nella prospettiva del bottino costituito dalle armi e dai cavalli degli avversari atterrati e dei ricchi premi posti in palio per i vincitori; la gola, perché quelle feste erano abitualmente accompagnati da grandi banchetti; infine la lussuria, in quanto i torneanti si scontravano di solito per compiacere le loro dame, delle quali portavano in combattimento i « colori » o altri pegni — i veli, le maniche — a mo' di cimiero o di stendardo. Il pegno d'amore ostentato in torneo è, insieme con l'arme araldica dipinta su scudo, sopravveste e gualdrappa del cavallo, - caratteristico distintivo del cavaliere che prende parte ai giochi militari. La tensione erotica anche tesa fino allo spasimo è una caratteristica fondamentale di questo tipo di attività cavalleresca e lascia intendere come la Chiesa, opponendosi ad essa, intendesse proporre un discorso etico e sociale di gran lunga più profondo e complesso di quanto non potremmo credere se ci limitassimo a valutare quelle proibizioni nella riduttiva ottica d'una politica ecclesiale tesa a limitare la violenza e lo spargimento di sangue tra fratelli in Cristo. Le cronache ci parlano spesso di inestinguibili odii originati da qualche torneo; e anche di tornei durante i quali si era presentata sotto buon alibi l'occasione per vendicarsi dell'avversario. La rivalità in amore doveva essere uno dei moventi più consueti in tal senso: e gli etologi hanno dimostrato che appunto la volontà di ostentare la propria forza al cospetto delle femmine e di ribadire il diritto del maschio adulto a goderle sta alla base di quelli che essi
stessi, e non per caso, chiamano « tornei di animali ». Un aneddoto basti a mostrare a quali livelli di tensione erotica si potesse giungere. Una dama obbliga un cavaliere — sulla base del meccanismo del « dono obbligante » caro alla letteratura cavalleresca e al folklore: la donna chiede all'eroe di farle un dono, ma non specifica quale; ricevutone l'assenso, gli svela il contenuto della promessa da lui fatta, che di solito è una prova gravosa — a uno speciale comportamento in torneo: sappiamo che caso tipico del genere è quello attorno al quale ruota il Lancelot, ou le chevalier a la carrette di Chrétien de Troyes, dove Ginevra impone a Lancillotto di fingersi vile nello scontro. Nel nostro caso, la dama impone al cavaliere d'indossare in torneo, anziché le pesanti armi difensive, la sola camicia di lei; esaudita, lo ricambia in cortesia presentandosi alla festa che segue la gara vestita di quella stessa sola camicia macchiata dal sangue del suo paladino. Non è certo il caso di chiamare in causa Freud per cogliere il trasparente, denso significato erotico-sessuale dell'intero episodio.
Il fatto è tuttavia che il torneo era entrato profondamente nella cultura aristocratica — ma anche borghese e popolare: in quegli ambiti, imitazioni e parodie delle gare cavalleresche sono innumerevoli — e nella pratica del genere di vita dei ceti dirigenti. Un poema del Duecento narra le gesta di quello che, grazie a un fortunato libro di Georges Duby, è oggi il più famoso « corridore di tornei » del Medioevo: quel Guglielmo detto « il Maresciallo », che giunse a essere reggente d'Inghilterra per il giovane re Enrico III e che morì ultrasettantenne (ultraottantenne, diceva lui) nel 1219. Il caso del Maresciallo è certamente d'eccezione: tuttavia mostra bene come, di torneo in torneo, di corte in corte, di vittoria in vittoria, di premio in premio e di parentela in parentela, lo iuvenis potesse arricchire e magari accasarsi. Condizione paradossale, quella del cavaliere: una volta addobbati si è cavalieri per sempre, un po' come i sacerdoti, per quanto la cerimonia del cavalierato non imponga alcun character sacramentale (ma essa fa di tutto, nei casi più solenni, per avvicinarsi tipologicamente a un rito sacramentale; e non mancheranno i teorici pronti a sostenere che il cavaliere è una sorta di « sacerdote » laico votato a Dio, al suo signore
feudale — più tardi, col riaffermarsi degli stati assoluti, al re — e alle dame), e abbiamo già detto come gli stessi re si compiacessero di venir considerati anzitutto dei cavalieri; ma, d'altronde, la carriera vera e propria del cavaliere è rapida, anzi decisamente breve, e coincide con il periodo della comitiva degli iuvenes e di quell'avventura della quale appunto il torneo è forse la forma concreta più comune e al tempo stesso la rappresentazione più efficace. Se poi la fortuna lo conduce a contrarre un buon matrimonio, il bel guerriero attacca volentieri a un chiodo cinturone, spada e sproni dorati — salvo il cingerli di tanto in tanto, nei giorni solenni — e si converte all'amministrazione del patrimonio del suo lignaggio e di quello acquisito tramite la consorte.
