L'Esodo
dei Beoriani
Il
sole cominciava già a declinare quando il vecchio chiamò a se i giovani
guerrieri che erano stati designati per la spedizione. Si radunarono tutti e
cinque attorno al fuoco al centro della radura deserta. Il gelido vento del nord
faceva scricchiolare le foglie degli alberi mentre nel fuoco le pigne emanavano
un odore intenso, quasi soporifero. Quando tutti si furono seduti il vecchio
capo cominciò a parlare, e il racconto nel loro torpore si formò come un sogno
nelle loro menti. Videro l’inizio del regno di Lorder, videro la capitale che
si innalzava davanti ai loro occhi, videro il regno crescere e prosperare, e
infine videro l’Orda. Come un verde fiume si spargeva tra le colline lasciando
dietro di se una scia marrone di fango. Ogni cosa che si trovava sul suo cammino
veniva distrutta, erba, case, campi. Videro il popolo di Lorder disperarsi, lo
videro mentre si armavano e lessero la morte nei loro occhi. Poi,
all’improvviso arrivò la loro gente. Erano un popolo numeroso allora, quasi
quanto i Lorderoniani, ma erano barbari nomadi, e avevano il combattimento nelle
vene. Si allearono con i Lorderoniani e con loro si schierarono nel campo di
battaglia. Quando lo scontro ebbe inizio, l’orda caricò gli schieramenti
umani come un fiume. Gli orchi avanzavano senza tattica, sfruttando il loro
numero e la loro forza bruta. Per tutto il giorno orchi e umani combatterono
nella pianura. Verso sera si combatteva in un mare di fango formato dal sangue
rosso degli umani e nero degli orchi. Alla fine della battaglia dei cinquemila
uomini che si erano radunati quella mattina ne restavano in vita solo seicento,
e non ce ne era uno che non fosse ferito. Gli ultimi orchi si erano dati alla
fuga, e Lorder era salva. Ma la loro gente aveva pagato un durissimo prezzo. La
ricompensa per tutte le perdite dei barbari fu l’assegnazione di una parte
selvaggia del regno di Lorder. Il patto che era stato stipulato prevedeva che i
Beoriani, il nome della tribù, provvedessero a difendere per centocinquant’anni
quel passaggio dagli orchi. Poi sarebbero stati ampiamente ricompensati e
sarebbero stati liberi di andarsene. Molti dei sopravvissuti considerarono
questo accordo un angheria e furono sul punto di attaccare i Lorderoniani che
consideravano degli ingrati. Ma il loro capo sapeva che prima di mettersi in
cammino avevano bisogno di nuove forze. Ormai la tribù era formata quasi solo
da vecchi, donne e bambini. E così accettarono. La visione intanto continuava,
e videro la loro tribù difendere i Lorderoniani dagli orchi. Videro atti di
grande eroismo e atti di vergogna. Videro grandi sofferenze e grandi speranze.
Videro la loro tribù crescere e fortificarsi, videro che il termine fissato per
la ricompensa era giunto. “A voi è dato il compito di recarvi a Ninfesis,
capitale di Lorderon e parlare a nome della tribù. A voi il compito di far
rispettare i patti.” Le parole del vecchio li risvegliarono come se fossero
usciti da un sonno. Uno di loro si alzò e accettò la missione a nome di tutti.
Il suo nome era Gensis, ed era uno dei figli adottivi del capo. Non era alto
come alcuni suoi compagni ma era molto più agile con il corpo e con la mente ed
era dotato di un grande carisma. Ma quello che lo rendeva così strano erano
quelle orecchie a punta. Ormai era quasi l’alba, e si riposarono qualche ora
prima di mettersi in viaggio. Ognuno di loro si accomiatò dalle famiglie.
Partirono di buon passo in mezzo alla foresta, portandosi dietro provviste per
tre giorni. Nel pomeriggio iniziarono ad addentrarsi nelle terre coltivate ai
limiti dei boschi. Mentre passavano tra i villaggi agricoli notarono il
cambiamento di atteggiamento della gente nei loro confronti. Man mano che si
allontanavano dal loro villaggio gli sguardi amici erano sempre meno e sempre più
gente li guardava con sospetto e con sdegno. Erano ormai abituati a questi
atteggiamenti, perché erano loro ad andare ai mercati dei paesi vicini a
vendere i loro prodotti. L’unico che desse ancora peso alla cosa era Karas.
