La Tavola Rotonda

Le radici del consumismo

 

 

Nell’accezione generalmente conosciuta il consumismo è definito come quella tendenza, particolarmente esasperata nel secondo dopoguerra, da parte di vaste masse di persone a perseguire una continua acquisizione di beni materiali o servizi alla ricerca di una maggiore soddisfazione personale.

Nella teoria economica moderna, basata in gran parte ancora sui modelli classici dell’economia di mercato e sulle leggi della domanda e dell’offerta, la parola “consumatore” indica praticamente la totalità della popolazione in qualità di fruitori dei beni e servizi prodotti; ha in genere, a differenza del termine “consumismo”, una connotazione positiva (basti pensare alle espressioni “diritti del consumatore”, “incentivi al consumo”, etc.). Si potrebbe quindi concludere, e molti lo fanno, che il consumismo sia una sorta di “consumo deviato”, portato all’eccesso da singoli individui o gruppi di persone con diverse motivazioni di solito legate all’ostentazione di uno status sociale o alla soddisfazione di bisogni di appartenenza.

In realtà questa spiegazione è semplicistica e non considera minimamente nè le origini, nè le reali motivazioni del fenomeno. Non esiste un consumo “buono” e uno “cattivo”, come non esiste neppure un’economia “di mercato” quale i liberisti come Adam Smith per primi e i loro degni successori in seguito hanno sempre dato a intendere o voluto credere. Lo scopo di questa breve trattazione è di gettare uno spiraglio di luce sulle profonde contraddizioni e ingiustizie di un sistema economico che sperpera in modo criminale le risorse del pianeta, mantenendo la maggior parte della popolazione in uno stato miserevole per assicurare a una ristretta minoranza di essa l’illusione di una falsa opulenza, il tutto per garantire la stabilità e il profitto di pochi grandi gruppi economici che, alla soglia dell’era della nuova tecnologia, impongono al mondo un giogo forse peggio che feudale, in quanto molto più subdolo.

 

Inizierò la mia analisi dal consumo nei paesi industrializzati, in quanto esso condiziona la gestione dell’economia e delle risorse in tutto il resto del mondo. Risulta subito evidente che i bisogni fondamentali, o almeno quelli tra i bisogni fondamentali che possono essere soddisfatti da beni di consumo, non sono assolutamente un problema nella maggioranza della popolazione di tali paesi. Si creerebbero quindi tutte le condizioni per una completa saturazione dei mercati, che è il peggior nemico dell’industria moderna: un grande gruppo può superare ogni tipo di difficoltà in modo più o meno legale e morale, ma se non vende i suoi prodotti entrerà in crisi in brevissimo tempo. Di qui l’esigenza di pilotare i consumi, creando bisogni che non esistono tramite un sapiente uso dei mezzi di comunicazione di massa (di cui ogni gruppo industriale di una certa dimensione viene in un modo o nell’altro direttamente in possesso). Chiunque prenda in mano un testo di marketing anche vecchio di vent’anni potrà leggere con disgusto interi capitoli dedicati alla CREAZIONE dei bisogni e della domanda di beni ad essi collegata. E chiunque provi a riflettere a mente serena e con un minimo di distacco sulla dinamica dei propri consumi quotidiani non potrà non ammettere che la grande maggioranza di essi non è dettata nè da bisogni materiali, nè tantomeno come spesso si vuol far credere da necessità di tipo più elevato (soddisfazione personale, gusto per l’innovazione, etc.), ma solo da consuetudini, condizionamenti e principalmente dal contesto sociale in cui si vive.

Anche servizi essenziali come la sanità, i trasporti, la stessa informazione e cultura sono stravolti dalla necessità di mantenere elevati livelli di domanda, e così abbiamo sempre più bisogno di farmaci sempre più costosi per una popolazione sempre meno sana, facciamo sempre più viaggi in luoghi sempre più lontani che vengono sempre più inquinati dai rifiuti della nostra presenza e della nostra cultura, e abbiamo sempre più carta da leggere di sempre minore qualità. L’arte è diventata consumo: gli artisti producono secondo le esigenze del mercato, e le loro stesse vite, i loro vezzi, i particolari più insignificanti sono ulteriori tocchi all’immagine di un prodotto che possa catturare l’attenzione di una fetta più ampia possibile del mercato. Al suo tempo Michelangelo era considerato un bravo artigiano, considerazione in genere rivolta agli artisti in passato: oggi le raffinate tecniche di ingegneria economica consentono di creare dal nulla fenomeni destinati a nascere e a sparire in breve tempo, dopo aver creato per un po’ l’illusione del mito. I Beatles sfondarono quando il loro agente comprò un loro album in centinaia di migliaia di copie, ma tramite il fuoco concentrico che è possibile effettuare oggigiorno tramite numerosi canali mediatici simili imprese rischiose ed eroiche appaiono superate.