Accanto alle dure condanne della Chiesa, tuttavia, le ordinanze dei principi servirono, se non a far sì che i tornei fossero disertati, quanto meno a determinarne una perdita in pericolosità e aggressività. Può darsi che il più pesante armamento
cavalleresco, entrato in uso a partire dal XIII secolo giocasse in tal senso un certo ruolo: ma non è detto, che un cavaliere interamente coperto di piastre d'acciaio (cioè dell'armatura perfezionatasi nel corso del XV secolo) rischiava di farsi cadendo da cavallo molto più male che non uno vestito del solo lungo usbergo di maglia di ferro, relativamente leggero, usato tra XI e XIII secolo. Semmai, le varie ordinanze facevano di tutto per impedire l'accendersi o il manifestarsi di inimicizie o di rapporti di vendetta durante le gare di destrezza cavalleresca; al che si aggiungano le progressive restrizioni delle armi a outrance (quelle da battaglia), sostituite in torneo da quelle a plaisance, « armi cortesi »; cioè spade dal filo smussato, lance il ferro appuntito delle quali era sostituito
da supporti a corona, a sfera o a coppa rovesciata oppure era accuratamente fasciato, in maniera che l'asta potesse bensì colpire lo scudo dell'avversario e magari scavalcarlo, ma non fosse in grado di ferirlo di punta. Ma soprattutto fu la graduale sostituzione — mai comunque totale — della mélée con la giostra a coppie di campioni affrontantisi, a ridurre la possibilità d'incidenti gravi: nella giostra tutto era più ordinato, regolato e tranquillo che non nella mischia.
Visto che i tornei avevano finito con il costituire tanta parte dei rapporti sociali delle aristocrazie, la Chiesa si trovò a malpartito nel mantenere le sue proibizioni quando essi persero in parte la loro pericolosità e da battaglie più o meno simulate manifestarono la tendenza a passare piuttosto al ruolo di giochi e di spettacoli. Da parte loro, i cavalieri sottolineavano quello che secondo loro era il pieno accordo fra la fede e la pratica del torneo: i giochi potevano servire, come s'è detto, alla propaganda della croce, e cominciavano di solito con funzioni religiose (il che significa fra l'altro che, per una ragione o per l'altra, lo stesso clero non era granché rispettoso dei divieti ecclesiastici) Presto affiorò anche una contropropaganda alle leggende di demoni accorsi al torneo o cose del genere. È celebre una commovente pagina di quello che forse è il più bel testo di leggende religiose del Duecento, il Dialogus miraculorum di Cesario di Heisterbach. Un cavaliere sta recandosi con degli amici a un torneo quando passando dinanzi a una cappella dedicata alla Vergine, non resiste all'impulso di renderle omaggio; assorbito dalla preghiera, non si accorge del passare del tempo. Giungerà un po' triste alla gara, in assoluto ritardo; e troverà l'intero campo in festa, nell'atto di celebrare le sue gesta. Mentre egli pregava Maria, essa in forma di lui e con le sue armi e le sue insegne aveva giostrato in suo luogo, riportando la vittoria.
Quando, nel 1316, papa Giovanni XXII eliminò i divieti ecclesiastici nei confronti dei tornei, la causa di questi contro il rigorismo religioso era quindi da tempo vinta; essi, d'altronde, erano divenuti qualcosa di molto diverso da quel che erano stati in passato. E anche la cavalleria del Trecento non era più, quanto a strutture sociali e a incidenza nella vita europea del tempo, quella dei due secoli precedenti.
Intanto, il torneo aveva dato luogo anche al nascere di una letteratura specifica, scandita in vari generi. Anzitutto dei veri e propri resoconti in versi, nei quali si specializzavano quei caratteristici poeti e giudici di gara che erano gli « araldi », esperti nelle norme del gioco e nell'identificazione delle insegne ad vari partecipanti ad esso. È famoso al riguardo il componimento Le tournoi de Chauvency composto da Jacques Bretel per celebrare una lunga festa tenutasi appunto nel 1258 a Chauvency: due giorni interi dedicati alle giostre, e poi una giornata per il grande torneo. Testi come questo sono una serie interminabile di descrizioni di scontri e di dettagliate enumerazioni di colori e di figure araldici: per il mio gusto il risultato è d'una soporifera noia, ma nel Duecento lo si trovava di esaltante interesse.
