Brokenland
Fine
autunno. Regno di Arketon. Locanda del Varco.
"Amico mio, ho ricevuto il tuo messaggio lungo la strada. Ho
temuto che ti fosse successo qualcosa, di solito non mandi Libres senza un
motivo più che valido.
Visto che mi chiedevi ragguagli sulla
situazione ti accontento.
Dopo un giorno e mezzo di cammino sono arrivato, stremato, presso la
taverna da te indicatami…la locanda del Varco…"
La locanda era lungo la strada principale che, dal varco anellare d’Adachi,
attraversava l’Anello per Ingmard nel regno di Mordered Secondo.
Amorc vi giunse nella notte.
Una notte senza stelle.
"E’
buffo, sono nato e cresciuto nel Primo Anello del regno, e non mi sono mai
accorto di questa locanda. Quello che più mi ha colpito sono stati i muri,
costruiti con pietre di Ghios.
Strano.
Ti assicuro che esitai qualche istante prima d’entrare, ma ero così
stanco che, alla fine, mio malgrado, ho varcato la soglia e, fu proprio in quel
momento che appresi
del tuo arrivo…"
Amorc si fermò sulla soglia facendo scorrere lo sguardo da una parte
all’altra dello stanzone. Il locale, non molto ampio, era impregnato dagli
odori del vino speziato e della carne fritta. L’illuminazione appariva buona
anche se, la spessa coltre di fumo dovuta alle torce ed alle pipe, faceva
lacrimare gli occhi ed annebbiare la vista.
Amorc calcolò che potessero esserci sei o sette tavoli squadrati e due
panconi, ma le sedie e gli sgabelli erano molto più numerosi. Alla sua destra
vi era un semplice bancone di legno, con dietro cinque botti, disposte in
orizzontale, tre sotto e due sopra, dalle quali fuoriuscivano un paio di spine,
mentre alla sua sinistra vi era la sala vera e propria con i clienti che
occupavano gran parte dei posti a sedere. Le persone sembravano un accozzaglia
colorata di contadini, viaggiatori e ubriaconi di passaggio. Alcuni, con le
facce segnate da profonde cicatrici, sembravano portare sulle spalle un passato
criminale, altri apparivano come uomini abituati a tutte le fatiche, alle
sofferenze e alle privazioni.
Entrò.
Alcuni sguardi si spostarono su di lui squadrandolo da capo a piedi, ci
fu un breve silenzio rotto dal brusio e poi, lentamente, ognuno riprese a
concentrarsi su ciò che stava svolgendo in precedenza. Avanzò d’alcuni passi
in corrispondenza del bancone e le stuoie, che ricoprivano il pavimento,
scricchiolarono sotto i suoi stivali.
In pochi istanti, fu raggiunto da un uomo dall’andatura dinoccolata che
gli allungò la mano in un gesto amichevole.
«Buonasera! Sono Acrof, il gestore del locale…»
Amorc rispose alla stretta di mano e lo guardò meglio: il suo abito
logoro era costituito da una camiciola color senape, legata sulla goletta con
lacci di cuoio scuro, dal collo scendeva un ciondolo a forma d’occhio gaudiano,
usato come amuleto contro i folletti terreni di Rhos; le brache erano verdi così
come le scarpe, sporche e consunte dai parecchi lavaggi e per finire, un
cinturone di pelle conciata cingeva l’addome evidenziando la vasta prominenza
del ventre.
«La stavo aspettando, la prego si accomodi e ordini pure ciò che
desidera…» gli indicò un tavolo con un posto libero e si asciugò la fronte
dal sudore.
Amorc non si volse a guardare dove Acrof avesse indicato ed ostentò un
sorriso di circostanza.
«No grazie! Sono molto stanco… per ora desidererei solo un posto dove
riposare, se è possibile…» rispose svogliatamente.
Il gestore sorrise ed un ammasso di denti gialli e storti fece capolino
tra le labbra carnose.
«Ma certo!» si avvicinò al suo interlocutore parlando sottovoce «Ascolti…una
persona che vi è amica è stata qui quattro giorni fa e mi ha chiesto
espressamente di aiutarvi, se ce ne fosse stato bisogno…ha pagato in anticipo
il vostro vitto e alloggio…» poi, battendosi il palmo della mano destra sulla
fronte continuò «…ah! Quasi dimenticavo…»abbassò ulteriormente la voce
«…ha lasciato un grosso borsone di cuoio per lei…desidera ritirarlo stasera
o domani?» indicò con il pollice dietro di se.
«Domani, se non le è di troppo disturbo.» spostò il peso del corpo
sulla parte non dolorante.
Acrof arcuò le folte sopracciglia.
«Ma quale disturbo! Domani provvederò io stesso a consegnarle la roba!»
lo prese per una spalla spostandolo di qualche metro «Ora le indico la stanza,
così potrà riposarsi.»
Amorc si passò pollice e indice sugli occhi e sospirò, si sentiva
veramente sfinito.
«La ringrazio...»
"Non so se lo avevi previsto (e preferisco
non saperlo!) ma sono stato ferito al fianco destro.
Un mutante che ho incontrato nei pressi di Merit mi ha aggredito. Ma ti
spiegherò tutto nel nostro prossimo incontro, in ogni caso rimani tranquillo,
il taglio non è profondo…
Ho fasciato la ferita cospargendola con una delle tue “pomate
miracolose”. Mi rendo conto che trovarsi qua, senza forze a porsi domande è
una situazione piuttosto ridicola. Sai, non so perché ma ora non mi
dispiacerebbe avere accanto quel pazzo di Rilcos a rallegrarmi un po’…"
Sorrise, ma ciò che uscì dalla gola fu piuttosto un suono amaro.
Chiuse le palpebre e ricordò quando giocava con Rilcos sul prato di
Selbia, nei pressi d’Ingmard. Quando fingevano d’essere valorosi cavalieri,
le loro corte spade di legno si incrociavano nell’aria dando l’abbrivio a
fantasiosi vortici d’avventure mentre nel vento echeggiava il loro motto…
"Sempre fianco a fianco,
nel bene e nel male,
mai patiremo dolore e paure…"
Un colpo di tosse lo fece sussultare risvegliandolo violentemente dai
suoi pensieri.
Si guardò attorno per la prima volta.
Il tugurio era semibuio, illuminato solo da due candele rette da
braccetti di ferro battuto che sbucavano dal muro come serpi da una tana, le
pareti, di solida pietra, si aprivano su un’unica inferriata che permetteva,
all’impietosa luna, di mostrarsi in quasi tutto il suo splendore.
Il miasma che permeava tutt’attorno era quasi insopportabile, si ricordò
di averlo già sentito, probabilmente addosso ad un Gloss, nelle terme d’Aircos
o sulla pelle dopo essersi spalmato uno degli unguenti d’Evasio, mago e suo
fidato amico.
Per una strana e masochistica concatenazione di pensieri si ritrovò a
ricordare le taglienti parole dello stregone riguardo a Rillegaze, la donna che
più amava al mondo.
“Amorc devi dimenticarti di quella fanciulla! E’ una prescelta di
Rhos!”
Un tremore febbrile attraversò il corpo del giovane. Amorc e Rillegaze
furono separati quando erano ancora poco più che fanciulli, Rillegaze era stata
prelevata improvvisamente da casa, in una notte di fine estate, da quattro
soldati del re che al tempo era Mordered Primo, soprannominato anche il Pazzo…degnamente
sostituito dal figlio, pensò. Comunque da allora Amorc non aveva più amato
nessun’altra donna. Sì, aveva avuto qualche fugace avventura, ma mai nulla di
veramente impegnativo. L’idea di creare un legame poco più che amichevole, lo
rendeva insofferente.
Si agitò cercando di trovare una posizione più comoda, ma ad ogni
inspirazione, la ferita gli lanciava una scossa di dolore che lo raggiungeva al
cervello e pensò a quanto potesse essere strano che un gesto così
“vitale”potesse portare tanta sofferenza.
"Ma ora, amico mio, devo cercare di
dormire, speriamo di rivederci presto.
Amorc"
Si avvicinò alla grata della finestra e accostò il fischietto di legno
donatogli da Evasio, sulle labbra. Il suono che ne scaturì era flebile ma
acuto, quasi fastidioso all’orecchio umano e si perse nella notte.
Libres, un nobile falco argenteo d’Iceglass, gli volò incontro. Amorc
lo carezzò e, sussurrando tenere parole, gli legò attorno alla zampa, con una
striscia strappata dal bordo della camicia, il messaggio per Evasio.
Si adagiò nuovamente sul pagliericcio e serrò nella mano il gioiello di
Heyless, lo smeraldo dei giusti.
