Racconti Fantasy

Brokenland
 

   

Fine autunno. Regno di Arketon. Locanda del Varco.

           

          "Amico mio, ho ricevuto il tuo messaggio lungo la strada. Ho temuto che ti fosse successo qualcosa, di solito non mandi Libres senza un motivo più che valido.          

          Visto che mi chiedevi ragguagli sulla  situazione ti accontento.          

          Dopo un giorno e mezzo di cammino sono arrivato, stremato, presso la taverna da te indicatami…la locanda del Varco…"        

                   

          La locanda era lungo la strada principale che, dal varco anellare d’Adachi, attraversava l’Anello per Ingmard nel regno di Mordered Secondo.          

          Amorc vi giunse nella notte.          

          Una notte senza stelle.         

                   

          "E’ buffo, sono nato e cresciuto nel Primo Anello del regno, e non mi sono mai accorto di questa locanda. Quello che più mi ha colpito sono stati i muri, costruiti con pietre di Ghios.          

          Strano.          

          Ti assicuro che esitai qualche istante prima d’entrare, ma ero così stanco che, alla fine, mio malgrado, ho varcato la soglia e, fu proprio in quel momento che  appresi del tuo arrivo…"         

                   

          Amorc si fermò sulla soglia facendo scorrere lo sguardo da una parte all’altra dello stanzone. Il locale, non molto ampio, era impregnato dagli odori del vino speziato e della carne fritta. L’illuminazione appariva buona anche se, la spessa coltre di fumo dovuta alle torce ed alle pipe, faceva lacrimare gli occhi ed annebbiare la vista.         

          Amorc calcolò che potessero esserci sei o sette tavoli squadrati e due panconi, ma le sedie e gli sgabelli erano molto più numerosi. Alla sua destra vi era un semplice bancone di legno, con dietro cinque botti, disposte in orizzontale, tre sotto e due sopra, dalle quali fuoriuscivano un paio di spine, mentre alla sua sinistra vi era la sala vera e propria con i clienti che occupavano gran parte dei posti a sedere. Le persone sembravano un accozzaglia colorata di contadini, viaggiatori e ubriaconi di passaggio. Alcuni, con le facce segnate da profonde cicatrici, sembravano portare sulle spalle un passato criminale, altri apparivano come uomini abituati a tutte le fatiche, alle sofferenze e alle privazioni.          

          Entrò.         

          Alcuni sguardi si spostarono su di lui squadrandolo da capo a piedi, ci fu un breve silenzio rotto dal brusio e poi, lentamente, ognuno riprese a concentrarsi su ciò che stava svolgendo in precedenza. Avanzò d’alcuni passi in corrispondenza del bancone e le stuoie, che ricoprivano il pavimento, scricchiolarono sotto i suoi stivali.          

          In pochi istanti, fu raggiunto da un uomo dall’andatura dinoccolata che gli allungò la mano in un gesto amichevole.         

          «Buonasera! Sono Acrof, il gestore del locale…»         

          Amorc rispose alla stretta di mano e lo guardò meglio: il suo abito logoro era costituito da una camiciola color senape, legata sulla goletta con lacci di cuoio scuro, dal collo scendeva un ciondolo a forma d’occhio gaudiano, usato come amuleto contro i folletti terreni di Rhos; le brache erano verdi così come le scarpe, sporche e consunte dai parecchi lavaggi e per finire, un cinturone di pelle conciata cingeva l’addome evidenziando la vasta prominenza del ventre.         

          «La stavo aspettando, la prego si accomodi e ordini pure ciò che desidera…» gli indicò un tavolo con un posto libero e si asciugò la fronte dal sudore.         

          Amorc non si volse a guardare dove Acrof avesse indicato ed ostentò un sorriso di circostanza.         

          «No grazie! Sono molto stanco… per ora desidererei solo un posto dove riposare, se è possibile…» rispose svogliatamente.         

          Il gestore sorrise ed un ammasso di denti gialli e storti fece capolino tra le labbra carnose.         

          «Ma certo!» si avvicinò al suo interlocutore parlando sottovoce «Ascolti…una persona che vi è amica è stata qui quattro giorni fa e mi ha chiesto espressamente di aiutarvi, se ce ne fosse stato bisogno…ha pagato in anticipo il vostro vitto e alloggio…» poi, battendosi il palmo della mano destra sulla fronte continuò «…ah! Quasi dimenticavo…»abbassò ulteriormente la voce «…ha lasciato un grosso borsone di cuoio per lei…desidera ritirarlo stasera o domani?» indicò con il pollice dietro di se.         

          «Domani, se non le è di troppo disturbo.» spostò il peso del corpo sulla parte non dolorante.         

          Acrof arcuò le folte sopracciglia.         

          «Ma quale disturbo! Domani provvederò io stesso a consegnarle la roba!» lo prese per una spalla spostandolo di qualche metro «Ora le indico la stanza, così potrà riposarsi.»         

          Amorc si passò pollice e indice sugli occhi e sospirò, si sentiva veramente sfinito.         

          «La ringrazio...»         

                   

           "Non so se lo avevi previsto (e preferisco non saperlo!) ma sono stato ferito al fianco destro.         

          Un mutante che ho incontrato nei pressi di Merit mi ha aggredito. Ma ti spiegherò tutto nel nostro prossimo incontro, in ogni caso rimani tranquillo, il taglio non è profondo…          

          Ho fasciato la ferita cospargendola con una delle tue “pomate miracolose”. Mi rendo conto che trovarsi qua, senza forze a porsi domande è una situazione piuttosto ridicola. Sai, non so perché ma ora non mi dispiacerebbe avere accanto quel pazzo di Rilcos a rallegrarmi un po’…"         

                   

          Sorrise, ma ciò che uscì dalla gola fu piuttosto un suono amaro.          

          Chiuse le palpebre e ricordò quando giocava con Rilcos sul prato di Selbia, nei pressi d’Ingmard. Quando fingevano d’essere valorosi cavalieri, le loro corte spade di legno si incrociavano nell’aria dando l’abbrivio a fantasiosi vortici d’avventure mentre nel vento echeggiava il loro motto…          

                   

          "Sempre fianco a fianco,         

          nel bene e nel male,         

          mai patiremo dolore e paure…"         

                   

          Un colpo di tosse lo fece sussultare risvegliandolo violentemente dai suoi pensieri.         

          Si guardò attorno per la prima volta.         

          Il tugurio era semibuio, illuminato solo da due candele rette da braccetti di ferro battuto che sbucavano dal muro come serpi da una tana, le pareti, di solida pietra, si aprivano su un’unica inferriata che permetteva, all’impietosa luna, di mostrarsi in quasi tutto il suo splendore.          

          Il miasma che permeava tutt’attorno era quasi insopportabile, si ricordò di averlo già sentito, probabilmente addosso ad un Gloss, nelle terme d’Aircos o sulla pelle dopo essersi spalmato uno degli unguenti d’Evasio, mago e suo fidato amico.         

          Per una strana e masochistica concatenazione di pensieri si ritrovò a ricordare le taglienti parole dello stregone riguardo a Rillegaze, la donna che più amava al mondo.         

          “Amorc devi dimenticarti di quella fanciulla! E’ una prescelta di Rhos!”         

          Un tremore febbrile attraversò il corpo del giovane. Amorc e Rillegaze furono separati quando erano ancora poco più che fanciulli, Rillegaze era stata prelevata improvvisamente da casa, in una notte di fine estate, da quattro soldati del re che al tempo era Mordered Primo, soprannominato anche il Pazzodegnamente sostituito dal figlio, pensò. Comunque da allora Amorc non aveva più amato nessun’altra donna. Sì, aveva avuto qualche fugace avventura, ma mai nulla di veramente impegnativo. L’idea di creare un legame poco più che amichevole, lo rendeva insofferente.         

          Si agitò cercando di trovare una posizione più comoda, ma ad ogni inspirazione, la ferita gli lanciava una scossa di dolore che lo raggiungeva al cervello e pensò a quanto potesse essere strano che un gesto così “vitale”potesse portare tanta sofferenza.         

                         

          "Ma ora, amico mio, devo cercare di dormire, speriamo di rivederci presto.    Amorc"   

                                                                            

          Si avvicinò alla grata della finestra e accostò il fischietto di legno donatogli da Evasio, sulle labbra. Il suono che ne scaturì era flebile ma acuto, quasi fastidioso all’orecchio umano e si perse nella notte.         