Era una specie di gigante, almeno per i barbari, con i suoi due metri e trenta.
Aveva le braccia più grosse della gamba di un uomo adulto, e in una caccia
aveva ucciso un giovane orso stritolandolo nella sua stretta. Ma nonostante
tutto era di animo gentile e soffriva a vedere la derisione della gente che non
si rendeva nemmeno conto che erano loro a proteggerla. Aveva degli occhi
profondi, castani come i suoi capelli, che conferivano alla sua faccia un
aspetto ingenuo. Ma nonostante tutto non era uno stupido. Era però troppo
fiducioso negli altri, e non gli era facile accettare il male intorno a sé.
“vorrei che almeno si rendessero conto di tutto quello che facciamo per
loro” disse rompendo il silenzio. “Lascia che pensino quello che vogliono.
Perché diavolo ti importa tanto di quello che pensano quei damerini?” a
parlare era stato Leidan, il più giovane del gruppo. Lui e Karas avevano
stretto un amicizia così grande che non si separavano mai, neppure per
cacciare. Eppure non esistevano due individui così diversi in tutta Lorthen.
Leidan era piccolo e magro, con occhi e capelli neri. Era svelto di lingua e
malizioso, e compensava la sua gracilità con una grande agilità ed astuzia. In
qualche modo lui e Karas si completavano a vicenda. “Leidan ha ragione Karas,
lasciamo perdere.” A parlare era stato Golin, uno dei due fratelli gemelli.
“già, e poi tra poco ce ne andremo di qui! Vedrai che dopo si accorgeranno
subito che manchiamo noi.” A completare la frase era stato Gildis, l’altro
fratello. Anche loro erano complementari l’uno all’altro come Leidan e Karas,
ma in modo diverso. Si completavano le frasi l’un l’altro, e sembrava quasi
che pensassero sempre la stessa cosa. Anche fisicamente erano uguali, alti,
magri, con un naso affilato aquilino e una massa scompigliata di capelli
castani. Erano sempre intenti a scherzare ed era difficile trovare un momento in
cui fossero seri. Erano tuttavia buoni cacciatori, soprattutto con la spada e
con l’arco. La notte passò senza incidenti e al mattino ripresero il viaggio.
Man mano che si avvicinavano alla capitale, il paesaggio si faceva sempre più
pianeggiante e gli ultimi tratti delle montagne sparivano. Ampi campi occupavano
tutta la regione, e isolate case di campagna prendevano il posto dei villaggi.
Verso sera arrivarono in città. Abituati ai loro villaggi la capitale li lasciò
senza fiato. Alte mura di pietra circondavano la città, e alte torri sembravano
ergersi come dal nulla. Al centro della città si trovava uno splendido palazzo,
con al centro la torre più alta di tutta la città. Una larga strada lastricata
si dirigeva verso una colossale porta nelle mura. Entrarono tra il continuo via
vai dei mercanti, e nessuno si accorse di loro finchè non arrivarono davanti
alla residenza del re. Appena tentarono di entrare una voce autoritaria diede
loro l’alt. Una decina di guardie li circondò. “chi siete, cosa volete dal
re?” chiese quello che sembrava il capo. “Siamo qui per ordine del nostro
capo e dobbiamo parlare con il re.” “andate via, il re non ha certo tempo di
ascoltare straccioni e barbari come voi.” Karas fece per dirigersi verso il
luogotenente, ma gli altri lo fermarono. “avvisate il vostro sovrano che
abbiamo portato a termine il patto, e che vogliamo parlare con lui.” Nel
frattempo dal cancello era uscito un uomo accompagnato dal alcune guardie.
“cosa succede?” chiese con voce melliflua. Era alto e aggraziato, e vestiva
abiti rifiniti ed eleganti. “Ho, principe Conran, niente di particolare.
