Racconti Fantasy

La Dea delle Acque

Dal libro degli Dei
Narrato e tradotto da Seregon, primo vescovo e reggente del Tempio delle Acque.

  

Quando le acque del grande mare erano azzurre e placide, quando la terra fioriva di alberi e brulicava di vita, scorreva un piccolo ruscello. Turbinava di verde smeraldo e gorgogliava ignaro del suo gravoso ruolo. Molti piccoli animali, piante ed uccelli, lambivano le sue acque fresche e cristalline per trovare ristoro, ombra e riposo. Anch’essi erano all’oscuro del compito assegnato a quelle acque. Il ruscello aveva scavato, con pazienza infinita e solerzia d’artigiano, una piccola valle nella quale si era divertito a creare rivoli e cascatelle spumeggianti. Dalla sorgente, lungo tutto l’interminabile tragitto che lo avrebbe portato al mare, il ruscello era contento di aver creato il suo capolavoro, una piccola accogliente oasi. Solo l’animale a due zampe, quello che chiamano uomo, non aveva apprezzato la sua opera. Era giunto un giorno, usando cavalli, indossando metallo. Giunsero tanti uomini, alcuni sulla sponda destra, altri sulla sponda sinistra. Parlarono a lungo, gridarono, si scagliarono lunghi pezzi di legno che rovinarono le cortecce degli alberi, calpestarono le acque e le tinsero del loro sangue. Eppure il ruscello scorreva tranquillo, eterno ed ignaro del suo significato, un angolo pacifico rilucente di verde muschio ed intricate ninfee. Gli uomini tornarono. Portarono carri di legno, animali dalle lunghe corna, tagliarono alberi e spaccarono pietre. In un lampo, nel tempo di raggiungere il mare, il ruscello vide nascere le tane degli uomini. Una era massiccia e squadrata. Grandi massi tagliati formavano le sue pareti, e piccole feritoie ne costellavano regolarmente la superficie. Su di esse uomini che indossavano metallo viaggiavano senza sosta, avanti ed indietro.

L’altra era alta e slanciata, come un grande albero. Aveva torri tonde e liscie come i tronchi degli olmi e tetti a punta con alti pennoni che sventolavano di rosso e oro. Spesso da essa provenivano suoni squillanti di trombe. Il ruscello scorreva tranquillo. Qualche piccola deviazione, nel corso degli anni, lo aveva costretto ad adattarsi un po’, ma il suo capolavoro si arricchì di nuove pozze lucenti, brulicanti di pesci colorati, e nuove cascate che bagnavano rocce tonde e lisce coperte di muschio profumato. Di tanto in tanto, nel tempo di raggiungere il mare, il ruscello si tingeva di rosso. Gli uomini che indossavano metallo arrivavano sulle sue sponde, si gridavano parole, i cavalli nitrivano nervosi. Poi la scena si ripeteva, come il ruscello l’aveva vista tante volte, lampeggiare di metallo su metallo, scintille e stridore di denti. Accolse tante volte l’ultimo respiro degli uomini morenti che affondavano il volto pallido nelle sue acque e nella fanghiglia odorosa delle sue sponde. Cercava di consolarli, di dare loro accoglienza, anche se non lo degnavano mai di uno sguardo. Essi non ascoltavano, non sapevano ascoltare.

Gli anni passarono, vennero le grandi piogge che sconvolsero le rive della piccola oasi, vennero le lunghe estati calde ed afose, e la piccola oasi si trasformò in una valle piena di farfalle colorate. Il ruscello, nella sua infinita pazienza, sapeva sempre ritrovare la via del ritorno e guarire le ferite della sua cretura oppure bearsi delle nuove, imprevedibili, bellezze.