          Libres, un nobile falco argenteo d’Iceglass, gli volò incontro. Amorc lo carezzò e, sussurrando tenere parole, gli legò attorno alla zampa, con una striscia strappata dal bordo della camicia, il messaggio per Evasio.         

          Si adagiò nuovamente sul pagliericcio e serrò nella mano il gioiello di Heyless, lo smeraldo dei giusti.          

          Pronunciò mentalmente le tre benedizioni di Aramit:         

                   

          La pace dell’anima         

          La volontà del giusto         

          La forza nel combattere         

                   

          Si concentrò sull’energia segreta che emanava dalla gemma e cadde in un sonno profondo e senza sogni.                                  

                   

          Nel cuore della notte fu svegliato da uno strepito improvviso.          

          Rotolò di lato afferrando con agilità la spada abbandonata vicino al bordo del pagliericcio.         

           «…una buona vecchia abitudine...» mormorò.          

          Per una frazione di secondo si dimenticò della fitta che lo aveva tormentato tutta la notte e trattenne un gemito, quando il brusco movimento ridestò il dolore.           

          Cercò di alzarsi, lentamente.          

          Si avvicinò alla porta, nell’attesa di qualche rumore sospetto.          

          Nulla.          

          Tutto sembrava essere tornato alla normalità.          

          Un’altra fitta.          

          Accostò la mano al fianco: pulsava dolorosamente. La spartana fasciatura sembrava resistere ma la pomata cicatrizzante d’Evasio non dava i risultati sperati. Alzò il gancio metallico e aprì lentamente l’uscio. Nell’aria risuonò il breve cigolio dei cardini e poi la sua figura, illuminata da una piccola torcia sulla parete, occhieggiò nella stanza.          

          Tese le orecchie.         

          Nessun rumore, tranne quello del vento che, spirando impetuoso, sibilava, tra le crepe della pietra, coprendo ogni altro possibile suono.          

          L’androne era deserto, non sapeva se inoltrarsi sarebbe stato saggio nelle sue condizioni, ma aveva la certezza che fosse meglio affrontare un ipotetico ladro da sveglio piuttosto che essere aggredito e derubato durante il sonno.         

          Si spinse cautamente fuori.          

          Accostandosi al muro lasciò che lo sguardo si abituasse alla semi oscurità che stagnava oltre il cerchio illuminato dalla fiaccola. Ammorbidì la presa sull’elsa e proseguì verso la scala, alla sua destra.         

          Avanzò di qualche metro e intravide il profilo della balaustra. Si fermò, guardandosi attorno.         

          forse è stato un falso allarme…pensò …probabilmente qualcuno ha fatto cadere un oggetto o magari un battente chiuso male         

          Tutto poteva essere, ma l’istinto gli suggeriva che c’era qualcosa di più. Possibile che la tensione lo portasse ad avere timore anche di un innocuo tonfo?           

          La stanchezza lo stava sopraffacendo e, non avendo trovato niente di particolarmente insolito, decise di ritornare verso la stanza.         

          Fece il percorso a ritroso indietreggiando con le spalle appoggiate alla parete e la spada in guardia diritta davanti a sé.          

          Entrò.          

          Chiuse l’uscio, con il gancio, e si sedette sul giaciglio appoggiando l’arma di nuovo accanto a sé.         

          Chiuse gli occhi rimanendo con i sensi all’erta. Il silenzio sembrava aleggiare su ogni cosa, persino il vento aveva rallentato il suo ululare. Finalmente l’agognato e rassicurante torpore della stanchezza si fece strada in lui ed in un breve istante fu avvolto dalle spire del sonno. La mano sinistra gli scivolò lungo il fianco e nel tragitto urtò qualcosa.         

          Un brivido lo scosse ma non era il solito tremore che anticipa l’assopimento, era qualcos’altro, qualcosa che Amorc aveva dimenticato.          

          La visione.          

          L’immagine prende sopravvento.         

          Vede ma non è lui, è come se guardasse con gli occhi di un’altra persona. Tutto è confuso. E' buio ed è fuori, sente il rumore dei propri passi sull’acciottolato ma, poco per volta il rumore si spegne attutito dall’erba. Non molto lontano, di fronte a sé, scorge una costruzione, gli sembra di conoscerla, ma va troppo veloce per distinguerla. La fiancheggia lambendo il muro. Ecco una porta, è chiusa ma vede delle mani scure, proprio sotto di lui, che maneggiano con la serratura e, nel giro di pochi istanti, la porta è spalancata. Subito dietro di essa, si apre una buia rampa di scale che sembra perdersi, in alto, nel nulla, sale ed il respiro si fa affannoso. Oramai gli occhi sono abituati all’oscurità, ed alla sua destra distingue chiaramente una porta, questa volta aperta, entra, il pagliericcio…lo riconosce! E’ la stanza dove lui sta dormendo! Una mano, che ora capisce essere inguantata, rovista nel suo giaciglio, sembra cercare qualcosa ma poi scopre che l’intenzione è di nascondere qualcosa…un rumore di passi…l’essere si volta di scatto respirando sempre più penosamente. Inquadra la porta e corre in quella direzione per poi… svanire.          

          Amorc si alzò con il respiro mozzato in gola. La faccia madida di sudore e gli occhi sbarrati. La sua mano sinistra stava stringendo con forza qualcosa. Che cosa diavolo gli era successo? Un incubo? Eppure tutto era così reale!          

          Si sedette sul letto passandosi le mani tra i capelli cercando di riprendere il controllo del proprio cuore. Aprì la mano tremante accorgendosi di avere nel palmo di essa, una piccola pergamena chiusa da un nastro rosso.         

          Slacciò, non senza difficoltà, il cordoncino e stese il foglio.         

          Per un attimo, colto dalla sorpresa, si dimenticò di respirare.         

          Il pezzo di carta era completamente bianco. Lo rigirò tra le mani cercando di trovare qualche lettera un disegno, ma nulla. Accese una candela e si avvicinò per cercare di vedere meglio, provò a passare la carta vicino la fiamma per verificare se il contenuto fosse scritto con succo di limone, ma ancora nulla.         

          Il foglio era intatto, pronto per essere scritto.         

          Pronto per essere scritto…pensò.

 

 

Regno di Aloris. Oltre il Confine. Castello di Aloris.

 

Dalla panchina in pietra del suo giardino, l’unica seminascosta dagli arbusti, Marzio alzò il viso socchiudendo gli occhi osservando meglio il paesaggio che gli si parava davanti: le montagne della catena dei Monti Azzurri. Esse formavano un’unica e frastagliata linea di confine con la regione delle profonde acque.

Da qualche minuto il cielo aveva assunto un pesante color grigio ed il sentiero, che scendeva giù verso l’ampia valle, sembrava perdersi nel nulla nascosto da una leggera bruma. Anche il vento aveva cominciato a farsi sentire e le foglie cadute dell’autunno oramai inoltrato, si alzavano in piccoli mulinelli mentre il gemere dei rami piegati contro il loro volere, rapiva un brivido di reverenziale timore verso la potenza degli Elementi.

Marzio poggiò l’indice sul libro e lo chiuse, l’autunno stava approssimandosi al termine e la stagione delle grandi piogge sarebbe presto ricominciata. Riaprì il libro e, combattendo con le pagine svolazzanti, piegò un’angolo superiore della pagina per poi richiuderlo. Si alzò scostandosi i capelli dal viso mentre il vento gli spiegazzava l’elegante tunica blu dai bordi dorati. Raccolse il borsone abbandonato sulla panca, se lo mise a tracolla inserendovi, delicatamente il libro, si aggiustò il colletto ed il cinturone, diede ancora un ultimo sguardo al cielo e proseguì verso il mastio. Il vento continuava a sferzare ora permeato da minuscole gocce di pioggia; spostò la borsa sul davanti trattenendola ferma con le due mani e corse verso il portone sperando di giungere prima di essere completamente fradicio.

La porta, con le due pesanti ante di legno massiccio e borchiato, era aperta e, subito dopo, una seconda porta, più piccola, di vetro e legno si aprì per farlo entrare. Era il vecchio Leonardo, il capo della servitù, che lo attendeva sfoderando il suo solito sguardo impassibile. Con il tempo Marzio aveva imparato a conoscere quel suo modo di guardare, solitamente quando era arrabbiato o interdetto per un qualsivoglia motivo, Leonardo alzava un sopracciglio. Un tacito ammonimento che significava “sai già cosa ti vorrei dire ma non ti posso dire perché sei il figlio del padrone”.