Questi barbari chiedono di vedere il re vostro padre. Dicono di dovergli parlare
a proposito della fine di un patto o di qualcosa del genere.” Il principe
osservò a lungo il gruppetto e chiese “Siete voi della tribù di Beor?”
“si veniamo da parte del nostro capo.” “fateli subito entrare. Li scorterò
io.” Il luogotenente farfugliò qualche scusa e li lasciò passare.
Attraversarono le sale velocemente. Tutto ciò che vedevano stupiva
profondamente i barbari, abituati a capanne di legno e paglia. Passarono molti
punti di guardia e molte sale di ricevimento, e infine arrivarono alla sala
dell’udienze. Era una sala imponente dall’alto soffitto, interamente
ricoperta da arazzi, con un alto trono addossato al lato nord. Il re era ormai
vecchio con una barba bianca che scendeva fino alla cintola, con una corona di
oro massiccio sul capo. Appena i barbari si presentarono, si alzò allarmato.
Appena presentarono la loro richiesta, il principe rispose “ora vedete,
l’accordo di cui parlate ha ormai centocinquantanni, come potete pensare che
abbia ancora valore?” Karas si fece minacciosamente avanti e disse “per noi
ha un grande valore. Per centocinquantanni abbiamo protetto questa terra dagli
orchi, senza nemmeno spostarsi verso terre più fertili. Mentre voi stavate qui,
protetti e sicuri, noi abbiamo continuato a combattere. Per ora vi abbiamo dato
migliaia di vite, prima nella grande battaglia e poi nei vostri confini. E non
abbiamo ricevuto neanche un aiuto. Come potete dire che non hanno più
valore?” Il re alzò le mani e disse “vedete, noi non siamo ancora pronti a
difendere i nostri confini. Dateci ancora cinquant’anni e poi…” Gensis si
fece avanti e disse “No, non ci ingannerete più. Non possiamo più aspettare.
Non vogliamo più aspettere. Il mio capo mi ha avvisato che se le cose avessero
preso questa piega, avrei dovuto riferire che ce ne saremmo andati. Soltanto
speravamo che tutti i nostri sforzi avrebbero avuto una ricompensa migliore.”
Il principe Conran alzò altezzosamente il capo e disse “se è la ricompensa
che cercate, tenete.” Si sfilò un anello dal dito e lo gettò a terra.
“porteremo la vostra risposta al capo. Pensate a noi quando l’Orda ripasserà.”
Si allontanarono scortati da una guardia. Appena usciti dal palazzo un
luogotenente gli disse “per ordine del principe siete banditi dalla capitale.
Abbiamo l’ordine di scortarvi fuori.” Appena usciti dalla capitale si misero
a correre di buon passo. Potevano mantenere quella velocità per ore, come erano
costretti a fare mentre cacciavano. In un giorno arrivarono al villaggio, e
riferirono al capo delle decisioni prese dal re.
Erano
passati solo pochi giorni, ma già tutta la tribù era in viaggio. Erano più di
duemila tra donne vecchi, bambini e guerrieri. Gensis e il suo gruppo erano
stati mandati in avanscoperta, con due giorni di vantaggio sulla tribù, per
controllare che il terreno fosse sgombro da umanoidi. Man mano che si
allontanavano dalle pianure di Lorder il terreno tendeva a essere sempre più
accidentato e coperto da fitta boscaglia. Dall’alto delle colline si godeva di
una splendida vista, fino alle montagne dall’altra parte della pianura. Il
gruppo si cibava cacciando, e non c’erano altri segni di umanoidi per
chilometri. Forse per questo avevano abbassato la guardia a tal punto da non
accorgersi che nella radura davanti a loro stava riposando un numeroso gruppo di
Hobgoblin. Fu Leidan ad accorgersi appena in tempo del pericolo, fermando gli
altri prima che arrivassero allo scoperto. Proprio in quel momento alcuni di
loro trascinarono una giovane ragazza elica verso un albero e la legarono,
mentre quello che sembrava il capo la interrogava. Era coperto da una spessa
corazza di acciaio, probabilmente strappata a qualche cavaliere ucciso, ed era
alto molto più di un Hobgoblin normale. Nel suo rozzo comune stava cercando di