Mancava solo un dettaglio affinchè la sua creatura fosse perfetta. Essa era in armonia con le acque, sapeva suonare col vento, profumava, nutriva, ristorava tutte le creature. Tutte tranne una. L’uomo non aveva bisogno di lui. Trovava acqua scavando nella terra, mangiava ordinando alle piante di crescere dove preferiva, costruiva giacigli per il suo riposo e casacche per il lungo inverno, ma non trovava pace. La più umile delle creature del bosco, aveva il cuore tranquillo, il ruscello lo sapeva bene, ed anche quando un predatore le inseguiva, o giungeva la stagione degli amori, le sue acque placavano i loro cuori e li rasserenava con la sua voce. Essi sapevano ascoltare.

Gli uomini irrequieti ampliarono le loro tane, le chiamarono castelli, contee, regni e regioni eppure tornavano ad uccidersi sulle sponde del ruscello. Alle volte comparivano bandiere sventolanti, altre volte il fuoco bruciava i rami degli alberi ed i petali delle ninfee e la cenere si spandeva nelle acque lucenti, lanciando un ultimo grido, muto come sono muti gli alberi. Perché gli uomini che vestivano metallo non ascoltavano la sua voce? Perché non trovavano pace sulle sue rive? Forse l’oasi non era abbastanza bella? Non vi era forse vita, ed ombra, e cibo in abbondanza? Il ruscello non era più molto felice, ma scelse di continuare a scorrere per il bene di tutti gli altri.