Marzio entrò con disinvoltura pulendosi gli stivali sul tappeto di stuoie ed elargì un mezzo sorriso al vecchio maggiordomo.

«Sì, lo so…avrei dovuto tornare prima che iniziasse a piovere…» e così dicendo si allontanò verso lo scalone di pietra ricoperto da un lungo ed elaborato tappeto rosso.

«Il pranzo sarà servito fra pochi minuti e vi consiglio di non fare tardi…» ebbe il tempo di dire prima che Marzio sparisse al piano di sopra «…poiché vostro padre non è dell’umore giusto per attendervi anche questa volta…» aggiunse scrollando la testa.

Marzio si chiuse la porta alle spalle e vi si appoggiò. Per terra lasciò qualche orma d’acqua, si tolse la borsa buttandola sul letto incurante del fatto che fosse umida, si slacciò il cinturone gettandolo per terra, e si sfilò gli stivali.

Sentì i passi del maggiordomo avvicinarsi alla porta.

«Eccellenza vostro padre vi attende!» era sempre Leo che lo avvisava perentoriamente.

«Arrivo! Solo un minuto e scendo, dite pure a mio padre che sarò più veloce di un furetto!» rise tra sé all’idea della faccia che avrebbe fatto il buon Leo a questa sua affermazione, naturalmente sapeva che non avrebbe comunicato al padre la deliziosa immagine del piccolo animale. Raccolse tutto ciò che aveva abbandonato per terra e lo mise ammucchiato su una pesante sedia imbottita, aprì il baule che cigolò, come di rito, sui cardini e rovistò cercando qualcosa di abbinato e magari di decente da indossare, non aveva voglia di litigare con il padre per il suo abbigliamento da popolano. S’infilò una camicia bianca indossandovi una tunica di colore nero con piccoli finimenti in filo argentato, si mise attorno al collo il pesante medaglione con il simbolo della sua casata, il tuono, e s’infilò un paio di stivali asciutti leggermente più scuri degli altri.

Raccolse l’asciugamano, ordinatamente piegato vicino al catino strofinandosi energicamente i capelli; si piegò davanti al piccolo specchio ovale e, con un corto pezzo rettangolare d’avorio dentellato, cercò di pettinarsi i lunghi capelli neri. Quanto li odiava, stonavano così maledettamente con il suo pallore, per non parlare di quelle lunghe sopracciglia scure, ma che gl’importava, tanto non doveva piacere a nessuno!

«E’ fatta, sono pronto!» disse tra sé, tentò di spostare il chiavistello della porta per poi accorgersi di non averla nemmeno chiusa, diede un’altra occhiata alle sue spalle e non potè fare a meno di notare il caos lasciato, ma anche questo non gl’importava, quella era la sua stanza ed il disordine un suo segno distintivo, scrollò le spalle e si diresse verso la sala da pranzo, al piano di sotto, nell’ala ovest del castello.

Percorrendo i corridoi che lo avrebbero condotto a destinazione ripensò a ciò che aveva letto nel suo ultimo libro circa l’Astyog, ovvero il concetto delle otto tappe evolutive che portavano al raggiungimento della comprensione universale. Si fermò cercando di ricordarsi mentalmente qualche nome. Uno di sicuro era Maya, ovvero le astensioni che indicano la condotta morale con se stessi ma soprattutto verso gli altri; uno era Rina ovvero le osservanze, poi c’era Hara, il distacco da ciò che è materiale, questo decisamente sarebbe stato il più difficile nelle sue condizioni anche se, in un certo senso, tutto quello sfarzo non gli era mai appartenuto anzi, se gli fosse stato possibile scegliere, sarebbe diventato un eremita come il suo vecchio amico Claude che dimorava lassù sul Monte di Dio, nel rifugio di preghiera costruito centinaia d’anni fa dal primo romita, Padre Joannes. Suo padre aveva concesso quell’appezzamento di terreno solo per volontà della madre ma non era mai riuscito a digerire quella scelta. Re Annibale affermava che fossero settari, che con le loro preghiere, richiamassero forze oscure. Dichiarava che spesso, durante la notte, si sentivano urla e lamenti provenire da quei posti immersi nell’oscurità e che coloro che vi andavano, non facevano più ritorno. Marzio sorrise, suo padre credeva ancora di avere a che fare con un bambino al quale si raccontano le favole ma era altrettanto sicuro che, se gli fosse stata concessa l’occasione, avrebbe trovato dei testimoni a conferma delle sue affermazioni. Ma come biasimarlo, dopotutto lui voleva fare di suo figlio un cavaliere forte e potente non sicuramente uno scribacchino letterato e misogino…non che odiasse le donne anzi amava la sua figura materna ed amava anche la sua cara sorella Amelia ma ciò che più lo attraeva era la vita di meditazione, il dedicare tutta la propria esistenza per un unico Credo.

«A proposito di uomini veri…» borbottò tra sé «…il pugnale, l’ho dimenticato nella stanza!» si lasciò uscire un lamento dandosi una leggera pacca sulla fronte. Non aveva decisamente voglia di andare di nuovo di sopra e recuperare (chissà dove lo aveva messo poi) il pugnale regalatogli proprio dal venerabile padre quando compì la virile età di dodici anni.

«Speriamo non se ne accorga.» e si avviò.

La vasta sala dove si pranzava o cenava, secondo le occasioni, era addobbata in modo diverso secondo l’uso della famiglia Aloris. A pranzo lunghi pannelli di stoffa azzurra ricoprivano i muri di pietra e dell’incenso al profumo di arancia veniva fatto bruciare come ringraziamento e benedizione per gli angeli protettori della casa. A cena solitamente erano utilizzati pannelli verdi e l’incenso odorava di spezie, quando giunse nella stanza, suo padre occupava il solito posto centrale nella lunga tavola rettangolare, sopra la sua testa regale, come sempre adornata di corona, pendeva fisso ed immobile il grande arazzo con il simbolo di famiglia. I pannelli circostanti, dalle sfumature più colorate, ondeggiavano mossi dai refoli che penetravano tra le intercapedini nei muri.

Amelia era al capezzale del padre con in mano il calice regale adornato di rubini, Marzio sapeva cosa significava, probabilmente il grande ed indistruttibile re Annibale aveva avuto un altro dei suoi attacchi di tosse violenta e la materna sorella gli offriva la solita pozione preparata dal sapiente erborista di corte, che poi tanto sapiente non era o per lo meno così pensava Marzio; si schiarì la gola ed entrò cercando di nascondere il fodero del coltello inesistente; prese posto alla destra di suo padre e sfoderò uno dei migliori sorrisi della uggiosa giornata.

«Padre mio, buongiorno…» fece un breve inchino con il capo «…e buongiorno anche alla mia luminosa sorella Amelia.» si sporse in avanti per poterla salutare meglio e lei gli sorrise, poi fece per sedersi ma il padre alzò la mano destra con fare ammonitore mentre allontanava la figlia con la sinistra.

«Credi che non mi sia accorto che anche oggi ti sei dimenticato il coltello e la spada?» lo guardò arcigno ma bonario. La pesante pelliccia che indossava sembrava essere un tutt’uno con i lunghi capelli e la barba bianca.

Tossì.

«Hai già venti anni, quando pensi di diventare un uomo, Marzio?» scrollò la nuca, sconsolato «Probabilmente tua sorella sarebbe più adatta di te a condurre il Regno…» si mise una mano chiusa a pugno sulla bocca e tossì energicamente. Sua sorella si avvicinò ancora a lui ma il re l’allontanò delicatamente.

«Sto bene, sto bene…siediti Amelia e siediti anche tu Marzio.» Amelia aveva il viso pallido e, dalle profonde occhiaie, si capiva che, anche quella notte, non era riuscita a dormire bene.

«Ma padre…» bisbigliò lei.

Lui scrollò la mano come per sminuire la situazione «Ti preoccupi troppo, tuo padre sta bene.» si volse verso Marzio «Come vanno le tue lezioni?».

Marzio sapeva benissimo che non si riferiva alle lezioni di filosofia o di storia ma a quelle di combattimento e fece boccuccia, con indifferenza, tentando di versarsi un po’ d’acqua nel boccale di terracotta.

«Bene…come sempre…» rispose quasi in un bisbiglio.

Il re fece segno ai servitori di portare le pietanze.

«Cosa ti ha insegnato sir Vittorio?» chiese il padre con un luccichio interessato negli occhi.

Marzio cercò mentalmente di ritornare al pomeriggio del giorno precedente.