far parlare l’elfa, che faceva finta di non comprendere il suo linguaggio. In
quel momento, il capo Hobgoblin tirò fuori un pugnale. Gensis si era subito
sentito attratto dalla ragazza, ma come poteva chiedere ai suoi compagni di
andare all’attacco di quindici Hobgoblin… In quel momento, Karas decise per
lui. Reso furioso dalla scena tirò il corto giavellotto da caccia con tutte le
sue forze, che si rivelarono pi che sufficienti. Il giavellotto trapassò da
parte a parte il capo Hobgoblin e penetrò nel petto di quello subito dietro di
lui, uccidendolo all’istante. I due gemelli piombarono fuori dal nascondiglio
con le spade sguainate, cogliendo di sorpresa gli Hobgoblin. Karas era già in
mezzo alla battaglia, con Leidan che lo proteggeva alle spalle, e ne aveva già
tagliato a metà due. Gensis scagliò due frecce, che arrivarono puntualmente al
bersaglio, la gola di due Hobgoblin, e poi si gettò in mischia. Un Hobgoblin si
era avvicinato all’elfa di nascosto per ucciderla. Appena lo vide, Karas gli
scagliò la sua grande ascia contro. L’ascia trapasso il malcapitato Hobgoblin
e si piantò a pochi centimetri dalla faccia dell’elfa. Subito due Hobgoblin
si avventarono contro Karas che era disarmato. Mentre stavano alzando le accette
per colpirlo, con un veloce scatto Karas afferrò le loro teste e le fece
schiantare tra loro. I gemelli intanto avevano ucciso alcuni Hobgoblin. Gensis
non poteva fare a meno di notare quanto erano bravi a combattere in coppia,
nessuno poteva prevedere i loro cambi e incroci. Sembravano capirsi con il
pensiero, senza segnali di sorta. Nonostante la disparità numerica, in pochi
minuti tutti gli Hobgoblin erano stati uccisi. Karas aveva ricevuto una ferita
alla gamba e una al braccio sinistro, ma non erano gravi. Gli altri avevano
riportato solo qualche graffio. Gensis cercò di svegliare i due Hobgoblin
“addormentati” da Karas, ma si accorse che erano morti sul colpo. “La
prossima volta fai più piano, accidenti! Quante volte te lo devo dire che
dobbiamo prenderne qualcuno vivo per interrogarlo.” “Scusa, ho cercato di
fare piano, ma non sono riuscito a controllare la forza…” “Come al solito,
quando mai sei riuscito a controllare la tua forza? Ti ricordi quella volta che
cercavi di tendere l’arco del capo, e lo hai spezzato in due! La metà del
villaggio non riusciva neanche a tenderla. Non avevo mai visto il capo così
arrabbiato. Be, si, quella volta che per sbaglio gli hai fatto crollare addosso
la capann…” Leidan, come al solito, cercava di intromettersi per distogliere
l’attenzione dalle colpe del suo amico. All’improvviso una voce da dietro le
loro spalle disse “se avete finito di discutere cosa ne direste di
slegarmi?” Presi com’erano dalla discussione si erano dimenticati dell’elfa.
Gensis si affrettò a tagliare i legami che la tenevano prigioniera, stupito. Ma
era l’elfa ad essere ancora più stupita di loro. Non aveva mai visto una cosa
del genere. Un gruppetto di ragazzini umani che avevano letteralmente fatto a
pezzi un manipolo ben addestrato di Hobgoblin. Si, era vero, li avevano colti di
sorpresa, ma come potevano averli uccisi tutti senza nessuna perdita? Li guardò
accuratamente, incuriosita. Uno era una specie di orso, che per poco non
l’aveva colpita con la sua ascia. Doveva avere una forza fuori dal comune, ma
doveva essere anche un perfetto imbecille, se l’aveva quasi uccisa. Accanto a
lui c’era un ragazzetto e due alti umani che si assomigliavano come gocce
d’acqua. Quando alzò lo sguardo verso quello che l’aveva liberata rimase di
sasso. Quel ragazzo era un mezzo sangue. Aveva le orecchie a punta, ma aveva
anche i tratti caratteristici di un umano. Che diavolo ci faceva con quei
barbari? Gensis intanto si era accorto dell’esame, e la guardava con aria
interrogativa ed imbarazzata. In quel mentre sentirono urla gutturali in goblin.