Un giorno, dal castello turrito, giunsero echi di trombe, grida festose ed applausi tonanti. Molti altri uomini giunsero portando doni, caricando carri e cantando canzoni. Il ruscello sentiva il profumo di una nuova vita e si accese di speranza. Ma gli uomini della fortezza di granito, continuavano a correre sulle alte mura, viaggiavano di notte, calpestando le acque del ruscello, per giungere di sorpresa nel castello turrito di rosso ed oro, cercando entrare. Erano carichi di odio, il ruscello poteva sentirlo. Dal castello turrito giunsero uomini, vestiti di metallo lucente e stoffe colorate, che si sedettero sulle sponde, accesero fuochi e non lo abbandonavano mai. Questi era un po’ felice ma gli uomini non ascoltavano. Guardavano l’altra sponda, spiavano i movimenti ed accendevano fuochi. Una notte, fredda e limpida come un cristallo di ghiaccio, gli uomini della fortezza attraversarono le acque. Il ruscello sentì il gorgoglio della vita che abbandonava gli uomini  del castello turrito. Grida giunsero dalla tana rossa e oro, e gli uomini della fortezza, silenziosi e veloci, tornarono al ruscello. Tra le braccia di un uomo grifagno piangeva una bambina dai capelli neri come le piume dei corvi e dagli occhi azzurri come il mare. L’uomo la teneva stretta a se, colpendola di tanto in tanto poiché questa si agitava forte. Il ruscello si indignò. Era quella la vita di cui aveva sentito il profumo. Era così bella ed innocente. Decise che era giunto il momento di fare qualcosa. Infranse le regole, disubbidiì alle leggi della natura. Si gonfiò come nei giorni di pioggia, divenne freddo come quando c’è la neve, mentre stendeva le radici delle ninfee nelle sue acque. Il ruscello si mosse e gli uomini ebbero paura. Chi era già passato corse al castello, lasciando pugnali ed archi. L’uomo grifagno li guardò con occhi di fuoco. La bambina aveva smesso di piangere, aveva forse sentito la voce del ruscello? L’uomo grifagno inveì contro i suoi uomini e scagliò il pugno contro il ruscello, che ora riempiva l’oasi, turbinando minaccioso. L’uomo grifagno si gettò in acqua, tremando di freddo, tenendo la bambina alta sopra le braccia. Avanzava a fatica. Le ninfee gli impedivano il passo, chiedendogli di tornare indietro. Il ruscello lo investiva con le sue acque fredde e taglienti. L’uomo non indietreggiava di un passo. L’odio che nutriva per il castello turrito era troppo forte e gli faceva pulsare le orecchie e balzare il cuore nel petto. Il ruscello poteva sentirlo. Comprese le intenzioni dell’uomo ed il destino che avrebbe atteso l’innocente bambina. Non l’avrebbe mangiata, come fanno i predatori, non l’avrebbe portata a vivere nella sua tana, come fanno tutti gli animali. L’avrebbe usata per conquistare il castello turrito, per uccidere tutti gli altri uomini. Il ruscello non riucì ad accettarlo. Vedeva quegli occhi grandi, profondi come il mare, guardare la sua oasi e non avere paura. Sembrava quasi che riuscisse a vederlo davvero. Il ruscello aveva visto esalare la vita tante volte sulle sue sponde, ma si era sempre mostrato imparziale. Questa volta non resse all’orrore di quell’uomo cattivo. Alzò le sue acque, crebbe il limo viscido sul fondale e l’uomo grifagno sprofondò inesorabilmente. Chiamò le sue ninfe più belle e più grandi a sorreggere la piccola. Questa rise, si sedette nei petali candidi e morbidi. Il suo sorriso illuminava la  valle ed il ruscello placò la sua ira in quel suono limpido e chiocciante. Ora il ruscello si sentiva completo. Tutte, tutte le creature apprezzavano la sua piccola oasi. Era davvero il suo capolavoro. Appoggiò la ninfa sulla sponda. Giunsero gli uomini e le donne del castello turrito. Portavano torce e spade, erano cupi in volto ma quando la luce tremolante lambì la piccola valle videro ciò che non avevano mai voluto vedere. La bambina dormiva accovacciata e serena nelle ninfee, il ruscello scorreva placido cullandola e sussurrandole una ninna nanna fatta di foglie e vento. La madre si fece largo tra gli uomini. Prese in braccio l’infante e la baciò mentre lacrime calde le scorrevano sulle gote pallide dalla paura. La bambina le sorrise e le raccontò, con l’innocenza di un cucciolo, quanto era successo. Molti uomini si inginocchiarono nel limo e baciarono le acque. Quale gioia esplose in tutta la valle. Di nuovo si udirono squilli di tromba e grida festose. Molti vennero ad ammirare il ruscello, si sedevano sui suoi sassi muschiati, disegnavano su grandi fogli, cantavano canzoni o, semplicemente, dormivano cullati dalle acque nei giorni più caldi. Ben presto, però, gli uomini dimenticarono quel luogo, si fecero sempre meno presenti e sempre più disattenti alla voce delle acque. Solo una persona continuava a tornare, ed era sempre una gioia. La bambina era cresciuta in una donna dai lunghi capelli neri. Neri come il letto del ruscello nei giorni di pioggia. Posava il suo sguardo gentile, color del turchese, sulle acque e parlava. Parlava alle acque e raccontava loro le sue gioie, le sue preoccupazioni. Temeva per il castello turrito, per i suoi genitori dalle corone d’oro. Temeva che gli uomini della fortezza grigia muovessero di nuovo le armi. Si accovacciò, la testa sulle ginocchia, e pianse. Il suo pianto era sommesso e rassegnato, come di chi avesse trovato già la pace, e non compredesse come gli altri la trovino così irraggiungibile. Quando il ruscello sentì il sapore delle sue lacrime, esplose di gioia e tormento. Si era innamorato a prima vista di quella donna, dal momento in cui aveva sentito il primo battito del suo cuore. Ora sapeva che ella provava gli stessi suoi sentimenti e non potè nascondersi a lei. Infranse le regole per la seconda volta. Dalle acque formò il suo corpo, dalla creta delle sponde formò le ossa, le foglie e le cortecce divennero i suoi muscoli e la sua pelle. Rocce levigate di fiume erano i suoi occhi, capelli soffici come un vello e la sua bocca era leggera come un petalo di ninfea. Sorse dalle acque e si mostrò in tutta la sua eterna bellezza. La donna non aveva paura, solo un caldo stupore. Lo aveva visto tante volte nei suoi sogni, tante volte aveva immaginato. Le si sedette accanto e le parlò guardandola, con il cuore impazzito di emozione per la prima volta. La sua voce sapeva di stormire di foglie e di onde calme.