Sir Vittorio era il miglior maestro di spada di tutto il Regno di Aloris, aveva trentacinque anni e, tutta la sua vita era stata dedicata allo studio delle armi e delle tecniche di combattimento, in particolare dell’arma bianca per eccezione.

La spada, il pugnale, il bastone ed altri diabolici aggeggi per la lotta erano il suo pane quotidiano e la sua filosofia di vita. Marzio apprezzava la seconda parte dell’insegnamento, quello dedicato alla storia ed alla dottrina della spada, al modo in cui essa veniva vista nel corso dei secoli, alle mille metafore cui si ricorreva indicandola, alle storie di maghi e guerrieri dai grandi poteri magici che le forgiavano ed ai simboli, romantici o meno ai quali si associava.

«Bé…» iniziò, intanto un paio di servitori poggiarono sul tavolo un grosso tacchino contornato da verdure di ogni tipo «…abbiamo fatto i soliti combattimenti ed in più abbiamo lavorato con la palla chiodata…» il tacchino fu accuratamente tagliato e Marzio, dopo aver servito il padre e la sorella, se ne prese una grossa porzione.

«Vuoi dire il mazzafrusto!» lo corresse il re «Continua…» non sembrava essere troppo interessato al cibo, quando si parlava d’armi non c’era verso di distrarlo, e pensare che un tempo era stato un ottimo mangiatore. Anni fa alcuni piatti erano cucinati dalla loro stessa madre, gesto piuttosto inusuale da parte di una regina ma sua madre era molto innamorata dell’uomo che aveva sposato e, il cucinare per lui, era un gesto che la faceva sentire bene, ma non era solo quello, la regina Sara era una donna “alla buona”, una donna che non aveva alcun problema a farsi dare del “tu” da domestici o popolani. Probabilmente Marzio aveva preso il carattere di sua madre, forse suo padre aveva ragione, Amelia era la più indicata per portare avanti il Regno.

«Non ho null’altro da aggiungere padre, oramai ho preso pratica con quasi tutte le armi conosciute, anche se ho ancora qualche difficoltà con arco e balestra…» prese il pezzo di corno dentellato per aiutarsi a portare il cibo alla bocca e cominciò a mangiare.

Suo padre tossì di nuovo e fece un cenno d’assenso con il capo «Capisco…» ci fu una breve pausa «Ieri ho parlato con sir Vittorio, per sapere come te la cavavi con gli allenamenti…» staccò un brandello di carne con le dita e se lo portò alla bocca. Marzio deglutì, sapeva di aver mentito al padre, non era un bravo spadaccino e tanto meno aveva preso dimestichezza con le altre armi.

«Ha detto che potresti fare di meglio, che sei distratto, che non lo ascolti, che gli porti attenzione solo quando si mette a raccontarti di leggende o di miti…dice che hai ottime potenzialità, più di qualunque altro ragazzo, non perché sei mio figlio ma perché saresti un eccellente combattente se…» scrollò la testa e sospirò.

Marzio sapeva cosa voleva aggiungere “…se non ti comportassi come un monaco eremita…”.

Avrebbe davvero voluto che suo padre fosse fiero di lui ma non ci riusciva, quello che gli chiedeva andava oltre i suoi desideri più intimi.

«Sei alto e forte, figliolo. Perché non pensi di più al tuo futuro? Lo sai che avresti già dovuto prendere moglie? Ma possibile che non senti nessuno stimolo!» alzò la voce.

Marzio arrossì, non gli piaceva iniziare quei discorsi con sua sorella presente.

«Padre ti prego…» posò il cibo che stava per introdurre in bocca nuovamente nella ciotola «…possiamo parlarne in privato? Ora vorrei mangiare tranquillamente…piuttosto Amelia?» cercò di cambiare discorso.

«No!» urlò il re battendo un pugno sul tavolo e rovesciando il boccale colmo di vino. Sua sorella sobbalzò dallo spavento «Voglio parlarne ora! Non sopporto che tu sia così insubordinato da dirmi cosa, come e quando parlarne! Io sono tuo padre oltre che essere il re, ed io decido!» un possente colpo di tosse lo fece arrossire ancora di più e piegare quasi in due dallo sforzo.

«Padre non agitarti…» si avvicinò per aiutarlo.

«Stammi lontano…» riuscì a dire lui tra un colpo di tosse e l’altro «…ho già tua sorella come donna, non ne voglio avere un’altra al mio capezzale!» si schiarì la gola.

Marzio si sentì avvampare dalla rabbia, nonostante la sua malattia, avrebbe voluto sferrargli un pugno in pieno volto, invece strinse i pugni fino a farsi diventare le nocche bianche, guardò la sorella con la furia negli occhi e lei, di tutta risposta, gli fece cenno con lo sguardo di allontanarsi.

Marzio non si fece pregare ed uscì silenziosamente dalla stanza.

«Vattene pure, nasconditi nella tua stanza o tra i tuoi stupidi volumi pieni di polvere, combatterai tirando i libri in testa ai nemici?!» lo sentì ancora urlare mentre percepiva le parole delicate della sorella che lo pregava di non agitarsi.

La sala delle udienze, nell’ala est del palazzo, era fredda e semibuia, se non era strettamente necessario, i domestici non venivano a riscaldarla ma a Marzio non dava alcun fastidio, lui era abituato a quella temperatura, oramai era temprato dal clima di Aloris, freddo ed umido. Si sedette sotto una delle ampie finestre, dove vi erano delle piccole panchette di pietra, allungò le gambe e poggiò schiena e testa contro il muro. Non ce la faceva più e di giorno in giorno peggiorava. Chiuse gli occhi lasciandosi cullare dal vento che fischiava tra i vetri e lungo i muri, stava quasi per assopirsi quando sentì dei passi che venivano verso di lui. Non si mosse, probabilmente era la sorella.

«Eccellenza….» lo raggiunse una vocina delicata, la voce di Clara, una delle domestiche più giovani, «Eccellenza?» lo chiamava. Il muretto lo nascondeva così bene che non era riuscita a distinguerlo «Eccellenza so che siete qui. Leonardo mi ha mandato ad annunciarvi che vostra sorella vi aspetta nella vostra stanza…» sussurrò.

Marzio sgusciò fuori con un piccolo salto rubando un gridolino alla fanciulla che si portò subito una mano sulla bocca «Eccellenza non immaginavo fosse seduto la dietro.» prese la gonna ed allargandola si prostrò in un inchino.

Marzio si aggiustò il cinturone «Non è necessario che t’inchini quando non c’è mio padre, lo sai che con me puoi evitarlo.» le sorrise. Lei lo guardò trattenendo a sua volta un sorriso «Mi dispiace eccellenza ma non voglio rischiare di essere frustata. Il signor Leopoldo non vuole che accondiscenda a questa vostra richiesta, mi perdoni ma devo eseguire gli ordini.» si rialzò.

«Va bene, Clara. Perdonami tu, non interferirò più con ciò che ti viene richiesto. Vado a raggiungere mia sorella, a più tardi!» e si allontanò a grandi passi verso lo scalone.

Clara si sentì avvampare le guance. Il principe Marzio era un bel ragazzo, aveva un portamento elegante ed era gentile, il suo viso era luminoso ed i suoi capelli corvini contrastavano così nettamente con la carnagione, bianca come la neve. Si sentiva così sciocca a pensare a lui, al futuro re di Aloris. Lei che era così insulsa con quegli stopposi capelli rossi e ricci.

Sospirò e si avvicinò alla panca dove, fino a pochi attimi prima, era seduto il suo bel principe, si sedette cercando di percepirne il calore e, nonostante la pietra fosse fredda, colse il suo profumo, il profumo di un uomo di potere, il profumo di “lui”.

«Eccomi!» Marzio si chiuse la porta alle spalle e diede due giri di chiavistello.

Sua sorella era intenta a riordinare la confusione che aveva creato poco prima. Gli ricordava sua madre, sempre pronta a tendergli una mano, sempre presente. Amelia era identica a lei fisicamente, aveva i capelli biondo oro lunghi e dritti, la pelle d’alabastro e gli occhi verde scuro. Era esile di corpo ma forte di carattere, tenace ed intelligente. Era addirittura riuscita ad ottenere dal padre il permesso per seguire le lezioni di spada di Sir Vittorio riuscendo nientemeno, nell’utilizzo del coltello, ad essere più brava di Marzio, non che ci volesse molto poi...