Senza aspettare spiegazioni o presentazioni si diedero alla fuga.
Erano
ormai due giorni che correvano senza sosta, con gli Hobgoblin sempre alle
calcagna. Più volte si erano fermati per attaccare gli inseguitori, e ogni
volta che si era presentata l’occasione avevano scagliato frecce. Ora gli
Hobgoblin non li inseguivano più da così vicino, ma loro avevano finito tutte
le loro frecce. Leidan era persino arrivato a fabbricare rozze frecce mentre
erano in corsa, più per spaventare gli inseguitori che nella speranza di
provocare un vero e proprio danno. Ad un certo punto accorgendosi che Laenia,
era questo il nome dell’elfa che avevano salvato, stava rallentando sempre di
più rallentarono fino a fermarsi. Gensis aveva temuto di doverlo fare. Ormai
erano vicino alla sua tribù in marcia e dovevano avvisarli. Loro avrebbero
facilmente distanziato gli inseguitori, ma l’elfa non ce l’avrebbe mai
fatta. Uno di loro doveva andare ad avvisare la tribù per prepararla alla
battaglia. Ma chi mai l’avrebbe fatto? Chi avrebbe avuto il coraggio di
abbandonare i compagni lasciandoli al pericolo? O meglio, a chi doveva ordinare
di farlo? Di certo non ai gemelli. Erano inseparabili, e nessuno dei due si
sarebbe allontanato dall’altro, e mandare tutti e due era impensabile.
D’altra parte Karas non era una buona scelta. Per quanto fosse il miglior
corridore era capace di tornare indietro al primo accenno di combattimento per
aiutarli… mentre era ancora immerso nei suoi pensieri Leidan si era già
alzato e preparato. Per quanto fosse attaccato a Karas sapeva che quella era
l’unica soluzione possibile. Si avviò di corsa avanti nel sentiero, mentre
Karas aiutava ad alzarsi l’elfa. Ripresero a camminare, mentre i due gemelli
si posizionarono ai lati dell’elfa per sostenerla se non ce l’avesse fatta a
tenere il passo. Era lei la più sorpesa tra tutti. Questi giovani umani la
stavano sconcertando. Prima la liberavano combattendo contro nemici tre volte più
numerosi di loro. Poi camminavano a passo veloce, come non aveva visto fare da
nessun umano. Uno dei motivi per cui la sua gente disprezzava gli umani era che
non erano capaci di muoversi velocemente. E ora questi non solo le stavano
dietro ma anche resistevano più di lei. Ma la cosa che l’aveva colpita di più
in assoluto era che mentre lei si era accasciata sfinita senza forze al suolo,
uno di loro era addirittura partito di corsa e gli altri cercavano di aiutarla.
Solo adesso capiva che se non ci fosse stata lei sarebbero subito partiti di
corsa e si sarebbero messi in salvo. Lei era solo un peso per loro, ma se la
portavano dietro senza neppure sapere chi fosse… tutto le si mischiava nella
testa come in un sogno, e gli alberi attorno a lei si trasformavano in ent, le
creature protettrici del suo villaggio, e gli umani intorno a lei diventavano
ora elfi, ora orchi, ora cervi. Non riusciva più a rimanere sveglia, e la
stanchezza la stava poco a poco vincendo, senza che lei potesse opporre nessuna
resistenza. Non sapeva da quanto dormiva. Ad un tratto sentì un dolore alla
spalla. Una freccia le aveva scalfito la spalla. Si svegliò del tutto, e guardò
alle sue spalle. Una decina di Hobgoblin li stava inseguendo da vicino. I due
gemelli continuavano a trascinarla correndo, e Gensis si chinò a raccogliere la
freccia per rilanciarla contro le creature. In quel momento Karas mandò un
ruggito e si girò per contrastare gli inseguitori. Gensis mandò un urlo, ma
continuò a correre. Sapeva che era inutile, Karas non sarebbe tornato indietro,
aveva fatto la sua scelta e l’avrebbe portata avanti fino in fondo. I due
gemelli ormai erano stanchi e avevano bisogno del cambio. L’elfa non ce la
faceva più a correre. Gensis la prese tra le braccia e si mise
correre, seguito dai due gemelli. Erano ormai ore che correvano quando
raggiunsero il resto della tribù già schierato a battaglia. Un gruppo di
uomini andò a prenderli. Li portarono dietro le file già preparate a battagli.