Questo modo di produrre e commerciare beni e servizi inutili finisce per condizionare l’economia mondiale: per accrescere i margini di guadagno le imprese trovano naturale impiantare i processi produttivi dove il lavoro costa meno, ovvero nei paesi più poveri; allo stesso modo l’estrazione delle materie prime, le lavorazioni pericolose e inquinanti e tutto ciò che è molto comodo per l’industria ma socialmente ed eticamente pericoloso, ad esempio il lavoro minorile, viene spostato dove le legislazioni sono più deboli, i governi più facili e meno costosi da corrompere e le libertà individuali meno considerate: di nuovo, i paesi in via di sviluppo. Ironia della sorte, questo è oggi quasi universalmente considerato il mezzo tramite il quale questi popoli si affrancheranno dalla loro condizione di inferiorità: come se pagare giorni di lavoro in miniera con un paio di jeans Levi’s fosse uno scambio equo e reciprocamente vantaggioso.

E per chi si ostina a ritenere che la felicità consista nell’avere la pancia piena, di qualunque cosa (la qualità del cibo sta costantemente peggiorando) e i piedi caldi, a qualunque costo (la gran parte del mercato calzaturiero, anche in Italia che è uno dei maggiori produttori al mondo, è coperto da prodotti cinesi e asiatici in genere fabbricati con lavoro minorile e materie prime di bassa qualità), citerò un argomento conclusivo.

Che io sappia a nessuno oggigiorno è ancora venuto in mente di dire pubblicamente che la ricchezza e il benessere materiale sono concetti relativi e non assoluti. Mi spiego: immaginiamo un villaggio in cui gli abitanti, un centinaio di famiglie in tutto, siano molto poveri. Se fra queste famiglie ce n’è una meno povera delle altre essa sarà guardata con grande rispetto dal resto della comunità. I suoi figli e le sue figlie saranno considerati partiti interessanti, e tutti nel villaggio cercheranno di fare del loro meglio per mantenere buoni rapporti. In un ambiente molto esclusivo, viceversa, chi ha appena qualche status sociale in meno degli altri rischia di sentirsi emarginato, anche se il suo denaro potrebbe comprare praticamente di tutto.

Il fatto che il prodotto interno lordo di un paese cresca non significa assolutamente nulla riguardo al benessere di una popolazione, specie poi se non viene neanche spiegato come esso è distribuito: non a caso nei paesi in via di sviluppo, ma anche in Italia, nel civilissimo Giappone per non parlare degli Stati Uniti, la criminalità organizzata regna spesso incontrastata e la corruzione permea profondamente ogni livello e ogni settore dell’economia pubblica e privata.

 

Il denaro è potere, e il potere è denaro: i nostri consumi sono uno dei mezzi più efficaci grazie a cui le oligarchie finanziarie e industriali controllano la società. Consumare meno e in modo più responsabile è doveroso e aiuta a ridurre l’impatto del problema, soprattutto sull’ambiente, ma esso rimane enorme: chiunque abbia un animale domestico in casa provi a riflettere sul fatto che quell’animale con tutta probabilità riceverà nel corso della sua vita più assistenza medica di quanta se ne possano permettere nel mondo i tre quarti dei genitori per i loro figli.

La giustizia sociale, oggi come sempre, è un problema di distribuzione delle risorse e del potere. Tutta la tecnologia che potremo inventare nei prossimi secoli non migliorerà in nulla la nostra vita; anzi, ci porterà inquinamento, stress e nuovi problemi da risolvere (basti pensare alla droga), se non sapremo concepire una nuova struttura sociale più equa e realmente rappresentativa degli interessi della popolazione, e non solo di un ristretto gruppo di privilegiati.

 

 

Commento di Palle:  Intanto, prima di tutto, un doveroso ringraziamento per questo tuo articolo Grey, il Regno è diventato grande grazie proprio a questa passione ed a questo spirito di partecipazione!!! Grazie per avermi permesso anche di fare questo piccolo commento.

Ma veniamo al dunque, il lavoro presentato da GreyHawk è molto breve, vero, ma tutt’altro che semplicistico, come una prima lettura potrebbe erroneamente portare a pensare. Il nostro caro Grey ha toccato argomento delicati (anzi, li ha appena sfiorati!) e dietro ad ogni singola frase da lui scritta ci sarebbero da fare dietro degli studi, un gran ragionamento, ed una piccola meditazione. Io che studio economia ho ben capito quello che vuole intendere, trasmettere, ma invito tutti i lettori ad approfondire gli argomenti citati da GreyHawk… per esempio, quando parla di ricchezza e  benessere materiale in termini relativi ed assoluti, apre la strada a quello che può essere un lungo, ma costruttivo, dibattito.

Vorrei, con il permesso di Grey, fare una piccola aggiunta alla sua ultima frase, una parolina chiave che completa, secondo me, il discorso: educazione; una struttura sociale più equa si basa anche su una più diffusa e sana educazione.

Meditate gente, meditate!

 

 GreyHawk