«C’è sempre un tale caos in questa stanza che…» sospirò sedendosi sulla panca «…maestro Ubezio dice che il disordine fisico corrisponde ad un disordine mentale, non stento a crederlo vedendo te!» sorrise.

Maestro Ubezio era il loro insegnante di psicologia, un tipo secco secco sempre vestito di nero, con borse sotto gli occhi e lo sguardo penetrante. Aveva la brutta abitudine di fare tante domande ma probabilmente era deformazione professionale.

«Se tu sei qua Amelia significa che c’è qualcosa d’importante e non ho difficoltà a comprendere cosa possa essere…» si buttò sul letto sdraiandosi con le braccia incrociate sotto la nuca. Guardò la tenda sopra il suo letto a baldacchino e sorrise notando il piccolo rigonfiamento che scendeva, persino là sopra aveva nascosto dei libri.

Amelia si alzò sedendosi sul bordo del letto, si sistemò le lunghe ed eleganti vesti e cominciò.

«Non è come tu pensi Marzio, questa volta è qualcosa di più che una semplice punizione…» sembrò cercare le parole da dire al fratello senza che lui reagisse con rabbia. Oramai lo conosceva bene e sapeva che l’orgoglio, che caratterizzava tutta la famiglia Aloris, non aveva certo risparmiato lui.

Marzio si appoggiò sui gomiti e fissò la sorella con viso cupo.

«Cosa stai tentando di dirmi, Amelia?»

La sorella intrecciò le dita cercando di non guardarlo negli occhi, sapeva quanto potessero essere penetranti, lui comprendeva tutto ancora prima che gli fosse detto, per lui ognuno era come un libro aperto.

«Papà ha in mente qualcosa, l’ho sentito l’altra sera mentre parlava con il sergente Brando…» si schiarì la voce e, guardando la porta, abbassò il tono «…credo che voglia farti arruolare nell’esercito…» disse infine tutto d’un fiato.

Marzio si sedette di scatto.

«Cosa!?» urlò, poi ad un cenno della sorella, tentò di abbassare la voce «Arruolarmi? Sa benissimo che non ho nessuna intenzione di entrare a far parte dell’esercito. Non voglio usare armi, non voglio combattere, non voglio uccidere, e se per lui questo vuol dire non essere uomini, non me ne frega nulla!» si sollevò di scatto dal letto rischiando di far cadere la sorella. Raggiunse la finestra e guardò fuori, si sentiva ribollire di rabbia, un calore fortissimo partì dal petto investendolo in volto. Diede un pugno sul muro facendosi sanguinare la mano.

Amelia le si avvicinò in tutta fretta «Ma cosa stai facendo? Sei pazzo? Ti sei fatto male! Dammi qua!» gli prese la mano ma lui l’allontanò.

«Non è nulla rispetto a quello che sento dentro!» camminò su e giù per la stanza «Non riuscirà a convincermi…»

Amelia lo osservava agitata ma con viso calmo e quasi materno nonostante la giovane età.

«Marzio non credo che avrai scelta…mi dispiace, temo che abbia messo un vincolo al quale non potrai rinunciare…non sono riuscita a sentire di più perché poi hanno cambiato stanza, ma credo che papà questa volta abbia trovato il modo per farti fare quel passo…» si portò le mani allo stomaco visibilmente preoccupata.

Marzio sospirò cercando di mantenere la calma, aveva passato anni della sua vita nello studio del rilassamento, ore di meditazione per riuscire ad estraniarsi da quei problemi che la quotidianità gli metteva di fronte ma tutto sembrava così inutile ora.

Amelia si avvicinò non appena lui si fermò al centro della stanza.

«Fammi vedere questo taglio…» gli prese nuovamente la mano e lui, questa volta, non protestò «…questo ti farà sentire meglio…» gli spalmò un unguento che teneva chiuso in un piccolo ciondolo attaccato alla collana.

Marzio si sedette sul letto affranto e sua sorella lo imitò.

«Cosa devo fare Amelia? Cosa devo fare…» gettò la testa indietro lasciando che la lunga coda toccasse il copriletto.

Amelia gli fece un dolce sorriso carezzandogli la fronte.

«Nulla, fai ciò che ti chiede. Sai quanto papà sia malato…io sono preoccupata per la sua salute e per il suo cuore…è stato un buon guerriero ma ora…anche la più piccola delle incomprensioni lo fa stare male…» si sdraiò sul letto «…mi ha promessa sposa!» aggiunse poi tutto d’un fiato.

Marzio sobbalzò di nuovo e la guardò fissa negli occhi sovrastandola.

«Ripeti!?»

Lei fece un mezzo sorriso triste.

«Sì, Marzio, fra una settimana mi verrà presentato il pretendente…» si alzò «…spero solo che almeno non sia brutto!» appoggiò i gomiti sulle ginocchia incrociando le dita sotto il mento.

«E tu non ti sei minimamente ribellata a questa decisione?!» chiese acceso dalla rabbia «Possibile che in questo posto tutti siano disponibili a mettersi sull’attenti non appena lui alza un dito…è deprimente…» si calmò «…eppoi, così all’improvviso? Come mai tutta questa fretta?» la guardò accigliato.

La sorella spostò lo sguardo tra le ginocchia coperte dall’elegante abito «Marzio…» prese a giocare con le proprie dita «…lo sai…da quando mamma è morta tu ti sei rinchiuso in un mondo tutto tuo, sei distante e, certe volte, perdonami, sei talmente preso dai tuoi pensieri da dimenticarti di tutto il resto…» si schiarì la voce quasi a ricacciare dentro delle lacrime «…non ti sei accorto di nulla…non ti sei reso conto che al castello ci sono meno persone? Da quanto tempo del giardino si occupa Leonardo? Ed i cavalli? Hai visto mercanti in giro negli ultimi mesi?» scrollò lentamente il capo «Molti contadini sono emigrati verso i paesi più caldi ed in paese alcuni negozianti sono stati costretti a chiudere bottega…Aloris sta perdendo potere Marzio…» lo guardò negli occhi «…Il regno di Gioia, quello del mio futuro fidanzato, invece è prosperoso e caldo, intorno alle mura si sono costituiti diversi nuclei di contadini ed all’interno vi sono molti negozi ed il tenore di vita è più elevato…lo sai bene quanto i nostri sudditi siano affezionati a noi e, credimi, la maggiorparte rimane anche solo per quello…» appoggià una mano delicatamente sulla sua «…sai anche quanto nostra madre fosse amata dal popolo ma tutto questo non basta fratello mio…purtroppo l’amore non ci aiuterà a ricolmare i forzieri di Aloris…».

Marzio non riuscì a credere alle sue parole. Possibile che dalla morte di Sara si fosse fatto passare davanti tutto questo senza accorgersi di nulla? Aloris, il grande regno di Aloris…stava decadendo? E lui, il diretto erede di tutto questo…”nulla” non aveva scorto nessuna avvisaglia? Ora riusciva a comprendere alcune cose e filtrarle sotto una luce diversa e si sentiva uno sciocco egoista. Prese la mano della sorella poggiandosela sul cuore «Vuoi dire che il tuo matrimonio sarà solo a scopo economico? Questo non è giusto…» le parole gli morirono tra le labbra. Amelia gli sorrise tristemente «Vedi…certe volte sai dire solo questo “è giusto” o “non è giusto” Marzio lo sai benissimo che per me non avrebbe fatto molta differenza, sono una donna e come tale sarei comunque finita con uno sconosciuto quindi…anche se ad Aloris sono portata sul palmo della mano e posso fare pressoché ciò che voglio questo non vuol dire che cambi il mio stato sociale di persona considerata nettamente inferiore…» sospirò «…ma ora basta parlare di questo, il concetto che vorrei farti comprendere è che sotto certi aspetti nostro padre ha ragione Marzio, dovresti cercare di mettere un pochino di più la testa a posto…» si morse le labbra «…ho bisogno di te fratello mio, non riesco a pensare a tutto quanto da sola…stammi vicino, ti prego…» lo guardò intensamente ed ancora una volta Marzio si accorse di quanto fosse identica a sua madre, le stesse espressioni quasi la stessa tonalità di voce, sentì il petto gonfiarsi di tristezza all’idea di essere stato così stolto da pensare solo a se stesso, ai suoi sciocchi problemi, di credere che tutto il mondo ce l’avesse con lui. Deglutì ed abbracciò con trasporto la sorella «Perdonami Amelia, hai ragione e, anche se mi costa dolore ammetterlo, probabilmente ha ragione anche nostro padre…» la strinse più forte «Ti prometto che ci proverò…non conto di riuscirci in così breve tempo ma…ci proverò!».