Pronunciò mentalmente le tre benedizioni di Aramit:
La pace dell’anima
La volontà del giusto
La forza nel combattere
Si concentrò sull’energia segreta che emanava dalla gemma e cadde in
un sonno profondo e senza sogni.
Nel cuore della notte fu svegliato da uno strepito improvviso.
Rotolò di lato afferrando con agilità la spada abbandonata vicino al
bordo del pagliericcio.
«…una buona vecchia abitudine...» mormorò.
Per una frazione di secondo si dimenticò della fitta che lo aveva
tormentato tutta la notte e trattenne un gemito, quando il brusco movimento
ridestò il dolore.
Cercò di alzarsi, lentamente.
Si avvicinò alla porta, nell’attesa di qualche rumore sospetto.
Nulla.
Tutto sembrava essere tornato alla normalità.
Un’altra fitta.
Accostò la mano al fianco: pulsava
dolorosamente. La spartana fasciatura sembrava resistere ma la pomata
cicatrizzante d’Evasio non dava i risultati sperati. Alzò il gancio metallico
e aprì lentamente l’uscio. Nell’aria risuonò il breve cigolio dei cardini
e poi la sua figura, illuminata da una piccola torcia sulla parete, occhieggiò
nella stanza.
Tese le orecchie.
Nessun rumore, tranne quello del vento che, spirando impetuoso, sibilava,
tra le crepe della pietra, coprendo ogni altro possibile suono.
L’androne era deserto, non sapeva se inoltrarsi sarebbe stato saggio
nelle sue condizioni, ma aveva la certezza che fosse meglio affrontare un
ipotetico ladro da sveglio piuttosto che essere aggredito e derubato durante il
sonno.
Si spinse cautamente fuori.
Accostandosi al muro lasciò che lo sguardo si abituasse alla semi
oscurità che stagnava oltre il cerchio illuminato dalla fiaccola. Ammorbidì la
presa sull’elsa e proseguì verso la scala, alla sua destra.
Avanzò di qualche metro e intravide il profilo della balaustra. Si fermò,
guardandosi attorno.
…forse è stato un falso allarme…pensò …probabilmente
qualcuno ha fatto cadere un oggetto o magari un battente chiuso male…
Tutto poteva essere, ma l’istinto gli suggeriva che c’era qualcosa di
più. Possibile che la tensione lo portasse ad avere timore anche di un innocuo
tonfo?
La stanchezza lo stava sopraffacendo e, non avendo trovato niente di
particolarmente insolito, decise di ritornare verso la stanza.
Fece il percorso a ritroso indietreggiando con le spalle appoggiate alla
parete e la spada in guardia diritta davanti a sé.
Entrò.
Chiuse l’uscio, con il gancio, e si sedette sul giaciglio appoggiando
l’arma di nuovo accanto a sé.
Chiuse gli occhi rimanendo con i sensi all’erta. Il silenzio sembrava
aleggiare su ogni cosa, persino il vento aveva rallentato il suo ululare.
Finalmente l’agognato e rassicurante torpore della stanchezza si fece strada
in lui ed in un breve istante fu avvolto dalle spire del sonno. La mano sinistra
gli scivolò lungo il fianco e nel tragitto urtò qualcosa.
Un brivido lo scosse ma non era il solito tremore che anticipa
l’assopimento, era qualcos’altro, qualcosa che Amorc aveva dimenticato.
La visione.
L’immagine prende sopravvento.
Vede ma non è lui, è come se guardasse con gli occhi di un’altra
persona. Tutto è confuso. E' buio ed è fuori, sente il rumore dei propri passi
sull’acciottolato ma, poco per volta il rumore si spegne attutito dall’erba.
Non molto lontano, di fronte a sé, scorge una costruzione, gli sembra di
conoscerla, ma va troppo veloce per distinguerla. La fiancheggia lambendo il
muro. Ecco una porta, è chiusa ma vede delle mani scure, proprio sotto di lui,
che maneggiano con la serratura e, nel giro di pochi istanti, la porta è
spalancata. Subito dietro di essa, si apre una buia rampa di scale che sembra
perdersi, in alto, nel nulla, sale ed il respiro si fa affannoso. Oramai gli
occhi sono abituati all’oscurità, ed alla sua destra distingue chiaramente
una porta, questa volta aperta, entra, il pagliericcio…lo riconosce! E’ la
stanza dove lui sta dormendo! Una mano, che ora capisce essere inguantata,
rovista nel suo giaciglio, sembra cercare qualcosa ma poi scopre che
l’intenzione è di nascondere qualcosa…un rumore di passi…l’essere si
volta di scatto respirando sempre più penosamente. Inquadra la porta e corre in
quella direzione per poi… svanire.
Amorc si alzò con il respiro mozzato in gola. La faccia madida di sudore
e gli occhi sbarrati. La sua mano sinistra stava stringendo con forza qualcosa.
Che cosa diavolo gli era successo? Un incubo? Eppure tutto era così reale!
Si sedette sul letto passandosi le mani tra i capelli cercando di
riprendere il controllo del proprio cuore. Aprì la mano tremante accorgendosi
di avere nel palmo di essa, una piccola pergamena chiusa da un nastro rosso.
Slacciò, non senza difficoltà, il cordoncino e stese il foglio.
Per un attimo, colto dalla sorpresa, si dimenticò di respirare.
Il pezzo di carta era completamente bianco. Lo rigirò tra le mani
cercando di trovare qualche lettera un disegno, ma nulla. Accese una candela e
si avvicinò per cercare di vedere meglio, provò a passare la carta vicino la
fiamma per verificare se il contenuto fosse scritto con succo di limone, ma
ancora nulla.
Il foglio era intatto, pronto per essere scritto.
Pronto per essere scritto…pensò.
Regno
di Aloris. Oltre il Confine. Castello di Aloris.
Dalla panchina in pietra del suo giardino, l’unica seminascosta dagli arbusti, Marzio alzò il viso socchiudendo gli occhi osservando meglio il paesaggio che gli si parava davanti: le montagne della catena dei Monti Azzurri. Esse formavano un’unica e frastagliata linea di confine con la regione delle profonde acque.
Da
qualche minuto il cielo aveva assunto un pesante color grigio ed il sentiero,
che scendeva giù verso l’ampia valle, sembrava perdersi nel nulla nascosto da
una leggera bruma. Anche il vento aveva cominciato a farsi sentire e le foglie
cadute dell’autunno oramai inoltrato, si alzavano in piccoli mulinelli mentre
il gemere dei rami piegati contro il loro volere, rapiva un brivido di
reverenziale timore verso la potenza degli Elementi.
Marzio
poggiò l’indice sul libro e lo chiuse, l’autunno stava approssimandosi al
termine e la stagione delle grandi piogge sarebbe presto ricominciata. Riaprì
il libro e, combattendo con le pagine svolazzanti, piegò un’angolo superiore
della pagina per poi richiuderlo. Si alzò scostandosi i capelli dal viso mentre
il vento gli spiegazzava l’elegante tunica blu dai bordi dorati. Raccolse il
borsone abbandonato sulla panca, se lo mise a tracolla inserendovi,
delicatamente il libro, si aggiustò il colletto ed il cinturone, diede ancora
un ultimo sguardo al cielo e proseguì verso il mastio. Il vento continuava a
sferzare ora permeato da minuscole gocce di pioggia; spostò la borsa sul
davanti trattenendola ferma con le due mani e corse verso il portone sperando di
giungere prima di essere completamente fradicio.
La
porta, con le due pesanti ante di legno massiccio e borchiato, era aperta e,
subito dopo, una seconda porta, più piccola, di vetro e legno si aprì per
farlo entrare. Era il vecchio Leonardo, il capo della servitù, che lo attendeva
sfoderando il suo solito sguardo impassibile. Con il tempo Marzio aveva imparato
a conoscere quel suo modo di guardare, solitamente quando era arrabbiato o
interdetto per un qualsivoglia motivo, Leonardo alzava un sopracciglio. Un
tacito ammonimento che significava “sai già cosa ti vorrei dire ma non ti
posso dire perché sei il figlio del padrone”.
Marzio
entrò con disinvoltura pulendosi gli stivali sul tappeto di stuoie ed elargì
un mezzo sorriso al vecchio maggiordomo.
«Sì,
lo so…avrei dovuto tornare prima che iniziasse a piovere…» e così dicendo
si allontanò verso lo scalone di pietra ricoperto da un lungo ed elaborato
tappeto rosso.