“Come ti chiami” chiese.

La donna chiuse gli occhi, sorrise dischiudendo le sue labbra rosse come il tramonto.

“Shalla” rispose – “ e tu?”

“Non so. Dammi tu un nome.”

La donna arrossì, e distolse quei meravigliosi occhi di gemma.

“Sono venuta qui tante volte, nell’attesa di un segno, perché sapevo che tu eri lì. Nutrivo la segreta speranza di conoscere qualcuno che sapesse leggere nel mio cuore, che sapesse vedere al di là delle forme. Ora sei qui ed il mio cuore impazzisce. Una mano invisibile, ma ferma, stringe il mio petto e mi impedisce di respirare. Ti chiamerei Amico, o Pace, Culla ed Eterna Bellezza ma nessuno di questi nomi ti descriverebbe davvero”. La donna guardava in basso, verso le acque, che ora stavano immobili ad aspettare una sua risposta. Il ruscello la prese per mano, sospirò nel sentirne il lieve calore. “Quest’oasi che ho curato nei secoli, limando ogni asperità, aggiustando ogni dettaglio, ascoltando e parlando agli animali, dando pace e ristoro, altro non è che la ricerca di una bellezza. Oggi ho trovato una bellezza ancor più alta e per quanto possa cercare e tentare, le mie acque non saranno mai cristalline e pure come la tua anima, non avrò mai pietre più preziose dei tuoi occhi, ed anfratti ombrosi e caldi più delle tue labbra rosate. Nello sfiorarti provo una grande gioia, ed un dolore lancinante qui, sul petto, perché vorrei dirti cose che orecchio umano non ha mai udito, vorrei pronunciare mille volte il tuo nome, che diventi il gorgoglio delle mie acque.” - Il ruscello si fece cupo in volto – “ Non so se vuoi ascoltare queste mie parole.”

Shalla prese le mani d’ebano del ruscello fra le sue, le strinse e sorrise, illuminandosi. “Non osavo sperare tanto, neanche nei miei sogni più folli ed arditi. Non so come ti chiameranno gli uomini, ne quale nome vorresti avere. So che un solo nome avrai per me: Amore.”

Shalla lo cinse al collo, il ruscello era titubante, aveva paura, ma era troppo l’amore per lei, per il suo cuore puro, che infranse le regole per la terza volta. Si amarono. A lungo, dolcemente, sulle rive immobili del piccolo ruscello. Animali di ogni specie, uccelli e farfalle, vennero ad assistere a quel prodigio. La terra esplose di vita. Trascorsero alcuni giorni felici. Felici davvero. Il ruscello palpitava nell’attesa della sua amata, la quale giungeva ogni notte, fuggendo a piedi nudi dal castello turrito. Il tempo non era mai stato così importante, così lento e vitale. L’eterna immutabilità del ruscello era divenuta una condanna e non più una benedizione imperitura. Si amarono di nuovo, come nessun mortale ha mai amato. Un giorno, però, il ruscello era cupo, il suo volto scuro era solcato da un’amara tristezza.

“Mio amore, mia ninfea preziosa. “ - esordì e Shalla comprese quello che il suo cuore, da giorni, le andava sussurrando – “ Ora comprendo perché non dovo mai mostrarmi agli uomini. Perché rimango nascosto ed indifferente. Il regno del tempo non è fatto per i fiumi. Ogni giorno è una nuova sofferenza per me, una nuova secca nelle mie anse. L’amore brucia il mio petto e scintilla prezioso e vitale ogni volta che sei con me, ma tutto questo non dura che pochi battiti e subito devo tornare nel mio letto, che ora mi appare solitario, vuoto ed inutile.”