 

 

 

Locanda del Varco.  

   La luce del sole filtrò attraverso l’inferriata, lasciata libera dagli scuri, investendo Amorc in pieno volto. D’istinto si portò il dorso della mano sugli occhi, emettendo un gemito.  

   Aveva dormito poco e male. Per tutta la notte era stato assillato dal pensiero di ciò che gli era accaduto.  

   Portò il braccio sinistro sotto la nuca e fissò il soffitto. Non vedeva l’ora di tornare al suo tranquillo lavoro d’erborista; in questi ultimi giorni gli era successo di tutto e lui non era certo abituato a quel genere d’avventure. Aveva raggiunto il Confine e credeva di non aver destato troppi sospetti ma poi l’imprevedibile: un mutante aggredisce una piccola contadina a pochi passi dal suo tragitto. Che fare? Non poteva certo girarsi dall’altra parte e continuare, dal suo coraggioso intervento ottenne una ferita, per fortuna superficiale, al fianco destro, il cavallo disperso, fuggito chissà dove ed il mutante azzoppato, ma per nulla impedito dal darsela a gambe verso un posto più sicuro. La bimba, se non altro, ne uscì indenne anzi, dopo un timido ringraziamento elargito bisbigliando tra le labbra tremanti, si diresse, con la stessa velocità di chi ha un demone alle caviglie, nella direzione opposta a quella dell’aggressore, probabilmente verso casa.   

   Il loro piano, suo e di Evasio, meditato con tanta dovizia di particolari, era andato in fumo. O forse no? Se il mutante avesse sparso la voce…ma come poteva immaginare che lui si trovava lì proprio per il Confine…eppoi la “visione”…questo concatenarsi di eventi lo aveva profondamente sconvolto. Sospirò e decise di alzarsi, dopotutto non era ancora in grado di darsi una spiegazione dell’accaduto, si ripromise che, una volta giunto ad Ingmard, n’avrebbe discusso con Evasio, lui avrebbe chiarito tutto, in un modo o nell’altro…

   Prese fiato e si raddrizzò cercando di non fare movimenti che avrebbero potuto ridestare il dolore. Si sedette sul bordo del letto, sbadigliando. Appoggiò le mani al limite del pagliericcio e, facendosi forza su di esse, s’issò in piedi. Assicurò l’arma alla grossa cintura e controllò che la piccola pergamena fosse ancora nella tasca interna della giacca di pelle.   

   C’era.   

   Si avvicinò alla finestra e guardò fuori socchiudendo le palpebre davanti all’accecante luce del mattino. Il cielo era azzurro, macchiato qua e là, da stracci nuvolosi, qualche astore solitario si librava in cielo mentre un cervo incuriosito brucava l’erba ai bordi della fitta foresta d’Arghentia. Non aveva idea di che ora fosse ma, a giudicare dall’altezza del sole nel cielo, doveva essere all’incirca l’ora di pranzo. Possibile che avesse dormito così tanto?  

   Si scostò e tese le braccia in avanti accorgendosi, con gioia, che quello sforzo non gli causava troppo dolore.   

   Aprì la porta con l’intenzione di scendere al piano inferiore.  

   Oltrepassata la soglia si guardò a sinistra e notò una seconda scala. Ieri notte, nella confusione degli eventi, non si era accorto di quel ulteriore passaggio ma si ricordò che, nella visione, era proprio da lì che era passato il misterioso messaggero; sempre che la sua cosiddetta “visione” fosse vera, naturalmente. Scacciò nuovamente il pensiero e, chiudendo la porta dietro di sé, scese le scale.  

   Giunto al piano inferiore si accorse, con piacere, che la cortina di fumo della sera precedente, non esisteva più; l’aria era più respirabile anche se già si cominciava a fiutare un lieve olezzo di fritto e bevande stantie. Gli stivali toccarono le stuoie del pavimento, facendolo lievemente crepitare e si diressero verso un tavolino vuoto vicino ad un grosso camino con braci ancora palpitanti di fuoco. Quella mattina gli avventori erano pochi. Ne contò sei di cui due seduti ad un tavolino di fronte al suo, gli altri quattro sparsi qua e là.

Amorc notò che i due uomini seduti davanti a lui erano soldati del re. Avevano abbandonato il tabarro scuro sulle due sedie laterali e la divisa, dai colori così forti e funesti, non poteva certo passare inosservata. Il rosso ed il nero, i colori del regno degli Arketon. Colori scelti per comodità oltre che per bellezza. Il rosso si mascherava bene con le macchie di sangue e sul nero certo non risaltavano. Sospirò. Quando si è giovani, si è convinti di poter cambiare il mondo, si anela a creare una civiltà dove nessuna creatura, umana o meno, possa mai morire per le mani di un altro individuo. Poi, crescendo, ti rendi conto di avere poche possibilità, di non possedere mezzi appropriati con cui lottare e, forse per paura o vigliaccheria, di non volerti sporcare le mani. Il regno degli Arketon spadroneggiava in tutti i territori di Arketon. In tutti e Sette gli Anelli per la precisione ma, forse un giorno, avrebbe trovato un modo per superare il Confine e colonizzare le aree al là da esso. Si narrava di regni che avevano bandito la magia e scacciato gli Arketon con tutti i suoi seguaci. Erano anni (o “zenith” come si chiamano in questo regno) che, i vari re della casata si succedevano in questo ambizioso tentativo ma i morti, a migliaia, e le truppe decimate, costrinsero a rimandare gli intenti. Il problema era proprio quello: trovare una soluzione prima del nemico.

Scosse la testa.

Un tempo si era chiesto come fosse possibile che, uomini nati in una terra sottomessa e devastata come Arketon, potessero decidere di arruolarsi nell’esercito. La realtà era terrificante e surrealistica al tempo stesso, questi individui decidevano di mettersi contro famiglia ed amici esclusivamente per la fame dell’oro, l’incantesimo dell’Ixous, la droga che li rendeva schiavi e la magia.   

   Lo stomaco emise un rumore sommesso e questo fu sufficiente a ridestarlo dai suoi cupi pensieri. Non vide nessuno servire ai tavoli, così decise di alzarsi per cercare il gestore o l’eventuale cameriere. Proprio mentre sollevò le natiche dalla sedia, una ragazza sbucò da una porticina laterale vicino al bancone. La giovane donna aveva tra le mani un paio di ciotole e si avvicinò, di gran carriera, a due uomini che, finita la prima porzione, probabilmente avevano chiesto il bis. I capelli della ragazza erano raccolti all’interno di una cuffia chiara, ma alcuni boccoli scuri le scendevano maliziosamente davanti alle orecchie, ed era proprio da sopra una di esse che, una volta posate le tazze, raccolse una scheggia allungata e bianca. Un gesso. Lo utilizzò il gesso su una piccola lastra d’ardesia per fare un breve calcolo, poi lo mostrò al cliente, che con tutta probabilità non sapeva nemmeno leggere, e pronunciò la cifra a voce alta. Il contadino slacciò il portamonete e n’estrasse cinque Arketi di bronzo. La giovane raccolse le monete dal tavolo facendo leva con il medio ed il pollice e se le infilò sotto il grembiule candido e parzialmente sollevato sui fianchi.  

   Appena sollevò lo sguardo, Amorc le fece un cenno con la mano e la ragazza si avvicinò, sorridendo.  

   «Eccomi, signore. Desidera?»  

   Da buon osservatore di donne Amorc non poté fare a meno di notare la bellezza umile ma disinvolta della locandiera: il suo sorriso era dolce e pulito come tutto il volto. La fanciulla aveva la carnagione leggermente abbronzata e gli occhi scuri dello stesso colore dei capelli. Il suo abito profumava di fresco ed era semplice: una camicia bianca stretta sotto il seno e fino alla vita da un bustino di un verde tenue. La lunga gonna aveva lo stesso colore del busto e sotto di essa spuntavano due buffi zoccoli con la punta rivolta verso l’alto. Sembrava snella nonostante il bustino riuscisse a trattenere a stento il seno abbondante.  

   Amorc si schiarì la voce mentre la fanciulla arrossì vistosamente.  

   «Non so, portatemi quello che avete.» la guardò sorridendo e sfoderando quello sguardo che, lui sapeva, destava un non so che di particolare sul genere femminile «E’ da ieri sera che non mangio e ho un certo appetito…».   