«Il
pranzo sarà servito fra pochi minuti e vi consiglio di non fare tardi…» ebbe
il tempo di dire prima che Marzio sparisse al piano di sopra «…poiché vostro
padre non è dell’umore giusto per attendervi anche questa volta…» aggiunse
scrollando la testa.
Marzio
si chiuse la porta alle spalle e vi si appoggiò. Per terra lasciò qualche orma
d’acqua, si tolse la borsa buttandola sul letto incurante del fatto che fosse
umida, si slacciò il cinturone gettandolo per terra, e si sfilò gli stivali.
Sentì
i passi del maggiordomo avvicinarsi alla porta.
«Eccellenza
vostro padre vi attende!» era sempre Leo che lo avvisava perentoriamente.
«Arrivo!
Solo un minuto e scendo, dite pure a mio padre che sarò più veloce di un
furetto!» rise tra sé all’idea della faccia che avrebbe fatto il buon Leo a
questa sua affermazione, naturalmente sapeva che non avrebbe comunicato al padre
la deliziosa immagine del piccolo animale. Raccolse tutto ciò che aveva
abbandonato per terra e lo mise ammucchiato su una pesante sedia imbottita, aprì
il baule che cigolò, come di rito, sui cardini e rovistò cercando qualcosa di
abbinato e magari di decente da indossare, non aveva voglia di litigare con il
padre per il suo abbigliamento da popolano. S’infilò una camicia bianca
indossandovi una tunica di colore nero con piccoli finimenti in filo argentato,
si mise attorno al collo il pesante medaglione con il simbolo della sua casata,
il tuono, e s’infilò un paio di stivali asciutti leggermente più scuri degli
altri.
Raccolse
l’asciugamano, ordinatamente piegato vicino al catino strofinandosi
energicamente i capelli; si piegò davanti al piccolo specchio ovale e, con un
corto pezzo rettangolare d’avorio dentellato, cercò di pettinarsi i lunghi
capelli neri. Quanto li odiava, stonavano così maledettamente con il suo
pallore, per non parlare di quelle lunghe sopracciglia scure, ma che
gl’importava, tanto non doveva piacere a nessuno!
«E’
fatta, sono pronto!» disse tra sé, tentò di spostare il chiavistello della
porta per poi accorgersi di non averla nemmeno chiusa, diede un’altra occhiata
alle sue spalle e non potè fare a meno di notare il caos lasciato, ma anche
questo non gl’importava, quella era la sua stanza ed il disordine un suo segno
distintivo, scrollò le spalle e si diresse verso la sala da pranzo, al piano di
sotto, nell’ala ovest del castello.
Percorrendo
i corridoi che lo avrebbero condotto a destinazione ripensò a ciò che aveva
letto nel suo ultimo libro circa l’Astyog, ovvero il concetto delle otto tappe
evolutive che portavano al raggiungimento della comprensione universale. Si fermò
cercando di ricordarsi mentalmente qualche nome. Uno di sicuro era Maya, ovvero
le astensioni che indicano la condotta morale con se stessi ma soprattutto verso
gli altri; uno era Rina ovvero le osservanze, poi c’era Hara, il distacco da
ciò che è materiale, questo decisamente sarebbe stato il più difficile nelle
sue condizioni anche se, in un certo senso, tutto quello sfarzo non gli era mai
appartenuto anzi, se gli fosse stato possibile scegliere, sarebbe diventato un
eremita come il suo vecchio amico Claude che dimorava lassù sul Monte di Dio,
nel rifugio di preghiera costruito centinaia d’anni fa dal primo romita, Padre
Joannes. Suo padre aveva concesso quell’appezzamento di terreno solo per
volontà della madre ma non era mai riuscito a digerire quella scelta. Re
Annibale affermava che fossero settari, che con le loro preghiere, richiamassero
forze oscure. Dichiarava che spesso, durante la notte, si sentivano urla e
lamenti provenire da quei posti immersi nell’oscurità e che coloro che vi
andavano, non facevano più ritorno. Marzio sorrise, suo padre credeva ancora di
avere a che fare con un bambino al quale si raccontano le favole ma era
altrettanto sicuro che, se gli fosse stata concessa l’occasione, avrebbe
trovato dei testimoni a conferma delle sue affermazioni. Ma come biasimarlo,
dopotutto lui voleva fare di suo figlio un cavaliere forte e potente non
sicuramente uno scribacchino letterato e misogino…non che odiasse le donne
anzi amava la sua figura materna ed amava anche la sua cara sorella Amelia ma ciò
che più lo attraeva era la vita di meditazione, il dedicare tutta la propria
esistenza per un unico Credo.
«A
proposito di uomini veri…» borbottò tra sé «…il pugnale, l’ho
dimenticato nella stanza!» si lasciò uscire un lamento dandosi una leggera
pacca sulla fronte. Non aveva decisamente voglia di andare di nuovo di sopra e
recuperare (chissà dove lo aveva messo poi) il pugnale regalatogli proprio dal
venerabile padre quando compì la virile età di dodici anni.
«Speriamo
non se ne accorga.» e si avviò.
La
vasta sala dove si pranzava o cenava, secondo le occasioni, era addobbata in
modo diverso secondo l’uso della famiglia Aloris. A pranzo lunghi pannelli di
stoffa azzurra ricoprivano i muri di pietra e dell’incenso al profumo di
arancia veniva fatto bruciare come ringraziamento e benedizione per gli angeli
protettori della casa. A cena solitamente erano utilizzati pannelli verdi e
l’incenso odorava di spezie, quando giunse nella stanza, suo padre occupava il
solito posto centrale nella lunga tavola rettangolare, sopra la sua testa
regale, come sempre adornata di corona, pendeva fisso ed immobile il grande
arazzo con il simbolo di famiglia. I pannelli circostanti, dalle sfumature più
colorate, ondeggiavano mossi dai refoli che penetravano tra le intercapedini nei
muri.
Amelia
era al capezzale del padre con in mano il calice regale adornato di rubini,
Marzio sapeva cosa significava, probabilmente il grande ed indistruttibile re
Annibale aveva avuto un altro dei suoi attacchi di tosse violenta e la materna
sorella gli offriva la solita pozione preparata dal sapiente erborista di corte,
che poi tanto sapiente non era o per lo meno così pensava Marzio; si schiarì
la gola ed entrò cercando di nascondere il fodero del coltello inesistente;
prese posto alla destra di suo padre e sfoderò uno dei migliori sorrisi della
uggiosa giornata.
«Padre
mio, buongiorno…» fece un breve inchino con il capo «…e buongiorno anche
alla mia luminosa sorella Amelia.» si sporse in avanti per poterla salutare
meglio e lei gli sorrise, poi fece per sedersi ma il padre alzò la mano destra
con fare ammonitore mentre allontanava la figlia con la sinistra.
«Credi
che non mi sia accorto che anche oggi ti sei dimenticato il coltello e la spada?»
lo guardò arcigno ma bonario. La pesante pelliccia che indossava sembrava
essere un tutt’uno con i lunghi capelli e la barba bianca.
Tossì.
«Hai
già venti anni, quando pensi di diventare un uomo, Marzio?» scrollò la nuca,
sconsolato «Probabilmente tua sorella sarebbe più adatta di te a condurre il
Regno…» si mise una mano chiusa a pugno sulla bocca e tossì energicamente.
Sua sorella si avvicinò ancora a lui ma il re l’allontanò delicatamente.
«Sto
bene, sto bene…siediti Amelia e siediti anche tu Marzio.» Amelia aveva il
viso pallido e, dalle profonde occhiaie, si capiva che, anche quella notte, non
era riuscita a dormire bene.
«Ma
padre…» bisbigliò lei.
Lui
scrollò la mano come per sminuire la situazione «Ti preoccupi troppo, tuo
padre sta bene.» si volse verso Marzio «Come vanno le tue lezioni?».
Marzio
sapeva benissimo che non si riferiva alle lezioni di filosofia o di storia ma a
quelle di combattimento e fece boccuccia, con indifferenza, tentando di versarsi
un po’ d’acqua nel boccale di terracotta.
«Bene…come
sempre…» rispose quasi in un bisbiglio.
Il
re fece segno ai servitori di portare le pietanze.
«Cosa
ti ha insegnato sir Vittorio?» chiese il padre con un luccichio interessato
negli occhi.
Marzio
cercò mentalmente di ritornare al pomeriggio del giorno precedente.
Sir
Vittorio era il miglior maestro di spada di tutto il Regno di Aloris, aveva
trentacinque anni e, tutta la sua vita era stata dedicata allo studio delle armi
e delle tecniche di combattimento, in particolare dell’arma bianca per
eccezione.