Altro genere letterario notevole è quello che si basa sulla "moralizzazione" del torneo, del quale, Jacques Bretel, fornisce una versione allegorica. La pugna spiritualis è alla base della legittimazione cristiana della cavalleria e, Bemardo di Clairvaux, non esita a definire « malicidio » la soppressione in battaglia degli infedeli; allo stesso modo, portali e capitelli d'età romanica abbondano in figurazioni allegoriche di lotta tra virtù e vizi rappresentati come guerrieri contrapposti o, rispettivamente, come cavalieri e mostri. Una lettura di questo genere del torneo era molto invitante in quanto apriva la strada a possibilità infinite di allegorizzazioni: si potevano allegorizzare i combattenti, le loro vesti, i colori, le insegne, i colpi dati e ricevuti. Si veda il poema Le tournoiement d'Antéchrist di Huon de Méry: il Cristo reca sullo scudo una croce vermiglia e un pegno intrecciato dalla Vergine; esso giostra contro Satana, insegna del quale è un lembo della tunica di Proserpina (in un altro testo il demonio è « il cavaliere del dragone », e reca un drago come insegna araldica); al fianco del Signore combattono gli Arcangeli, le virtù cardinali e teologali
ma anche quelle specificamente cavalleresche di Prouesse, Largesse, Courtoisie, Debonnaireté: e dalla stessa parte della lizza scendono in campo i cavalieri della Tavola Rotonda.
Rappresentazioni allegoriche di questo genere, che siamo abituati a leggere o a vedere effigiate, dovevano talvolta venire anche teatralizzate. Il torneo si prestava meravigliosamente a divenire spettacolo: e in parte lo era già, per sua natura, forse più di quanto non fosse battaglia simulata. Filippo di Novara descrive un torneo tenuto da cavalieri che impersonavano i personaggi del ciclo arturiano nel 1223, a Cipro, durante le feste per l'addobbamento di un giovane del casato degli Ibelin, baroni crociati di Beirut; il cavaliere Ulrich von Lichtenstein divenne famoso per due viaggi compiuti attraverso l'Europa noti rispettivamente come Venusfahrt e Arturfahrt, durante i quali egli — nel 1227 e poi nel 1240 —, in veste prima di Venere poi di Artù, percorreva castelli e città sfidando chiunque volesse misurarsi in torneo con lui. Più tardi, si sarebbe addirittura arrivati a vere e proprie rappresentazioni teatrali. Ricordo non tanto il caso del 1490 — quando due schiere di cavalieri bolognesi, gli uni vestiti di azzurro in onore di Sapienza, gli altri di verde in onore di Fortuna, si affrontarono in quella che si potrebbe definire una versione umanistica della pugna spiritualis —, quanto piuttosto quelle vere e proprie sintesi di spettacoli teatrali e di torneo che erano chiamate in Italia « tornei a soggetto », in Francia pas d'armes, in Spagna pasos honrosos: ne restano esempi famosi in Francia al tempo della guerra dei Cent'Anni oppure nelle cosiddette « cavallerie » ferraresi del
primo
Cinquecento. S'inventava una trama, ancorché esile: un castello da assalire o
da difendere, una torre o un ponte o una fontana da custodire, una donzella da
salvare. Attorno a questo leggero disegno narrativo, si svolgevano i vari
scontri fra cavalieri abbigliati in modo corrispondente a quanto l'impianto
scenico richiedeva. Col tempo questi spettacoli tesero a chiudersi nelle corti;
ma fra il Due e Quattrocento si disputavano anche nelle città, al cospetto del
popolo il quale mostrava di gradirli non meno di quanto apprezzasse una quantità
di tornei burleschi e parodistici organizzati da borghesi o addirittura da
ribaldi e da emarginati. Altre composizioni poetiche parlano di tornei
d'uccelli, di chierici contro cavalieri, di frati contro suore e così via; e a
livello folklorico sarebbe presto divenuto famoso il torneo di fine inverno tra
Carnevale e Quaresima, una divertente versione del quale ci è narrata dal
novelliere Sabadino degli
Arienti. Non mancano neppure i « tornei di dame », che sono dal canto loro composizioni poetico-musicali sulle quali si organizzavano delle danze.