   La ragazza non riuscì a comprendere di che cosa stesse parlando l’affascinante ragazzo che aveva di fronte. Diceva “appetito” ma, da come la guardava, sembrava che fosse lei il piatto forte e, per un attimo, fu tentata di dirgli che oggi la casa offriva un solo piatto: Lucinda in vassoio d’argento.  

   Arrossì.

Si sentiva veramente sciocca, era la prima volta che incontrava un uomo con un fascino così avvolgente…non che lei n’avesse incontrato molti. Certo, alla locanda entrava ed usciva gente d’ogni tipo ma lui aveva qualcosa di particolare, qualcosa che lo rendeva diverso…ecco, era un po’ come l’uomo che sognava spesso la notte…quello dal viso oscurato ma dal corpo forte e vigoroso, l’uomo che la faceva fremere di piacere anche solo passandole un dito sul collo, l’uomo…  

   «Ho detto qualcosa che non va?» Amorc assunse un’espressione interrogativa rompendo l’imbarazzante silenzio che si era venuto a creare.  

   Lucinda sussultò.  

   «Oh, bé no! Mi scusi, ero soprappensiero…ehm…d’accordo le porterò…lo stufato d’asino, le può andar bene?» rise cercando di ridarsi un contegno, ma ciò che uscì fu piuttosto un suono stridulo che la fece sentire stupida. Senza aspettare una risposta, si volse di scatto allontanandosi verso la porta dalla quale era in uscita precedenza.   

   Amorc si appoggiò allo schienale battendo ritmicamente le dita sul tavolo. Fece un mezzo sorriso compiaciuto, era riuscito a confonderla e questo lo soddisfaceva, allora dopotutto era ancora in forma. Non sapeva che aspetto avesse, erano più di due giorni che non si lavava, l’ultima volta che si era fatto un bagno era stato nelle acque gelide del fiume vicino alla Foresta del Passo. Finito di cibarsi avrebbe domandato se ci fosse stata la possibilità di darsi una sciacquata anzi, appena fosse giunta la giovane, lo avrebbe chiesto direttamente a lei.  

   Non attese molto. La cameriera aprì la porta uscendo di schiena, in una mano aveva una brocca con un bicchiere e nell’altra la ciotola con il cibo. Si avvicinò con una destrezza da vero giocoliere ed appoggiò le vettovaglie sul tavolo.  

   «Ecco qui!» si sfilò il gessetto e prese la lavagnetta scrivendo sopra delle cifre «Fanno due Arketi e mezzo!» disse mostrandogli la piccola lastra «Si paga subito…» aggiunse, arrossendo.  

   Amorc la guardò serio «Mi dispiace gentile fanciulla ma devo contraddirla!». Lei fece per parlare ma Amorc alzò una mano «No, non mi fraintenda, i suoi calcoli sono corretti, è solo che mi è stato detto dal locandiere, ieri sera, che il mio conto era già stato saldato.» la guardò divertito.

   La ragazza rimase a bocca aperta.  

   «Ma allora lei è il signore del borsone!» si diede una leggera pacca sulla fronte «Mi scusi tanto, non sapevo. Non c’è problema, mangi pure e, se ne ha bisogno ne chieda pure dell’altro. Spero che sia di suo gradimento.» fece per allontanarsi ma Amorc la richiamò «Mi scusi, le volevo chiedere un’informazione…» la giovane si avvicinò nuovamente «…anzitutto sarei lieto di conoscere il suo nome e poi mi domandavo se esiste la possibilità di farsi un bagno o, per lo meno, darsi una lavata.».  

   La ragazza arrossì nuovamente e prese a sistemarsi il copricapo.  

   «Il mio nome è Lucinda, sono la nipote del locandiere e per ciò che riguarda il lavarsi…sì, dietro la casa abbiamo un trogolo con una piccola vasca, se vuole può utilizzare quello.» sorrise.  

   «Bene, ed ora se non ti dispiace, ci possiamo dare del “tu”? Avremo pressappoco la stessa età…ed in caso contrario mi faresti sentire troppo vecchio!» fece una pausa «Io sono Amorc...» la guardò di nuovo, intensamente.  

   «Va bene, Amorc, buon appetito!» strofinò le mani sulla gonna come per stirarla e si allontanò.  

   Amorc terminò il suo cibo e trattenne dentro di sé un singulto d’apprezzamento, il vino era un po’ acido nonostante le spezie ma la carne era buona. Le due grosse guardie reali si erano allontanate, lasciando sul tavolo poche monete se rapportate a ciò che avevano mangiato. Quasi certamente avevano diritto a degli sconti o con più probabilità, nessuno osava contraddirli affermando che non erano abbastanza, e così ne approfittavano.  

   Proprio mentre stava formulando quel pensiero, nella locanda entrò un uomo piuttosto robusto di un’età indefinibile, poteva avere quaranta come cinquanta zenith. Amorc notò che doveva essere mancino poiché portava una rozza spada sul fianco destro. La mano sinistra era come fasciata in una sorta di bendatura di colore scuro, probabilmente sporca. I capelli, così come la barba, erano lunghi ma, su nuca e tempie, sottili e radi dello stesso colore rosso della lanugine intorno al viso.   

   Le stuoie scricchiolarono pesantemente al suo passaggio e alcuni dei pochi uomini che erano rimasti, si voltarono a guardarlo. L’omone si guardò attorno, prese una sedia con una mano grossa almeno una volta e mezza quella di Amorc ed, emettendo un grugnito sommesso, si sedette. Non vedendo giungere nessuno, picchiò più volte il pugno sul tavolo ed emise altri suoni più simili al ringhio di un cane che al bofonchiare di un uomo. Da lì a pochi istanti Lucinda entrò accogliendo il nuovo arrivato con un sorriso che spiazzò letteralmente Amorc.  

   «Ciao Bronto!» gli diede una pacca sulla spalla «Hai fame, eh?» gli stampò un bacio sulla fronte «Vado subito a prenderti qualcosa!» si allontanò.  

   Amorc era allibito, l’omone aveva risposto alla ragazza con un sorriso sdentato ed era addirittura arrossito dopo il bacio. Questo era uno dei più invidiabili poteri femminili, riuscire a rendere ogni uomo, anche il più forsennato, un timido passerotto.  

   Amorc si rese conto di essersi eccessivamente attardato al tavolo e si alzò, anche se a malincuore; il prossimo paio d’ore le avrebbe dedicate ad una rinfrescata ed alla ricerca di un cavallo, giacché il suo era scomparso. Da quando aveva perso l’animale, aveva coperto il percorso fino alla locanda a piedi o facendo da scorta a qualche contadino di passaggio, ma non era più consigliabile proseguire con quel criterio e soprattutto nelle sue attuali condizioni fisiche.   

   Lucinda entrò con il cibo per il suo singolare amico. Si sedette al tavolo con lui rivolgendogli le solite frasi di circostanza, come quelle che normalmente s’indirizzano ad una persona alla quale sei affezionato ma che non vedi da qualche tempo, tipo “come stai?”, “tutto bene?”, “vedo che sei dimagrito!”, “ma no, non è vero ti trovo in piena forma!”.  

   Amorc si avvicinò al bancone e passò proprio dietro alla schiena di Lucinda, cercò di non disturbare, non conosceva il carattere dell’omone e non aveva intenzione di farlo arrabbiare. Appoggiò i gomiti al ripiano di legno e attese che i due terminassero il loro interessante colloquio.   

   La discussione sembrava andare per le lunghe ed Amorc aveva una gran fretta di recuperare il proprio bagaglio e partirsene alla volta d’Ingmard. Davanti a sé c’era ancora qualche giorno di viaggio e l’idea d’incontrare altri problemi lungo la strada di ritorno, lo rendevano nervoso. Non fece in tempo a muoversi che fu raggiunto dall’eco di una tonante voce maschile che proveniva da fuori. Lucinda ed il suo amico Bronto trasecolarono, l’unica differenza era che il cavernicolo appariva furioso mentre la giovane spaventata.  

   La voce si fece sempre più vicina tanto che Amorc riuscì ad estrapolarne alcune parole, come “ti ucciderò” e “bastardo scimmione faccio a fette a te e a tutti quelli come te!”. Non ci voleva un genio per capire che l’uomo fuori stava parlando del buon caro Bronto.  

   «Ci risiamo…» mormorò Amorc tra sé «…lo sapevo che dovevo andarmene.» avvicinò la mano al coltello che teneva sempre allacciato alla cintura e slacciò la sicura di cuoio, doveva tenersi pronto non si poteva mai dire come degenerassero discussioni di quel genere.  