La
spada, il pugnale, il bastone ed altri diabolici aggeggi per la lotta erano il
suo pane quotidiano e la sua filosofia di vita. Marzio apprezzava la seconda
parte dell’insegnamento, quello dedicato alla storia ed alla dottrina della
spada, al modo in cui essa veniva vista nel corso dei secoli, alle mille
metafore cui si ricorreva indicandola, alle storie di maghi e guerrieri dai
grandi poteri magici che le forgiavano ed ai simboli, romantici o meno ai quali
si associava.
«Bé…»
iniziò, intanto un paio di
servitori poggiarono sul tavolo un grosso tacchino contornato da verdure di ogni
tipo «…abbiamo fatto i soliti combattimenti ed in più abbiamo lavorato con
la palla chiodata…» il tacchino fu accuratamente tagliato e Marzio, dopo aver
servito il padre e la sorella, se ne prese una grossa porzione.
«Vuoi
dire il mazzafrusto!» lo corresse il re «Continua…» non sembrava essere
troppo interessato al cibo, quando si parlava d’armi non c’era verso di
distrarlo, e pensare che un tempo era stato un ottimo mangiatore. Anni fa alcuni
piatti erano cucinati dalla loro stessa madre, gesto piuttosto inusuale da parte
di una regina ma sua madre era molto innamorata dell’uomo che aveva sposato e,
il cucinare per lui, era un gesto che la faceva sentire bene, ma non era solo
quello, la regina Sara era una donna “alla buona”, una donna che non aveva
alcun problema a farsi dare del “tu” da domestici o popolani. Probabilmente
Marzio aveva preso il carattere di sua madre, forse suo padre aveva ragione,
Amelia era la più indicata per portare avanti il Regno.
«Non
ho null’altro da aggiungere padre, oramai ho preso pratica con quasi tutte le
armi conosciute, anche se ho ancora qualche difficoltà con arco e balestra…»
prese il pezzo di corno dentellato per aiutarsi a portare il cibo alla bocca e
cominciò a mangiare.
Suo
padre tossì di nuovo e fece un cenno d’assenso con il capo «Capisco…» ci
fu una breve pausa «Ieri ho parlato con sir Vittorio, per sapere come te la
cavavi con gli allenamenti…» staccò un brandello di carne con le dita e se
lo portò alla bocca. Marzio deglutì, sapeva di aver mentito al padre, non era
un bravo spadaccino e tanto meno aveva preso dimestichezza con le altre armi.
«Ha
detto che potresti fare di meglio, che sei distratto, che non lo ascolti, che
gli porti attenzione solo quando si mette a raccontarti di leggende o di
miti…dice che hai ottime potenzialità, più di qualunque altro ragazzo, non
perché sei mio figlio ma perché saresti un eccellente combattente se…»
scrollò la testa e sospirò.
Marzio
sapeva cosa voleva aggiungere “…se non ti comportassi come un monaco
eremita…”.
Avrebbe
davvero voluto che suo padre fosse fiero di lui ma non ci riusciva, quello che
gli chiedeva andava oltre i suoi desideri più intimi.
«Sei
alto e forte, figliolo. Perché non pensi di più al tuo futuro? Lo sai che
avresti già dovuto prendere moglie? Ma possibile che non senti nessuno stimolo!»
alzò la voce.
Marzio
arrossì, non gli piaceva iniziare quei discorsi con sua sorella presente.
«Padre
ti prego…» posò il cibo che stava per introdurre in bocca nuovamente nella
ciotola «…possiamo parlarne in privato? Ora vorrei mangiare
tranquillamente…piuttosto Amelia?» cercò di cambiare discorso.
«No!»
urlò il re battendo un pugno sul tavolo e rovesciando il boccale colmo di vino.
Sua sorella sobbalzò dallo spavento «Voglio parlarne ora! Non sopporto che tu
sia così insubordinato da dirmi cosa, come e quando parlarne! Io sono tuo padre
oltre che essere il re, ed io decido!» un possente colpo di tosse lo fece
arrossire ancora di più e piegare quasi in due dallo sforzo.
«Padre
non agitarti…» si avvicinò per aiutarlo.
«Stammi
lontano…» riuscì a dire lui tra un colpo di tosse e l’altro «…ho già
tua sorella come donna, non ne voglio avere un’altra al mio capezzale!» si
schiarì la gola.
Marzio
si sentì avvampare dalla rabbia, nonostante la sua malattia, avrebbe voluto
sferrargli un pugno in pieno volto, invece strinse i pugni fino a farsi
diventare le nocche bianche, guardò la sorella con la furia negli occhi e lei,
di tutta risposta, gli fece cenno con lo sguardo di allontanarsi.
Marzio
non si fece pregare ed uscì silenziosamente dalla stanza.
«Vattene
pure, nasconditi nella tua stanza o tra i tuoi stupidi volumi pieni di polvere,
combatterai tirando i libri in testa ai nemici?!» lo sentì ancora urlare
mentre percepiva le parole delicate della sorella che lo pregava di non
agitarsi.
La
sala delle udienze, nell’ala est del palazzo, era fredda e semibuia, se non
era strettamente necessario, i domestici non venivano a riscaldarla ma a Marzio
non dava alcun fastidio, lui era abituato a quella temperatura, oramai era
temprato dal clima di Aloris, freddo ed umido. Si sedette sotto una delle ampie
finestre, dove vi erano delle piccole panchette di pietra, allungò le gambe e
poggiò schiena e testa contro il muro. Non ce la faceva più e di giorno in
giorno peggiorava. Chiuse gli occhi lasciandosi cullare dal vento che fischiava
tra i vetri e lungo i muri, stava quasi per assopirsi quando sentì dei passi
che venivano verso di lui. Non si mosse, probabilmente era la sorella.
«Eccellenza….»
lo raggiunse una vocina delicata, la voce di Clara, una delle domestiche più
giovani, «Eccellenza?» lo chiamava. Il muretto lo nascondeva così bene che
non era riuscita a distinguerlo «Eccellenza so che siete qui. Leonardo mi ha
mandato ad annunciarvi che vostra sorella vi aspetta nella vostra stanza…»
sussurrò.
Marzio
sgusciò fuori con un piccolo salto rubando un gridolino alla fanciulla che si
portò subito una mano sulla bocca «Eccellenza non immaginavo fosse seduto la
dietro.» prese la gonna ed allargandola si prostrò in un inchino.
Marzio
si aggiustò il cinturone «Non è necessario che t’inchini quando non c’è
mio padre, lo sai che con me puoi evitarlo.» le sorrise. Lei lo guardò
trattenendo a sua volta un sorriso «Mi dispiace eccellenza ma non voglio
rischiare di essere frustata. Il signor Leopoldo non vuole che accondiscenda a
questa vostra richiesta, mi perdoni ma devo eseguire gli ordini.» si rialzò.
«Va
bene, Clara. Perdonami tu, non interferirò più con ciò che ti viene
richiesto. Vado a raggiungere mia sorella, a più tardi!» e si allontanò a
grandi passi verso lo scalone.
Clara
si sentì avvampare le guance. Il principe Marzio era un bel ragazzo, aveva un
portamento elegante ed era gentile, il suo viso era luminoso ed i suoi capelli
corvini contrastavano così nettamente con la carnagione, bianca come la neve.
Si sentiva così sciocca a pensare a lui, al futuro re di Aloris. Lei che era
così insulsa con quegli stopposi capelli rossi e ricci.
Sospirò
e si avvicinò alla panca dove, fino a pochi attimi prima, era seduto il suo bel
principe, si sedette cercando di percepirne il calore e, nonostante la pietra
fosse fredda, colse il suo profumo, il profumo di un uomo di potere, il profumo
di “lui”.
«Eccomi!»
Marzio si chiuse la porta alle spalle e diede due giri di chiavistello.
Sua
sorella era intenta a riordinare la confusione che aveva creato poco prima. Gli
ricordava sua madre, sempre pronta a tendergli una mano, sempre presente. Amelia
era identica a lei fisicamente, aveva i capelli biondo oro lunghi e dritti, la
pelle d’alabastro e gli occhi verde scuro. Era esile di corpo ma forte di
carattere, tenace ed intelligente. Era addirittura riuscita ad ottenere dal
padre il permesso per seguire le lezioni di spada di Sir Vittorio riuscendo
nientemeno, nell’utilizzo del coltello, ad essere più brava di Marzio, non
che ci volesse molto poi...
«C’è
sempre un tale caos in questa stanza che…» sospirò sedendosi sulla panca «…maestro
Ubezio dice che il disordine fisico corrisponde ad un disordine mentale, non
stento a crederlo vedendo te!» sorrise.