Il legame fra allegoria, teatro e gioco militare si coglie bene, nel Quattrocento, attraverso due scritti complementari di Renato d'Angiò duca di Lorena e re nominale di Napoli: il, primo, il Livre des Tournois, è forse il più ampio e completo trattato teorico-descrittivo e normativo di scienza dei tornei che sia mai stato scritto (importanti le parti che vi trattano degli abbigliamenti, delle insegne, delle armi « cortesi » spesso non metalliche: in cuoio bollito le difensive, in legno le offensive); ilsecondo, il Livre de Caeur d'Amour épris, narra invece sotto forma di romanzo cavalleresco le complesse vicende legate all'innamoramento e descrive in termini di viaggi, di duelli e di prove iniziatiche le fasi del corteggiamento e del rapporto erotico.
Ma descrivendo una vicenda che parte dai campi di battaglia appena travestiti in lizze da torneo e approda ai giochi-spettacolo di corte, ho indicato, soprattutto, quale sia stata la
parabola compiuta dalla cultura cavalleresca fra XII e XVI secolo; e, nel contempo, la perdita di concreti valori militari e sociali alla quale gli insigniti della dignità cavalleresca abbiano dovuto sottostare.
Che la cavalleria sia stata all'origine della nobiltà basso-medievale era tesi celebre di Mare Biodi, poi negata o limitata da tutto un settore della medievistica soprattutto tedesca e di
recente rivisitata e in una certa misura rivalutata, come dimostra un magistrale saggio di Giovanni Tabacco. Certo è che, non appena la dignità cavalleresca — l'ingresso nella quale veniva segnato dalla cerimonia dell'addobbamento — iniziò a profilarsi come socialmente e culturalmente importante e la cavalleria quindi, da libera confraternita di armati riuniti in comitive attorno a un capo, sembrò cominciare a trasformarsi in istituzione, i principi dell'Europa feudale intervennero per arginare il meccanismo degli addobbamenti sulla base della cooptazione e per regolare l'ingresso al pur composito ambiente degli insigniti del cìngulum militare. I primi provvedimenti restrittivi che si conoscono con sicurezza appartengono all'Inghilterra e alla Sicilia normanne e alla Germania sveva: siamo quindi in pieno XII secolo ma chiari indizi mostrano che, in talune aree europee, essi risalgono a prima. Nella pratica, si prese a negare il diritto a venir insigniti della cintura e degli sproni cavallereschi a chi non avesse già in famiglia — e tra gli ascendenti diretti — qualche cavaliere. Per quanto la dignità cavalleresca non fosse mai dichiarata di per sé ereditaria, eredirari vennero dichiarati i requisiti per accedervi; e quindi i privilegi connessi alla condizione di cavaliere, ma anche i relativi doveri. Alla lunga, i secondi risultarono più gravosi dei primi: tanto più che la cerimonia di addobbamento — quando non si cogliesse al balzo l'occasione offerta ad esempio dalla vigilia o dall'indomani di una battaglia, o dal passaggio di un principe per un certo luogo: circostanze queste durante le quali si impartivano addobbamenti sommari —, con il bagno, la veglia d'armi, i doni (anzitutto vesti) e il banchetto che il cavaliere novello era tenuto ad offrire ai convenuti, era economicamente pesante da sopportare. Ciò spiega come nel corso del Duecento molti aventi diritto evitassero di accedere alla dignità cavalleresca e rimanessero — specie in Inghilterra — squires, damoiseau, « donzelli », insomma scudieri: il rango cioè immediatamente inferiore a quello di cavaliere, portato da chi ambiva calzare un giorno gli sproni dorati ma che, in considerazione di quel che ciò comportava, preferiva rimanere « aspirante » per tutta la vita. È noto come lo squire sia divenuto, su suolo britannico, il rappresentante caratteristico di una nobiltà minore.