   Finalmente l’attesa fu spezzata dal violento sbattere della porta, seguito dall’entrata in sala di un giovane signorotto, a giudicare dall’abbigliamento, piuttosto ben piazzato. Nella mano destra aveva un’ascia mentre nella mano sinistra le dita erano serrate a pugno.  

   Il giovane uomo era molto alto e robusto, aveva i capelli rasati ed un pizzetto nero come le sopracciglia. Anche l’abito di pelle era nero e la sua ascia brillava come argento. Amorc notò che sulla lama aveva una sorta d’incisione a ghirigoro, forse il simbolo della sua casata.  

   Il bestione si guardò attorno dilatando furiosamente le narici come un toro che si prepara a caricare.  

   «Dov’è quel puzzolente bastardo!» urlò.  

   Nessuno si mosse, tutti si paralizzarono sul posto, un anziano contadino vomitò per terra mentre un altro, più giovane, si nascose sotto il tavolo. Lucinda rimase a bocca aperta e si alzò lentamente cercando di mantenere il controllo della situazione oltre che della propria voce «Mi…mi scusi signore, questa è una locanda rispettabile e non credo che possa trovare fra noi la persona che cerca…» deglutì.  

   L’uomo si avvicinò e il suo sguardo cadde su Bronto, che se ne stava beatamente seduto a mangiare la sua porzione di stufato d’asino dandogli le spalle.  

   «Credo che ti sbagli sgualdrinella, quello che cerco è proprio accanto a te! Eccolo qui il maledetto topo di fogna. Alzati in piedi e affrontami, brutto bastardo, hai paura, eh?» la sua voce ora era in falsetto «Ti tremano le gonne, donnicciola?» guardò Lucinda nello stesso modo in cui si guarda una bistecca dopo settimane di digiuno «Ti nascondi dietro questa sguattera? Eh? Lo so che ti piace questa stupida giumenta e…se ti dicessi che quasi quasi la cavalco proprio davanti ai tuoi occhi?».  

   Quella fu la frase che fece nascere l’interesse in Bronto. Lasciò lo stufato e, grugnendo, spinse lontano la ciotola. Si alzò in tutta la sua altezza sovrastando di qualche centimetro il giovane pelato.  

   «Lascia perdere Lucinda, Zagor, o ti faccio a pezzi come lo stufato che stavo mangiando…» la sua voce era baritonale e tranquilla. Amorc si stupì del fatto che potesse possederne una visto che, gli ultimi suoni giunti al suo orecchio, non erano altro che mugolii e grugniti sommessi.   

   Zagor rise fortemente mostrando una fila di denti perfetti.  

   «Credi che abbia paura di te, sterco di maiale?» sollevò l’ascia «Lo vuoi un taglio di capelli più corto? Lo sai quanto vadano di moda oggi come oggi!».  

   Lucinda si avvicinò ad Amorc, aveva il viso terrorizzato ed il labbro inferiore che le tremava «Ti prego Amorc fai qualcosa, Bronto è grande e grosso ma è così lento…aiutalo, ti prego!».  

   Amorc la guardò come per chiederle tacitamente se stesse parlando sul serio «Ma vorrai scherzare, hai visto che razza di bestie sono? Quelli mi faranno a pezzi in un battito di ciglia!».  

   Lucinda lo guardò con lo sguardo colmo di lacrime «Bronto è come un fratello per me, mi è sempre stato accanto, mi ha aiutato quando i miei genitori sono morti…ti prego lui fa parte della mia famiglia…ti prego, chiedimi tutto quello che vuoi. Hai bisogno di denaro? Ti darò tutto quello che possiedo, dimmi qual è il tuo prezzo, ma MUOVITI!» le ultime parole le uscirono come un urlo.  

   Amorc la guardò serio e scrollò la testa «Lo sapevo, se riesco a sopravvivere a questa settimana, passerà del tempo prima che mi rimetta ancora in viaggio!» dopo aver detto ciò si staccò dal bancone avvicinandosi a Zagor che era voltato di spalle.  

   «Scusate se interrompo la vostra amichevole chiacchierata ma suggerirei di continuare l’alterco fuori, qui c’è gente dallo stomaco debole e dalle orecchie delicate.».  

   Zagor, si volse lentamente a guardare in faccia la persona che aveva osato intromettersi fra lui ed il suo avversario.  

    «Fatti gli affari tuoi formica se non vuoi che schiacci quel tuo brutto muso pizzolato!» le sopracciglia scure s’incurvarono sopra il naso aquilino.  

   Amorc raddrizzò la schiena «Ehi dico, ma non ti sei mai visto allo specchio? Hai forse paura del riverbero sulla tua testa?» storse le labbra con derisione.  

   Zagor grugnì emettendo un energico soffio dalle narici.  

   «Stai giocando con il fuoco ragazzo e credo che presto ti brucerai!» detto questo si lanciò in direzione del suo interlocutore, ma appena fu a pochi passi da lui, Amorc si spostò e l’omone sbatté con l’ascia contro il bancone, incastrandola.  

   «Ti credi furbo lucertola dei miei stivali?» sbottò il pelato «Posso lavorarti anche a mani nude, non ho certo bisogno di uno strumento!» abbandonò l’arma e, sorridendo, si crocchiò le dita «Fatti sotto, piccioncino!».  

   Amorc assunse la posizione di difesa e attese una mossa d’attacco. Zagor gli allungò un pugno ma Amorc si fletté sulle ginocchia, schivandolo. Il pelato grugnì e, urlando, si buttò letteralmente su di lui, cadendogli addosso. Per un attimo Amorc rimase senza fiato, l’uomo, nel frattempo, lo afferrò con ambedue le mani per la gola e cominciò a stringere con forza «Non canti più, usignolo?» lo schernì l’aggressore. Lo sguardo di Amorc cominciò a sfuocarsi, stava perdendo conoscenza, doveva agire al più presto. Cercò di sferrargli una ginocchiata nel basso ventre ma era spostato troppo in alto per riuscire a colpirlo, allora prese con forza i polsi del pelato cercando di allentare almeno un poco la presa, ma nulla. Ad un tratto sentì una voce femminile fuori campo urlare, subito dopo vide schegge di legno che gli sprizzarono tutt’attorno a cascata. Lucinda aveva spaccato una sedia sulla schiena dell’uomo non sortendo alcun risultato; Amorc si ricordò di aver slacciato il coltello, non avrebbe voluto ucciderlo ma a questo punto non aveva altra difesa. Le sue forze stavano languendo, doveva agire ora o mai più, allungò la mano lungo il fianco destro e tastò il cinturone subito si accorse, con un tuffo al cuore, che il coltello si era sfilato. Cercò, con notevole sforzo, di guardarsi attorno e lo vide proprio alla sua destra ma poco più distante, tentò di raggiungerlo con le dita ma era troppo lontano. Doveva spostarsi ancora un poco. Fece forza sugli addominali e si sollevò quel tanto che bastava per far perdere l’equilibrio a Zagor. L’omone ondeggiò, cadendo lateralmente sulla sinistra. Amorc rotolò su se stesso, verso destra e raccolse l’arma, appena fu in piedi si passò una mano sulla gola, il bruciore era fortissimo ma la sensazione di nausea ancor di più. La testa gli girava e la figura del pelato era sdoppiata. Allargò le gambe per non sbilanciarsi e attese una contromossa. Zagor prese fiato e si lanciò nuovamente contro il suo avversario, fu una frazione di secondo, Amorc gli corse incontro e, con il coltello tenuto di taglio, lo scostò sulla destra sferrando il colpo in profondità su parte dell’addome e del fianco sinistro dell’aggressore. A giudicare dall’urlo che scaturì dalla bocca del pelato, doveva avergli fatto parecchio male. Lucinda si nascose la bocca tra le mani trattenendo un urlo mentre Bronto guardò la scena con aria divertita. Amorc si girò, Zagor era inginocchiato con le mani premute sull’anca, le stuoie erano zuppe di sangue. Amorc teneva ancora il coltello, gocciolante di liquido rosso, stretto fra le falangi, respirava a fatica e rantolando, guardò Lucinda con aria supplice. Quel breve silenzio fu infranto da un tonfo sordo, il pelato si accasciò su di un fianco, svenuto o privo di vita. Amorc ripose lentamente il coltello nella sua custodia avviandosi velocemente al capezzale di Zagor.   

   Era morto.

 

 

Grace