Maestro
Ubezio era il loro insegnante di psicologia, un tipo secco secco sempre vestito
di nero, con borse sotto gli occhi e lo sguardo penetrante. Aveva la brutta
abitudine di fare tante domande ma probabilmente era deformazione professionale.
«Se
tu sei qua Amelia significa che c’è qualcosa d’importante e non ho
difficoltà a comprendere cosa possa essere…» si buttò sul letto sdraiandosi
con le braccia incrociate sotto la nuca. Guardò la tenda sopra il suo letto a
baldacchino e sorrise notando il piccolo rigonfiamento che scendeva, persino là
sopra aveva nascosto dei libri.
Amelia
si alzò sedendosi sul bordo del letto, si sistemò le lunghe ed eleganti vesti
e cominciò.
«Non
è come tu pensi Marzio, questa volta è qualcosa di più che una semplice
punizione…» sembrò cercare le parole da dire al fratello senza che lui
reagisse con rabbia. Oramai lo conosceva bene e sapeva che l’orgoglio, che
caratterizzava tutta la famiglia Aloris, non aveva certo risparmiato lui.
Marzio
si appoggiò sui gomiti e fissò la sorella con viso cupo.
«Cosa
stai tentando di dirmi, Amelia?»
La
sorella intrecciò le dita cercando di non guardarlo negli occhi, sapeva quanto
potessero essere penetranti, lui comprendeva tutto ancora prima che gli fosse
detto, per lui ognuno era come un libro aperto.
«Papà
ha in mente qualcosa, l’ho sentito l’altra sera mentre parlava con il
sergente Brando…» si schiarì la voce e, guardando la porta, abbassò il tono
«…credo che voglia farti arruolare nell’esercito…» disse infine tutto
d’un fiato.
Marzio
si sedette di scatto.
«Cosa!?»
urlò, poi ad un cenno della sorella, tentò di abbassare la voce «Arruolarmi?
Sa benissimo che non ho nessuna intenzione di entrare a far parte
dell’esercito. Non voglio usare armi, non voglio combattere, non voglio
uccidere, e se per lui questo vuol dire non essere uomini, non me ne frega
nulla!» si sollevò di scatto dal letto rischiando di far cadere la sorella.
Raggiunse la finestra e guardò fuori, si sentiva ribollire di rabbia, un calore
fortissimo partì dal petto investendolo in volto. Diede un pugno sul muro
facendosi sanguinare la mano.
Amelia
le si avvicinò in tutta fretta «Ma cosa stai facendo? Sei pazzo? Ti sei fatto
male! Dammi qua!» gli prese la mano ma lui l’allontanò.
«Non
è nulla rispetto a quello che sento dentro!» camminò su e giù per la stanza
«Non riuscirà a convincermi…»
Amelia
lo osservava agitata ma con viso calmo e quasi materno nonostante la giovane età.
«Marzio
non credo che avrai scelta…mi dispiace, temo che abbia messo un vincolo al
quale non potrai rinunciare…non sono riuscita a sentire di più perché poi
hanno cambiato stanza, ma credo che papà questa volta abbia trovato il modo per
farti fare quel passo…» si portò le mani allo stomaco visibilmente
preoccupata.
Marzio
sospirò cercando di mantenere la calma, aveva passato anni della sua vita nello
studio del rilassamento, ore di meditazione per riuscire ad estraniarsi da quei
problemi che la quotidianità gli metteva di fronte ma tutto sembrava così
inutile ora.
Amelia
si avvicinò non appena lui si fermò al centro della stanza.
«Fammi
vedere questo taglio…» gli prese nuovamente la mano e lui, questa volta, non
protestò «…questo ti farà sentire meglio…» gli spalmò un unguento che
teneva chiuso in un piccolo ciondolo attaccato alla collana.
Marzio
si sedette sul letto affranto e sua sorella lo imitò.
«Cosa
devo fare Amelia? Cosa devo fare…» gettò la testa indietro lasciando che la
lunga coda toccasse il copriletto.
Amelia
gli fece un dolce sorriso carezzandogli la fronte.
«Nulla,
fai ciò che ti chiede. Sai quanto papà sia malato…io sono preoccupata per la
sua salute e per il suo cuore…è stato un buon guerriero ma ora…anche la più
piccola delle incomprensioni lo fa stare male…» si sdraiò sul letto «…mi
ha promessa sposa!» aggiunse poi tutto d’un fiato.
Marzio
sobbalzò di nuovo e la guardò fissa negli occhi sovrastandola.
«Ripeti!?»
Lei
fece un mezzo sorriso triste.
«Sì,
Marzio, fra una settimana mi verrà presentato il pretendente…» si alzò «…spero
solo che almeno non sia brutto!» appoggiò i gomiti sulle ginocchia incrociando
le dita sotto il mento.
«E
tu non ti sei minimamente ribellata a questa decisione?!» chiese acceso dalla
rabbia «Possibile che in questo posto tutti siano disponibili a mettersi
sull’attenti non appena lui alza un dito…è deprimente…» si calmò «…eppoi,
così all’improvviso? Come mai tutta questa fretta?» la guardò accigliato.
La
sorella spostò lo sguardo tra le ginocchia coperte dall’elegante abito «Marzio…»
prese a giocare con le proprie dita «…lo sai…da quando mamma è morta tu ti
sei rinchiuso in un mondo tutto tuo, sei distante e, certe volte, perdonami, sei
talmente preso dai tuoi pensieri da dimenticarti di tutto il resto…» si
schiarì la voce quasi a ricacciare dentro delle lacrime «…non ti sei accorto
di nulla…non ti sei reso conto che al castello ci sono meno persone? Da quanto
tempo del giardino si occupa Leonardo? Ed i cavalli? Hai visto mercanti in giro
negli ultimi mesi?» scrollò lentamente il capo «Molti contadini sono emigrati
verso i paesi più caldi ed in paese alcuni negozianti sono stati costretti a
chiudere bottega…Aloris sta perdendo potere Marzio…» lo guardò negli occhi
«…Il regno di Gioia, quello del mio futuro fidanzato, invece è prosperoso e
caldo, intorno alle mura si sono costituiti diversi nuclei di contadini ed
all’interno vi sono molti negozi ed il tenore di vita è più elevato…lo sai
bene quanto i nostri sudditi siano affezionati a noi e, credimi, la maggiorparte
rimane anche solo per quello…» appoggià una mano delicatamente sulla sua «…sai
anche quanto nostra madre fosse amata dal popolo ma tutto questo non basta
fratello mio…purtroppo l’amore non ci aiuterà a ricolmare i forzieri di
Aloris…».
Marzio
non riuscì a credere alle sue parole. Possibile che dalla morte di Sara si
fosse fatto passare davanti tutto questo senza accorgersi di nulla? Aloris, il
grande regno di Aloris…stava decadendo? E lui, il diretto erede di tutto
questo…”nulla” non aveva scorto nessuna avvisaglia? Ora riusciva a
comprendere alcune cose e filtrarle sotto una luce diversa e si sentiva uno
sciocco egoista. Prese la mano della sorella poggiandosela sul cuore «Vuoi dire
che il tuo matrimonio sarà solo a scopo economico? Questo non è giusto…» le
parole gli morirono tra le labbra. Amelia gli sorrise tristemente «Vedi…certe
volte sai dire solo questo “è giusto” o “non è giusto” Marzio lo sai
benissimo che per me non avrebbe fatto molta differenza, sono una donna e come
tale sarei comunque finita con uno sconosciuto quindi…anche se ad Aloris sono
portata sul palmo della mano e posso fare pressoché ciò che voglio questo non
vuol dire che cambi il mio stato sociale di persona considerata nettamente
inferiore…» sospirò «…ma ora basta parlare di questo, il concetto che
vorrei farti comprendere è che sotto certi aspetti nostro padre ha ragione
Marzio, dovresti cercare di mettere un pochino di più la testa a posto…» si
morse le labbra «…ho bisogno di te fratello mio, non riesco a pensare a tutto
quanto da sola…stammi vicino, ti prego…» lo guardò intensamente ed ancora
una volta Marzio si accorse di quanto fosse identica a sua madre, le stesse
espressioni quasi la stessa tonalità di voce, sentì il petto gonfiarsi di
tristezza all’idea di essere stato così stolto da pensare solo a se stesso,
ai suoi sciocchi problemi, di credere che tutto il mondo ce l’avesse con lui.
Deglutì ed abbracciò con trasporto la sorella «Perdonami Amelia, hai ragione
e, anche se mi costa dolore ammetterlo, probabilmente ha ragione anche nostro
padre…» la strinse più forte «Ti prometto che ci proverò…non conto di
riuscirci in così breve tempo ma…ci proverò!».