Si andavano intanto differenziando — al di là del comune termine miles che accomunava tutti i membri di quella che idealmente avrebbe dovuto essere una fratellanza d'armi sovranazionale e al quale erano accostate le insegne e le tradizioni della vestizione — le caratteristiche regionali e nazionali della cavalleria che, tendendo a trasmettersi in linea ereditaria, trovava nell'araldica la sua espressione ideologico-culturale caratteristica. Le necessità di garantire un certo ricambio sociale, soprattutto in tempi di forte mobilità socio-economica quali furono i secoli XIII-XIV, furono garantite in Francia da speciali lettres d'anoblìssement che consentivano di derogare alle norme restrittive e concedevano a gente di umile origine di accedere alla dignità cavalleresca e di scegliersi un blasone: connotati di base per l'ingresso in quella che si andava configurando come la nobiltà.
Anche nelle città dell'Italia settentrionale e centrale, dove verso la fine del Duecento la dignità cavalleresca era stata considerata dai vari governi « popolani » — espressioni degli imprenditori e dei mercanti — come uno dei segni distintivi dei ceti « magnatizi » che si volevano escludere dall'esercizio del potere, ben presto essa si rivelò come un ambito traguardo per la stessa « gente nova », che del resto amava investire i suoi capitali in terreni e castelli e assumere un tono di vita nobiliare a imitazione di quello degli aristocratici francesi o tedeschi (o di quello, analogo, della stessa aristocrazia feudosignorile della penisola).
Si sarebbero, ben presto, armati cavalieri e di popolo »; e nel 1378 a Firenze, i ciompi, cioè i lavoratori subalterni della lana, avrebbero a loro volta preteso di poter esercitare quell'atto sovrano consistente nel far cavalieri. La dignità cavalleresca, del resto, era richiesta per chi ambisse a certi incarichi, ad esempio quello di podestà o di capitano del popolo in città diverse dalla sua.
Col tempo, comunque, il termine « cavaliere » non parve più sufficiente a indicare il detentore della dignità cavalleresca. Il combattere a cavallo era pratica che si esercitava anche indipendentemente da tale dignità: e così pian, piano bisognò distinguere, ad esempio, tra semplici milites e milites « de corredo » (che avevano cioè ricevuto l'addobbamento) o, come più tardi si disse, equites aurati, un'espressione che le fonti italiane volgari traducono come « cavalieri a spron d'oro ». Ma si trattava di una distinzione sociale, i detentori della quale si guardavano dal montare a cavallo. Di solito — nel meccanismo delle formazioni militari cittadine, signorili o mercenarie — la legittima detenzione della dignità cavalleresca dava dal canto suo diritto a un soldo d'ingaggio più alto; ma niente o quasi niente di più. E molti dovevano naturalmente essere gli abusi.
Nel tardo Medioevo, la cavalleria era ancora considerata il nerbo degli eserciti. A seconda del loro rango, i cavalieri si consideravano « banderesi » (cioè in grado di innalzare una bandiera, simbolo della giurisdizione da essi detenuta sulle loro terre, e quindi al comando di un certo seguito) o « baccellieri », termine questo che in francese si spiegava abitualmente come sinonimo e omofono di bas chevalier. In realtà, la distanza fra « alta » e « bassa » nobiltà si era ormai divaricata e — a parte i molti di umile o comunque non nobile estrazione promossi per volontà regia al cavalierato — era già chiaro che la cavalleria, nelle sue molte variabili, stava costituendo uno strato inferiore, talora addirittura infimo, di un'aristocrazia in crisi dal momento che le basi del suo potere e del suo prestigio — la terra e le armi — non erano più all'altezza di tempi dominati dai programmi sempre più accentratori delle monarchie che da feudali si avviavano a diventare assolute (o, in Italia, dagli stati regionali) e dall'economia monetaria gestita da banchieri, mercanti e imprenditori che amavano bensì il fasto cavalleresco (con le relative prerogative civili) e le insegne araldiche, ma non si sognavano certo di farsene base per l'esistenza, e tanto meno di combattere.