Shalla represse una lacrima, lo abbracciò forte e sentì la morte nel cuore. “Sapevo che questo giorno sarebbe venuto. Lo sapevo fin dal primo momento. Però ti prego, amore, ti imploro di credere in quelle parole che per tanto tempo hai sussurrato al mio orecchio di fanciulla. Ti prego di non perdere la speranza che hai trasmesso a tutti i viandanti che solcavano le tue acque…” – non riuscì più a trattenere le lacrime. Sgorgavano copiose come le cascate dell’oasi e si disperdevano sul petto d’ebano del ruscello. Poi, calmati i singhiozzi, continuò : “Io ti amo, più di ogni altra cosa, ma non voglio impedire il tuo destino. Chi sono io per volere per me sola, la tua pace ed il tuo ristoro? Chi sono, cosa mai ho fatto per meritare un simile dono? Se vorrai tornare nelle acque, e non mostrarti più lo accetterò. Concedimi solo di potermi sedere ancora, sui tuoi sassi profumati di muschio.”

Detto questo si staccò da lui e tornò al castello, con passo veloce ma triste, senza mai voltarsi indietro. Il ruscello si tuffò rabbioso nelle acque, tanto che queste divennero grigie e spumose. Le sue membra si dissolsero nel turbinare e dell’uomo d’ebano non si ebbe più traccia.

Passarano altri giorni lunghi come ere, poi mesi ed anni. La donna tornava di tanto in tanto a lambire le acque, ma il ruscello distoglieva il suo sguardo e trascorreva trepidanti momenti nell’attesa che lei si levasse triste. Un giorno, tormentanto dalla pioggia e da nere nubi, giunsero di nuovo gli uomini vestiti di metallo. Dalla fortezza giunsero carri d’assedio, rombanti e pesanti. Giunsero tonanti, centinaia di zoccoli di cavalli, di piedi in marcia e stendardi sconvolti dal vento impetuoso. Il castello turrito aprì le sue porte istoriate e vomitò armature lucenti, fuochi dirompenti ed uomini bardati da battaglia. Il ruscello era indifferente, molte volte aveva visto quella scena. Si dedicò alle sue ninfee, alle sue radici che raccoglievano il calore della terra. Si accorse di lei solo quando parlò. Era in sella, impettita, vestita di metallo. Al suo fianco sventolavano gli stendardi rosso ed oro e sul suo capo leggiadro, posava una pesante corona. Il ruscello non sentiva le sue parole, stava chiedendo pace e minacciava guerra. Era solo una donna, si disse. Quante volte aveva visto morire degli uomini, quante volte aveva accolto il loro respiro? La battaglia iniziò. Il ruscello non osava guardare, udiva solo il crepitio sordo delle catapulte, lo stridere delle spade, l’infrangersi degli scudi. Le voci degli uomini erano un unico boato di morte. Ad un tratto avvertì come un sussurro, un gemito, il cadere di una foglia. Non riuscì più guardare altrove. La vide come in un sogno scivolare da cavallo, mentre l’armatura di metallo si staccava, inservibile. Rotolò sulle sponde, cadde in acqua. Le sue vesti fluttuavano candide, sul suo petto una rosa scarlatta si disperdeva, e con essa la vita di lei, tra i flutti. Il ruscello esplose di rabbia, la raggiunse, la abbracciò. Maledisse la sua stupidità, il suo cieco egoismo. Secoli di dannazione, solitudine e sofferenza non erano nulla a confronto di quella visione. Gli incubi più oscuri erano solo un riflesso di quel momento. Le acque si gonfiarono, i massi esplosero per l’impeto. Numerosi guerrieri vennero inghiottiti. Chi combatetva sulle sponde vide le acque grigie sorgere, alte come una quercia secolare, e prendere le sembianze di un uomo, dagli occhi terribili. Parlò e la sua voce era tuono e tempesta. “Assassini!” gridò, mentre scagliava le sue membra di acqua e greto di fiume sugli eserciti. Miscelò la sua acqua limpida al sangue dei soldati. Molti fuggirono in alto, cercando riparo dalla sua furia. Il ruscello strinse i pugni ed esplose in un’onda di piena, una mareggiata, un fortunale. Tutti vennero spazzati via, con le loro armature, i loro cavalli, gli stendardi e quant’altro. Il fiume tornò calmo, le acque si ritirarono e divennero sepolcro di migliaia di uomini. L’uomo d’ebano uscì di nuovo dalle acque. Aveva il capo chino e reggeva tra le sue braccia possenti il corpo esanime del suo giovane amore. Le piante si ritirarono dalla riva mostrando una pietra, grande come un carro, che era nascosta alla vista degli uomini. Vi depose il corpo della donna e si sedette al suo capezzale, stringendole la mano.