Locanda
del Varco.
La luce del sole filtrò attraverso l’inferriata,
lasciata libera dagli scuri, investendo Amorc in pieno volto. D’istinto si
portò il dorso della mano sugli occhi, emettendo un gemito.
Aveva dormito poco e male. Per tutta la notte era stato
assillato dal pensiero di ciò che gli era accaduto.
Portò il braccio sinistro sotto la nuca e fissò il
soffitto. Non vedeva l’ora di tornare al suo tranquillo lavoro d’erborista;
in questi ultimi giorni gli era successo di tutto e lui non era certo abituato a
quel genere d’avventure. Aveva raggiunto il Confine e credeva di non aver
destato troppi sospetti ma poi l’imprevedibile: un mutante aggredisce una
piccola contadina a pochi passi dal suo tragitto. Che fare? Non poteva certo
girarsi dall’altra parte e continuare, dal suo coraggioso intervento ottenne
una ferita, per fortuna superficiale, al fianco destro, il cavallo disperso,
fuggito chissà dove ed il mutante azzoppato, ma per nulla impedito dal darsela
a gambe verso un posto più sicuro. La bimba, se non altro, ne uscì indenne
anzi, dopo un timido ringraziamento elargito bisbigliando tra le labbra
tremanti, si diresse, con la stessa velocità di chi ha un demone alle caviglie,
nella direzione opposta a quella dell’aggressore, probabilmente verso casa.
Il loro piano, suo e di Evasio, meditato con tanta
dovizia di particolari, era andato in fumo. O forse no? Se il mutante avesse
sparso la voce…ma come poteva immaginare che lui si trovava lì proprio per il
Confine…eppoi la “visione”…questo concatenarsi di eventi lo aveva
profondamente sconvolto. Sospirò e decise di alzarsi, dopotutto non era ancora
in grado di darsi una spiegazione dell’accaduto, si ripromise che, una volta
giunto ad Ingmard, n’avrebbe discusso con Evasio, lui avrebbe chiarito tutto,
in un modo o nell’altro…
Prese fiato e si raddrizzò cercando di non fare
movimenti che avrebbero potuto ridestare il dolore. Si sedette sul bordo del
letto, sbadigliando. Appoggiò le mani al limite del pagliericcio e, facendosi
forza su di esse, s’issò in piedi. Assicurò l’arma alla grossa cintura e
controllò che la piccola pergamena fosse ancora nella tasca interna della
giacca di pelle.
C’era.
Si avvicinò alla finestra e guardò fuori socchiudendo
le palpebre davanti all’accecante luce del mattino. Il cielo era azzurro,
macchiato qua e là, da stracci nuvolosi, qualche astore solitario si librava in
cielo mentre un cervo incuriosito brucava l’erba ai bordi della fitta foresta
d’Arghentia. Non aveva idea di che ora fosse ma, a giudicare dall’altezza
del sole nel cielo, doveva essere all’incirca l’ora di pranzo. Possibile che
avesse dormito così tanto?
Si scostò e tese le braccia in avanti accorgendosi,
con gioia, che quello sforzo non gli causava troppo dolore.
Aprì la porta con l’intenzione di scendere al piano
inferiore.
Oltrepassata la soglia si guardò a sinistra e notò
una seconda scala. Ieri notte, nella confusione degli eventi, non si era accorto
di quel ulteriore passaggio ma si ricordò che, nella visione, era proprio da lì
che era passato il misterioso messaggero; sempre che la sua cosiddetta
“visione” fosse vera, naturalmente. Scacciò nuovamente il pensiero e,
chiudendo la porta dietro di sé, scese le scale.
Giunto al piano inferiore si accorse, con piacere, che
la cortina di fumo della sera precedente, non esisteva più; l’aria era più
respirabile anche se già si cominciava a fiutare un lieve olezzo di fritto e
bevande stantie. Gli stivali toccarono le stuoie del pavimento, facendolo
lievemente crepitare e si diressero verso un tavolino vuoto vicino ad un grosso
camino con braci ancora palpitanti di fuoco. Quella mattina gli avventori erano
pochi. Ne contò sei di cui due seduti ad un tavolino di fronte al suo, gli
altri quattro sparsi qua e là.
Amorc
notò che i due uomini seduti davanti a lui erano soldati del re. Avevano
abbandonato il tabarro scuro sulle due sedie laterali e la divisa, dai colori
così forti e funesti, non poteva certo passare inosservata. Il rosso ed il
nero, i colori del regno degli Arketon. Colori scelti per comodità oltre che
per bellezza. Il rosso si mascherava bene con le macchie di sangue e sul nero
certo non risaltavano. Sospirò. Quando si è giovani, si è convinti di poter
cambiare il mondo, si anela a creare una civiltà dove nessuna creatura, umana o
meno, possa mai morire per le mani di un altro individuo. Poi, crescendo, ti
rendi conto di avere poche possibilità, di non possedere mezzi appropriati con
cui lottare e, forse per paura o vigliaccheria, di non volerti sporcare le mani.
Il regno degli Arketon spadroneggiava in tutti i territori di Arketon. In tutti
e Sette gli Anelli per la precisione ma, forse un giorno, avrebbe trovato un
modo per superare il Confine e colonizzare le aree al là da esso. Si narrava di
regni che avevano bandito la magia e scacciato gli Arketon con tutti i suoi
seguaci. Erano anni
(o “zenith” come si chiamano in questo regno) che, i vari re della
casata si succedevano in questo ambizioso tentativo ma i morti, a migliaia, e le
truppe decimate, costrinsero a rimandare gli intenti. Il problema era proprio
quello: trovare una soluzione prima del nemico.
Scosse
la testa.
Un
tempo si era chiesto come fosse possibile che, uomini nati in una terra
sottomessa e devastata come Arketon, potessero decidere di arruolarsi
nell’esercito. La realtà era terrificante e surrealistica al tempo stesso,
questi individui decidevano di mettersi contro famiglia ed amici esclusivamente
per la fame dell’oro, l’incantesimo dell’Ixous, la droga che li rendeva
schiavi e la magia.
Lo stomaco emise un rumore sommesso e questo fu
sufficiente a ridestarlo dai suoi cupi pensieri. Non vide nessuno servire ai
tavoli, così decise di alzarsi per cercare il gestore o l’eventuale
cameriere. Proprio mentre sollevò le natiche dalla sedia, una ragazza sbucò da
una porticina laterale vicino al bancone. La giovane donna aveva tra le mani un
paio di ciotole e si avvicinò, di gran carriera, a due uomini che, finita la
prima porzione, probabilmente avevano chiesto il bis. I capelli della ragazza
erano raccolti all’interno di una cuffia chiara, ma alcuni boccoli scuri le
scendevano maliziosamente davanti alle orecchie, ed era proprio da sopra una di
esse che, una volta posate le tazze, raccolse una scheggia allungata e bianca.
Un gesso. Lo utilizzò il gesso su una piccola lastra d’ardesia per fare un
breve calcolo, poi lo mostrò al cliente, che con tutta probabilità non sapeva
nemmeno leggere, e pronunciò la cifra a voce alta. Il contadino slacciò il
portamonete e n’estrasse cinque Arketi di bronzo. La giovane raccolse le
monete dal tavolo facendo leva con il medio ed il pollice e se le infilò sotto
il grembiule candido e parzialmente sollevato sui fianchi.
Appena sollevò lo sguardo, Amorc le fece un cenno con
la mano e la ragazza si avvicinò, sorridendo.
«Eccomi, signore. Desidera?»
Da buon osservatore di donne Amorc non poté fare a
meno di notare la bellezza umile ma disinvolta della locandiera: il suo sorriso
era dolce e pulito come tutto il volto. La fanciulla aveva la carnagione
leggermente abbronzata e gli occhi scuri dello stesso colore dei capelli. Il suo
abito profumava di fresco ed era semplice: una camicia bianca stretta sotto il
seno e fino alla vita da un bustino di un verde tenue. La lunga gonna aveva lo
stesso colore del busto e sotto di essa spuntavano due buffi zoccoli con la
punta rivolta verso l’alto. Sembrava snella nonostante il bustino riuscisse a
trattenere a stento il seno abbondante.
Amorc si schiarì la voce mentre la fanciulla arrossì
vistosamente.
«Non so, portatemi quello che avete.» la guardò
sorridendo e sfoderando quello sguardo che, lui sapeva, destava un non so che di
particolare sul genere femminile «E’ da ieri sera che non mangio e ho un
certo appetito…».