In Francia, comunque, i cavalieri baccellieri detentori di feudi che sovente erano appena sufficienti ad armare un solo guerriero (feudi « dì scudo ») trovarono a lungo attività a suo modo remunerativa nella guerra dei Cent'Anni. In Germania, i cavalieri d'origine sia libera che non (i ministeriales), che erano sempre stati rigorosamente segregati rispetto all'alta nobiltà e che il sistema dello Heerschild aveva inchiodato al loro ruolo
di nobiltà subalterna, trovavano sostentamento nelle loro terre talvolta veramente povere, e si consolavano con la partecipazione a quei tornei che erano diventati un'autentica istituzione; ma, troppo spesso indigenti e oppressi dai debiti, per forza di cose si trasformavano in predoni (Raubritfer) ai danni soprattutto dei ricchi mercanti delle città, che essi chiamavano sprezzantemente « sacchi di pepe ». Questi, dal canto loro, reagivano organizzando spedizioni punitive contro i castelli o ingaggiando a loro volta dei cavalieri altrettanto bisognosi dei loro colleghi predoni da abbassarsi a tradire il loro rango (« mercanti di sangue », li definivano gli altri) e a farsi cacciatori di fuorilegge anche quando questi ultimi portassero cinturoni e sproni dorati. Da qui la frequenza con la quale questi nobili altezzosi e disperati, che sapevano soltanto combattere, si facevano ingaggiare come mercenari nelle compagnie di ventura: società a struttura mercantile queste ultime — lo ha ben dimostrato Mario dal Treppo — ma nelle quali tuttavia sopravviveva, incanaglito, qualche bagliore dell'antica virtù cavalleresca.
Analoga tragedia stavano vivendo i cavalieri spagnoli, gli orgogliosi hidalgos che mai si sarebbero adattati — al contrario di quanto invece accadeva a molti loro colleghi di altre aree d'Europa — a trasformarsi in più o meno floridi agricoltori, e che stimavano degno di loro soltanto vivere della propria spada. Terminato con il matrimonio dei «Re Cattolici » Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia il lungo periodo dei torbidi e delle guerre civili succeduto allo stabilizzarsi della Reconquista, molti di questi hidalgos si sarebbero rifugiati nelle milizie a piedi, i gloriosi fercios di cui tanto a ragione sarebbe andato orgoglioso l'imperatore Carlo V; oppure avrebbero finito col tentare l'avventura cavalleresca oltreoceano mischiando l'eco delle leggende cosmografiche medievali relative all'Asia (che col Nuovo Mondo si sarebbe com'è noto a lungo tentato di identificare), che parlavano del Paradiso Terrestre, della Fontana della Giovinezza e delle Amazzoni, con la realtà fatta di massacri e di saccheggi che ivi consacrò le gesta dei conquistadores. Anche
questa — come, più tardi, le guerre indiane per i giovani ufficiali romantici di Sua Maestà Britannica che vivevano il clima del revival ottocentesco della cavalleria — sarebbe stata una delle forme concrete dell'avventura.
In questa storia continua di malintesi e di contraddizioni che è la storia della cavalleria, va pertanto registrato anche il fattoche la cultura aristocratica medievale era piena di valori e di lieviti cavallereschi (ma, significativamente, Thomas Malory poteva scrivere nel Quattrocento inglese quello che prima dei capolavori dell'Ariosto e del Cervantes sarebbe stato il massimo prodotto della tarda letteratura cavalleresca: e lo avrebbe dedicato alla morte di Artù e alla fine dei gloriosi costumi equestri), ma che la cavalleria vera e propria era divenuta ben povera cosa: una serie di orpelli esteriori che si potevano vendere e comprare, o uno strumento di promozione sociale, oppure una disorganica congerie di guerrieri superbi del loro rango ma poveri di mezzi e in continua ricerca di sistemi per sbarcare il lunario.
Fra XVI e XVII secolo un'eccezione sarebbe stata la piccola nobiltà polacca, la sdachta, salvata sotto il profilo sociale sia dalla situazione sempre instabile del suo paese — che esigeva dei guerrieri — sia dalla « rivoluzione dei prezzi » in Occidente, che aveva accresciuto sensibilmente il valore di quella terra cui essa era rimasta fedele e dei suoi prodotti.