“Ora comprendo quanto valessero per me quei battiti, quei brevi, fulminei battiti. Ora comprendo quanto sono stato stolto e cieco. Per te ho infranto tutte le regole, ho infranto le tradizioni, ho mostrato ciò che non andrebbe mai mostrato ma non ho rimorsi. Ora capisco cosa mancasse alla mia oasi, alla mia perfetta valle. Mancava il tuo sorriso, i tuoi occhi, il tuo amore. Ormai non ho più paura del giudizio della Madre Terra, poiché essa da la vita. Io darò la mia vita per ciò in cui credo, come ho sempre fatto. Appoggiò una mano sul suo petto scuro e questa scivolò all’interno. Estrasse petali di ninfea, quei petali che erano il suo cuore. Li depose sul petto, madido di sangue, della donna ed attese. La sua pelle d’ebano si stava increspando di venature, come un deserto in attesa di acqua. Ma le sorrise, le sorrise dolcemente quando aprì gli occhi. Shalla si tirò su, appoggiandosi sui gomiti, lo abbracciò forte. Guardandosi intorno comprese cosa fosse accaduto, ma il suo dolore fu immenso quando vide il volto di lui. Poco le importava del destino dei suoi simili. Loro stessi avevano scelto la via della morte, quando lei chiedeva solo di poter vivere in pace, lontano da tutto. Ora aveva la voce rotta dal pianto, dall’incredulità di un’addio definitivo. “Cosa hai fatto? Cosa mai hai fatto amore mio. Perché? Io ero destinata alla morte, io ho cercato la guerra. Perché sei tu quello che deve morire? Se tu morirai, io scomparirò con te!”

L’uomo d’ebano scosse il capo con energia, tanto che polvere di terra si sgretolò dalle sue gote.

“Non dirlo. Non dirlo! Non rendere vano il mio sforzo. Non rendere inutile il mio ultimo gesto. Io ti amo più di ogni altra creatura ed ho deciso di donare a te la mia vita, la mia stolta vita, affinché tu possa illuminare altri come hai fatto con me.”

Le acque del ruscello si andavano lentamente ritirando, ed il volto d’ebano era una ragnatela di grigi. Shalla lo vide spegnersi tra le sue braccia. Pianse, e gridò forte il suo no al destino. La sua volontà era più forte della morte, il suo amore più grande di quanto lei stessa potesse immaginare. Strinse il suo petto a quello dell’uomo, tanto che in parte, vi penetrò attraverso. Si spinse con le gambe sulla roccia, mentre reggeva il capo del suo amato sulla sua spalla. Un tonfo sordo accolse i due corpi, uniti nell’ultimo abbraccio e si richiuse.

Moltissimi anni sono passati da allora. Il fiume scorre ancora placido, le creature del bosco trovano ancora riparo, ristoro e pace tra le sue anse ombrose. Nessuno sa quale destino abbiano avuto i due amanti. Leggende narrano che viandanti, nelle notti calde d’estate, odano voci aleggiare sulle acque. Voci che si rincorrono, che si abbracciano e che ridono felici in una pace eterna. I viandanti che hanno udito quelle voci, sovente ritornano per placare il loro cuore tormentato da mille, inutili, richieste. Ancora oggi possiamo vedere la pietra, l’ultimo giaciglio della Dea delle acque, ornata di ninfee e lambita dai flutti placidi di un ruscello.

 

 

Dedicato a Laathe.
L’unica donna che ha le chiavi del mio cuore.

 

 

Parthan