La ragazza non riuscì a comprendere di che cosa stesse
parlando l’affascinante ragazzo che aveva di fronte. Diceva “appetito” ma,
da come la guardava, sembrava che fosse lei il piatto forte e, per un attimo, fu
tentata di dirgli che oggi la casa offriva un solo piatto: Lucinda in vassoio
d’argento.
Arrossì.
Si
sentiva veramente sciocca, era la prima volta che incontrava un uomo con un
fascino così avvolgente…non che lei n’avesse incontrato molti. Certo, alla
locanda entrava ed usciva gente d’ogni tipo ma lui aveva qualcosa di
particolare, qualcosa che lo rendeva diverso…ecco, era un po’ come l’uomo
che sognava spesso la notte…quello dal viso oscurato ma dal corpo forte e
vigoroso, l’uomo che la faceva fremere di piacere anche solo passandole un
dito sul collo, l’uomo…
«Ho detto qualcosa che non va?» Amorc assunse
un’espressione interrogativa rompendo l’imbarazzante silenzio che si era
venuto a creare.
Lucinda sussultò.
«Oh, bé no! Mi scusi, ero
soprappensiero…ehm…d’accordo le porterò…lo stufato d’asino, le può
andar bene?» rise cercando di ridarsi un contegno, ma ciò che uscì fu
piuttosto un suono stridulo che la fece sentire stupida. Senza aspettare una
risposta, si volse di scatto allontanandosi verso la porta dalla quale era in
uscita precedenza.
Amorc si appoggiò
allo schienale battendo ritmicamente le dita sul tavolo. Fece un mezzo sorriso
compiaciuto, era riuscito a confonderla e questo lo soddisfaceva, allora
dopotutto era ancora in forma. Non sapeva che aspetto avesse, erano più di due
giorni che non si lavava, l’ultima volta che si era fatto un bagno era stato
nelle acque gelide del fiume vicino alla Foresta del Passo. Finito di cibarsi
avrebbe domandato se ci fosse stata la possibilità di darsi una sciacquata
anzi, appena fosse giunta la giovane, lo avrebbe chiesto direttamente a lei.
Non attese molto. La cameriera aprì la porta uscendo
di schiena, in una mano aveva una brocca con un bicchiere e nell’altra la
ciotola con il cibo. Si avvicinò con una destrezza da vero giocoliere ed
appoggiò le vettovaglie sul tavolo.
«Ecco qui!» si sfilò il gessetto e prese la
lavagnetta scrivendo sopra delle cifre «Fanno due Arketi e mezzo!» disse
mostrandogli la piccola lastra «Si paga subito…» aggiunse, arrossendo.
Amorc la guardò serio «Mi dispiace gentile fanciulla
ma devo contraddirla!». Lei fece per parlare ma Amorc alzò una mano «No, non
mi fraintenda, i suoi calcoli sono corretti, è solo che mi è stato detto dal
locandiere, ieri sera, che il mio conto era già stato saldato.» la guardò
divertito.
La ragazza rimase a bocca aperta.
«Ma allora lei è il signore del borsone!» si diede
una leggera pacca sulla fronte «Mi scusi tanto, non sapevo. Non c’è
problema, mangi pure e, se ne ha bisogno ne chieda pure dell’altro. Spero che
sia di suo gradimento.» fece per allontanarsi ma Amorc la richiamò «Mi scusi,
le volevo chiedere un’informazione…» la giovane si avvicinò nuovamente «…anzitutto
sarei lieto di conoscere il suo nome e poi mi domandavo se esiste la possibilità
di farsi un bagno o, per lo meno, darsi una lavata.».
La ragazza arrossì nuovamente e prese a sistemarsi il
copricapo.
«Il mio nome è Lucinda, sono la nipote del locandiere
e per ciò che riguarda il lavarsi…sì, dietro la casa abbiamo un trogolo con
una piccola vasca, se vuole può utilizzare quello.» sorrise.
«Bene, ed ora se non ti dispiace, ci possiamo dare del
“tu”? Avremo pressappoco la stessa età…ed in caso contrario mi faresti
sentire troppo vecchio!» fece una pausa «Io sono Amorc...» la guardò di
nuovo, intensamente.
«Va bene, Amorc, buon appetito!» strofinò le mani
sulla gonna come per stirarla e si allontanò.
Amorc terminò il suo cibo e trattenne dentro di sé un
singulto d’apprezzamento, il vino era un po’ acido nonostante le spezie ma
la carne era buona. Le due grosse guardie reali si erano allontanate, lasciando
sul tavolo poche monete se rapportate a ciò che avevano mangiato. Quasi
certamente avevano diritto a degli sconti o con più probabilità, nessuno osava
contraddirli affermando che non erano abbastanza, e così ne approfittavano.
Proprio mentre stava formulando quel pensiero, nella
locanda entrò un uomo piuttosto robusto di un’età indefinibile, poteva avere
quaranta come cinquanta zenith. Amorc notò che doveva essere mancino poiché
portava una rozza spada sul fianco destro. La mano sinistra era come fasciata in
una sorta di bendatura di colore scuro, probabilmente sporca. I capelli, così
come la barba, erano lunghi ma, su nuca e tempie, sottili e radi dello stesso
colore rosso della lanugine intorno al viso.
Le stuoie scricchiolarono pesantemente al suo passaggio
e alcuni dei pochi uomini che erano rimasti, si voltarono a guardarlo. L’omone
si guardò attorno, prese una sedia con una mano grossa almeno una volta e mezza
quella di Amorc ed, emettendo un grugnito sommesso, si sedette. Non vedendo
giungere nessuno, picchiò più volte il pugno sul tavolo ed emise altri suoni
più simili al ringhio di un cane che al bofonchiare di un uomo. Da lì a pochi
istanti Lucinda entrò accogliendo il nuovo arrivato con un sorriso che spiazzò
letteralmente Amorc.
«Ciao Bronto!» gli diede una pacca sulla spalla «Hai
fame, eh?» gli stampò un bacio sulla fronte «Vado subito a prenderti
qualcosa!» si allontanò.
Amorc era allibito, l’omone aveva risposto alla
ragazza con un sorriso sdentato ed era addirittura arrossito dopo il bacio.
Questo era uno dei più invidiabili poteri femminili, riuscire a rendere ogni
uomo, anche il più forsennato, un timido passerotto.
Amorc si rese conto di essersi eccessivamente attardato
al tavolo e si alzò, anche se a malincuore; il prossimo paio d’ore le avrebbe
dedicate ad una rinfrescata ed alla ricerca di un cavallo, giacché il suo era
scomparso. Da quando aveva perso l’animale, aveva coperto il percorso fino
alla locanda a piedi o facendo da scorta a qualche contadino di passaggio, ma
non era più consigliabile proseguire con quel criterio e soprattutto nelle sue
attuali condizioni fisiche.
Lucinda entrò con il cibo per il suo singolare amico.
Si sedette al tavolo con lui rivolgendogli le solite frasi di circostanza, come
quelle che normalmente s’indirizzano ad una persona alla quale sei affezionato
ma che non vedi da qualche tempo, tipo “come stai?”, “tutto bene?”,
“vedo che sei dimagrito!”, “ma no, non è vero ti trovo in piena
forma!”.
Amorc si avvicinò al bancone e passò proprio dietro
alla schiena di Lucinda, cercò di non disturbare, non conosceva il carattere
dell’omone e non aveva intenzione di farlo arrabbiare. Appoggiò i gomiti al
ripiano di legno e attese che i due terminassero il loro interessante colloquio.
La discussione sembrava andare per le lunghe ed Amorc
aveva una gran fretta di recuperare il proprio bagaglio e partirsene alla volta
d’Ingmard. Davanti a sé c’era ancora qualche giorno di viaggio e l’idea
d’incontrare altri problemi lungo la strada di ritorno, lo rendevano nervoso.
Non fece in tempo a muoversi che fu raggiunto dall’eco di una tonante voce
maschile che proveniva da fuori. Lucinda ed il suo amico Bronto trasecolarono,
l’unica differenza era che il cavernicolo appariva furioso mentre la giovane
spaventata.
La voce si fece sempre più vicina tanto che Amorc
riuscì ad estrapolarne alcune parole, come “ti ucciderò” e “bastardo
scimmione faccio a fette a te e a tutti quelli come te!”. Non ci voleva un
genio per capire che l’uomo fuori stava parlando del buon caro Bronto.
«Ci risiamo…» mormorò Amorc tra sé «…lo sapevo
che dovevo andarmene.» avvicinò la mano al coltello che teneva sempre
allacciato alla cintura e slacciò la sicura di cuoio, doveva tenersi pronto non
si poteva mai dire come degenerassero discussioni di quel genere.