I sovrani dei nascenti stati accentrati europei reagirono alla crisi della società cavalleresca su due ben distinti piani; sul primo, lavorarono al progressivo svuotamento di poteri e di prerogative sia giuridiche sia socio-politiche della bassa (e, dove e quando poterono, anche dell'alta) nobiltà, in un processo lungo e non privo di momenti di ristagno e occasionali inversioni di tendenza (la celebre « rifeudalizzazione » dell'epoca protomoderna) ma sostanzialmente abbastanza coerente; sul secondo, crearono per la nobiltà, in modo da legarla meglio a sé, una quantità di « ordini di corte » esemplati su quelli religioso-militari e sui modelli proposti dalla letteratura cavalleresca (il più tipico era naturalmente la Tavola Rotonda), dalle fastose e immaginose cerimonie, dalle sontuose insegne, dalle sfarzose vesti, ma privi di un significato che non fosse connesso con l'apparato cortigiano. Questi ordini — di San Giorgio o del Bagno in Inghilterra, della Stella in Francia, della Nave nel regno angioino di Napoli, del Crescente in Lorena, del Toson d'Oro in Borgogna e poi nell'Austria e nella Spagna asburgiche e via discorrendo— sono gli antenati diretti delle moderne distinzioni onorifiche cavalleresche con il loro sistema di decorazioni: all'interno di essi, tuttavia, vigeva un codice che alla fede cristiana e al servizio alle dame (le costanti della mitologia cavalleresca « laica ») univa la fedeltà al re; e in questo senso essi giocarono un ruolo non trascurabile nella conversione alla monarchia, nei paesi di antico regime, da parte di una nobiltà che, fino al Quattrocento inoltrato, risulta tutt'altro che monoliticamente stretta attorno al trono e alla dinastia regnante.
Alla base della « decadenza » della cavalleria e della sua parziale smilitarizzazione fra Duecento e Cinquecento sta comunque il sostanziale mutamento nelle tecniche militari. Se ne era avuta già qualche avvisaglia fino dal XII secolo, con l'introduzione sui campi d'assedio e di battaglia di quell'arma che nella sua versione portatile veniva dalle steppe dell'Asia, la balestra, e che la Chiesa considerò a lungo illecita data la forza micidiale
dei suoi colpi. Nonostante essa ne proibisse l'uso nei conflitti fra cristiani, la balestra si affermò; e insieme con essa il long bow inglese, dotato di lunga gittata e di grande velocità di tiro (due doti che il verrettone scagliato dalla balestra non aveva). Queste armi da lancio avevano obbligato i cavalieri ad appesantire sensibilmente il loro armamento aggiungendo all'usbergo di maglia di ferro (che si andava trasformando dal camicione dei
secoli XI-XII in una specie di tuta aderente al corpo) piastre di ferro sagomate nei punti critici: il collo, il torace, il dorso, i gomiti, i polsi, le ginocchia. Queste difese rinforzate rende-vano meno necessario lo scudo, che fra l'altro era d'impaccio al combattimento d'urto in quanto il cavaliere, impegnato a sostenere la pesante asta fra ascella e braccio destri, doveva avere il sinistro libero di guidare il cavallo. Lo scudo tese quindi a scomparire — ma rimase importante tuttavia come supporto dell'arme araldica —; esso, grande e « a mandorla » nei secoli XI-XII, si trasformò nel XIII in una più piccola arma triangolare e andò in seguito mutando forma fino ad assumerne di fantastiche, esteticamente decorative ma non funzionali allo scontro in campo aperto o in torneo, dal quale veniva eliminato. Questo lento processo condusse, nel Quattrocento, all'armatura
interamente « di piastra »: il cavaliere, coperto da capo ai piedi di acciaio, era un proiettile inarrestabile se lanciato in battaglia: ma bastava accerchiarlo e scavalcarlo, e diveniva un povero crostaceo in balìa della plebaglia a piedi. E ciò accadde sovente, fino da quella celebre « battaglia degli sproni » che fu lo scontro di Courtray del 1302, dove le fanterie borghesi dettero ai cavalieri una dura e solenne lezione. Il Trecento fu l'età delle sconfitte della cavalleria, che dovette — come si vide ad esempio a Crécy — scendere spesso di sella, spezzare la parte inferiore delle lance da scontro e resistere così sulle difensive, come una sorta di fanteria pesante, all'attacco del nemico. Fra l'altro, l'appesantirsi dell'armamento difensivo (a parte un rapido e violento lievitare dei costi) impediva ai cavalieri di stare a lungo in sella e li obbligava a selezionare razze equine sempre più forti
e resistenti; ma meno veloci, il che esponeva il guerriero a cavallo al tiro dell'avversario per un periodo più lungo di quanto non fosse prima accaduto. Come rimedio si dovevano accorciare i tempi di carica e le distanze da percorrere per entrare in contatto col nemico: ma quando dall'altra parte si trovarono rcieri e balestrieri ben allineati e coperti dai grandi scudi rettangolari detti « pavesi », l'attacco riusciva vano o addirittura rovinoso; e lo stesso quando il cavaliere lanciato al galoppo era obbligato a fermarsi dinanzi alla siepe delle lunghe picche delle fanterie comunali o, più tardi, mercenarie (sia gli Svizzeri sia i « lanzi » del Sud della Germania erano noti quali specialisti nel combattere inquadrati in compatti reparti di picchieri). Alla cavalleria restavano l'apparato, i tornei, le sfide « a singolar tenzone »: ma la guerra vera, tra fine Medioevo e inizio età moderna, ora ormai altra cosa. Le armi da fuoco, a partire dal Trecento, dettero un ultimo colpo alla funzionalità militare e al prestigio morale del combattente a cavallo: « maladetto, abominoso ordigno », avrebbe chiamato l'archibugio l'Ariosto, dando voce al canto del cigno della cavalleria medievale; ma il protagonista dell'ultima stagione di essa, il gentile e prode Baiardo, doveva appunto cadere per un colpo di falconetto (un pezzo d'artiglieria leggera), e la sua morte è paradigmatica.
Morì tra la selva delle picche e il fumo delle bombarde, tra i bastioni fortificati e la tirannia dei sovrani assoluti del Cinquecento, la bella avventura cavalleresca? Sì e no. Certo, il combattente a cavallo conobbe dai primi del XVI secolo una lunga eclisse, dalla quale sarebbe tuttavia risorto nel secolo successivo come pistoliere, come lanciere, come dragone (a parte ussari e ulani, mutuati dalle steppe). Caracollo, corazza e pistola avrebbero di nuovo reimmesso il combattente a cavallo sui campi di battaglia d'Europa. Quanto alle distinzioni e alle decorazioni cavalleresche, il loro fascino e il loro prestigio sarebbero durati a lungo, fin quasi ai giorni nostri: e si sarebbero alimentati appunto d'una mitologia e d'una letteratura densissime, sovente molto belle, tali comunque da costituire una voce di rilievo nel panorama culturale europeo. Al tempo di Maria Antonietta o a quello del maresciallo Radetzki si lamentava, è vero, la morte della cavalleria; in Eugenio di Savoia o in Ludwig di Baviera si sarebbero veduti volta per volta gli « ultimi » cavalieri. Pure, di leggenda in leggenda, di decorazione in decorazione, di revival in revival, il fascino della civiltà cavalleresca sopravvive nel mondo contemporaneo: ha saputo adattarsi perfino al mito del cow boy o al mondo dei fumetti e della fantascienza.
La cavalleria nasce morta: appena nata, piange attorno al corpo inanimato di Rolando caduto a Roncisvalle. E piange attorno a un eroe caduto da tempo, se si pensa che il Rolando storico è vissuto nelI'VIII secolo e le chansons datano dall' XI. La « gran bontà » è sempre quella dei « cavallieri antiqui ». È una delle regole del gioco: perché la mitologia cavalleresca fa parte di un modo d'intendere la storia che si rifa di continuo al tema del mundus senescens e della corruzione del presente, contro il quale s'invoca l'arrivo dell'eroe senza macchia e senza paura. L'attesa del cavaliere fa parte di un'esigenza soterica profonda: e non a caso, infatti, tra i più recenti esegeti del mito di san Giorgio vi sono degli psicanalisti. Ma al tempo stesso — e in termini non già di psicanalisi, bensì di concreto divenire storico — le istituzioni cavalleresche e la cultura che tra XI e XVIII secolo e forse oltre ha conferito loro prestigio si sono rivelate uno dei motori più vigorosi del processo d'individuazione e di conquista di autocoscienza dell'uomo occidentale; di quello, vogliamo dire, che Norbert Elias ha chiamato il processo di civilizzazione. È un dato importante, che non si può disconoscere e al quale neppure noi contemporanei possiamo in alcun modo rinunciare.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Mancano storie generali della cavalleria, che forse non è neppure possibile scrivere.
Per un'idea d'insieme, può comunque essere utile M. Keen, Chivalry, Yale University Press, New Haven-LoDdon 1984 trad. it.. La cavalleria, Guida, Napoli 1986). Gli addobbamenti sono trattati nei due libri di J. Fiori, L'ideologie du glaive e L'esser de la chevalerie, entrambi Droz, Genève, rispettivamente 1983 e 1986. Per i Tornei, bisogna rifarsi a J. Fleckenstein, (a cura di), Das ritterliche Turnier im Mittelalter, Vandenhoeck und Ruprecht, Gottingen 1985. Il senso dell'avventura cavalleresca è stato ripercorso da M. Del Treppo.
I
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