Finalmente l’attesa fu spezzata dal violento sbattere
della porta, seguito dall’entrata in sala di un giovane signorotto, a
giudicare dall’abbigliamento, piuttosto ben piazzato. Nella mano destra aveva
un’ascia mentre nella mano sinistra le dita erano serrate a pugno.
Il giovane uomo era molto alto e robusto, aveva i
capelli rasati ed un pizzetto nero come le sopracciglia. Anche l’abito di
pelle era nero e la sua ascia brillava come argento. Amorc notò che sulla lama
aveva una sorta d’incisione a ghirigoro, forse il simbolo della sua casata.
Il bestione si guardò attorno dilatando furiosamente
le narici come un toro che si prepara a caricare.
«Dov’è quel puzzolente bastardo!» urlò.
Nessuno si mosse, tutti si paralizzarono sul posto, un
anziano contadino vomitò per terra mentre un altro, più giovane, si nascose
sotto il tavolo. Lucinda rimase a bocca aperta e si alzò lentamente cercando di
mantenere il controllo della situazione oltre che della propria voce «Mi…mi
scusi signore, questa è una locanda rispettabile e non credo che possa trovare
fra noi la persona che cerca…» deglutì.
L’uomo si avvicinò e il suo sguardo cadde su Bronto,
che se ne stava beatamente seduto a mangiare la sua porzione di stufato
d’asino dandogli le spalle.
«Credo che ti sbagli sgualdrinella, quello che cerco
è proprio accanto a te! Eccolo qui il maledetto topo di fogna. Alzati in piedi
e affrontami, brutto bastardo, hai paura, eh?» la sua voce ora era in falsetto
«Ti tremano le gonne, donnicciola?» guardò Lucinda nello stesso modo in cui
si guarda una bistecca dopo settimane di digiuno «Ti nascondi dietro questa
sguattera? Eh? Lo so che ti piace questa stupida giumenta e…se ti dicessi che
quasi quasi la cavalco proprio davanti ai tuoi occhi?».
Quella fu la frase che fece nascere l’interesse in
Bronto. Lasciò lo stufato e, grugnendo, spinse lontano la ciotola. Si alzò in
tutta la sua altezza sovrastando di qualche centimetro il giovane pelato.
«Lascia perdere Lucinda, Zagor, o ti faccio a pezzi
come lo stufato che stavo mangiando…» la sua voce era baritonale e
tranquilla. Amorc si stupì del fatto che potesse possederne una visto che, gli
ultimi suoni giunti al suo orecchio, non erano altro che mugolii e grugniti
sommessi.
Zagor rise fortemente mostrando una fila di denti
perfetti.
«Credi che abbia paura di te, sterco di maiale?»
sollevò l’ascia «Lo vuoi un taglio di capelli più corto? Lo sai quanto
vadano di moda oggi come oggi!».
Lucinda si avvicinò ad Amorc, aveva il viso
terrorizzato ed il labbro inferiore che le tremava «Ti prego Amorc fai
qualcosa, Bronto è grande e grosso ma è così lento…aiutalo, ti prego!».
Amorc la guardò come per chiederle tacitamente se
stesse parlando sul serio «Ma vorrai scherzare, hai visto che razza di bestie
sono? Quelli mi faranno a pezzi in un battito di ciglia!».
Lucinda lo guardò con lo sguardo colmo di lacrime «Bronto
è come un fratello per me, mi è sempre stato accanto, mi ha aiutato quando i
miei genitori sono morti…ti prego lui fa parte della mia famiglia…ti prego,
chiedimi tutto quello che vuoi. Hai bisogno di denaro? Ti darò tutto quello che
possiedo, dimmi qual è il tuo prezzo, ma MUOVITI!» le ultime parole le
uscirono come un urlo.
Amorc la guardò serio e scrollò la testa «Lo sapevo,
se riesco a sopravvivere a questa settimana, passerà del tempo prima che mi
rimetta ancora in viaggio!» dopo aver detto ciò si staccò dal bancone
avvicinandosi a Zagor che era voltato di spalle.
«Scusate se interrompo la vostra amichevole
chiacchierata ma suggerirei di continuare l’alterco fuori, qui c’è gente
dallo stomaco debole e dalle orecchie delicate.».
Zagor, si volse lentamente a guardare in faccia la
persona che aveva osato intromettersi fra lui ed il suo avversario.
«Fatti gli affari tuoi formica se non vuoi che
schiacci quel tuo brutto muso pizzolato!» le sopracciglia scure s’incurvarono
sopra il naso aquilino.
Amorc raddrizzò la schiena «Ehi dico, ma non ti sei
mai visto allo specchio? Hai forse paura del riverbero sulla tua testa?» storse
le labbra con derisione.
Zagor grugnì emettendo un energico soffio dalle
narici.
«Stai giocando con il fuoco ragazzo e credo che presto
ti brucerai!» detto questo si lanciò in direzione del suo interlocutore, ma
appena fu a pochi passi da lui, Amorc si spostò e l’omone sbatté con
l’ascia contro il bancone, incastrandola.
«Ti credi furbo lucertola dei miei stivali?» sbottò
il pelato «Posso lavorarti anche a mani nude, non ho certo bisogno di uno
strumento!» abbandonò l’arma e, sorridendo, si crocchiò le dita «Fatti
sotto, piccioncino!».
Amorc assunse la posizione di difesa e attese una mossa
d’attacco. Zagor gli allungò un pugno ma Amorc si fletté sulle ginocchia,
schivandolo. Il pelato grugnì e, urlando, si buttò letteralmente su di lui,
cadendogli addosso. Per un attimo Amorc rimase senza fiato, l’uomo, nel
frattempo, lo afferrò con ambedue le mani per la gola e cominciò a stringere
con forza «Non canti più, usignolo?» lo schernì l’aggressore. Lo sguardo
di Amorc cominciò a sfuocarsi, stava perdendo conoscenza, doveva agire al più
presto. Cercò di sferrargli una ginocchiata nel basso ventre ma era spostato
troppo in alto per riuscire a colpirlo, allora prese con forza i polsi del
pelato cercando di allentare almeno un poco la presa, ma nulla. Ad un tratto
sentì una voce femminile fuori campo urlare, subito dopo vide schegge di legno
che gli sprizzarono tutt’attorno a cascata. Lucinda aveva spaccato una sedia
sulla schiena dell’uomo non sortendo alcun risultato; Amorc si ricordò di
aver slacciato il coltello, non avrebbe voluto ucciderlo ma a questo punto non
aveva altra difesa. Le sue forze stavano languendo, doveva agire ora o mai più,
allungò la mano lungo il fianco destro e tastò il cinturone subito si accorse,
con un tuffo al cuore, che il coltello si era sfilato. Cercò, con notevole
sforzo, di guardarsi attorno e lo vide proprio alla sua destra ma poco più
distante, tentò di raggiungerlo con le dita ma era troppo lontano. Doveva
spostarsi ancora un poco. Fece forza sugli addominali e si sollevò quel tanto
che bastava per far perdere l’equilibrio a Zagor. L’omone ondeggiò, cadendo
lateralmente sulla sinistra. Amorc rotolò su se stesso, verso destra e raccolse
l’arma, appena fu in piedi si passò una mano sulla gola, il bruciore era
fortissimo ma la sensazione di nausea ancor di più. La testa gli girava e la
figura del pelato era sdoppiata. Allargò le gambe per non sbilanciarsi e attese
una contromossa. Zagor prese fiato e si lanciò nuovamente contro il suo
avversario, fu una frazione di secondo, Amorc gli corse incontro e, con il
coltello tenuto di taglio, lo scostò sulla destra sferrando il colpo in
profondità su parte dell’addome e del fianco sinistro dell’aggressore. A
giudicare dall’urlo che scaturì dalla bocca del pelato, doveva avergli fatto
parecchio male. Lucinda si nascose la bocca tra le mani trattenendo un urlo
mentre Bronto guardò la scena con aria divertita. Amorc si girò, Zagor era
inginocchiato con le mani premute sull’anca, le stuoie erano zuppe di sangue.
Amorc teneva ancora il coltello, gocciolante di liquido rosso, stretto fra le
falangi, respirava a fatica e rantolando, guardò Lucinda con aria supplice.
Quel breve silenzio fu infranto da un tonfo sordo, il pelato si accasciò su di
un fianco, svenuto o privo di vita. Amorc ripose lentamente il coltello nella
sua custodia avviandosi velocemente al capezzale di Zagor.
Grace