Tuttavia dopo aver lasciato l‘elfa alle cure del guaritore del villaggio
tornarono subito alla prima linea. Dopo pochi minuti alcuni gruppi di Hobgoblin
spuntarono dal bosco, in maniera disordinata. Senza neppure rendersi conto di
quello che stavano facendo andarono in contro alle fila della tribù. Caddero
tutti trafitti da una pioggia i frecce. Dopo pochi istanti venne fuori dagli
alberi il grosso delle forze degli Hobgoblin. Aspettandosi di dover combattere
con una decina di umani che avevano loro sottratto un prezioso ostaggio, non
erano certo preparati ad affrontare un esercito ben preparato. Molti caddero
falciati dalla prima bordata di frecce. Quelli che erano ancora in piedi vennero
travolti dagli umani che li attaccarono ai fianchi. Proprio in quel momento la
retroguardia degli Hobgoblin corse fuori urlando spaventata “il mostro, l’amartanka!”.
Subito dietro di loro apparve una figura alta e gobba con numerose frecce
conficcate nella schiena, tutto rosso, che impugnava una grossa ascia e
sbraitava dicendo cose innominabili. Se non fosse stato così preoccupato per il
suo amico Gensis si sarebbe messo a ridere. Sentiva che Leidan non aveva avuto
il suo stesso scrupolo e stava ridendo di gusto, mentre Karas inseguiva una
ventina di Hobgoblin impauriti. Dopo aver finito gli ultimi Hobgoblin ancora
vivi, Gensis e gli altri si precipitarono ad aiutarlo.
Si
era appena svegliata dal lungo sonno nel quale era caduta appena arrivata al
campo. La prima cosa che vide fu il corpo di Karas tutto pieno di sangue con
molte frecce nella schiena. “no, è morto. Tutto per colpa mia…”. Prima
ancora che finisse il pensiero sentì il suono di delle risate e un ruggito, non
tanto di dolore quanto di rabbia. “Volete smetterla di ridere brutti
imbecilli! Fa male, mi hanno infilzato come un porcospino, quei maledetti. Se
non la smettete di ridere vi cambio i connotati…” “Dovevi sentirli Karas!
Sembrava che avessero un mostro alle calcagna.” “ Beh, ci erano andati molto
vicini.” “Nemmeno adesso hai un bell’aspetto se è per questo…” “La
volete piantare di prendere in giro si o no? E per favore andate tutti via.
Lasciate che il guaritore faccia il suo lavoro. E se quando mi sono rimesso
sento ancora parlare di questa storia giuro che vi ahi, vuoi fare un po’ più
piano, maledizione!” Non poteva credere alle proprie orecchie. Gli avevano
conficcato una decina di frecce nella schiena e loro ridevano? E anche lui
scherzava con loro. Questo non era normale. Non poteva essere. “Sei fortunato
che le frecce non sono andate tanto in profondità. Hai avuto una fortuna
sfacciata. Tutte e nove le frecce hanno incontrato una costola, e le tue sono
così grosse che sono state appena intaccate. La ferita di spada al fianco non
ha attraversato nessun organo e quelle alle gambe hanno tagliato più stoffa che
carne. Non ho mai visto nulla di simile. La cosa più grave sembra quel colpo di
mazza alla testa. Ma
tanto, dura com’è sono sicuro che non avrà ricevuto danni. Forse tra
cinque sei giorni sarai di nuovo in grado di camminare a tua volontà. Solo stai
attento a non appoggiare la schiena per qualche tempo. Intanto prendi questa
pozione. Ti farà dormire. Ti lascio la tenda, tanto non riuscirò di certo a
dormire qui con tu che russi. Mai vista una cosa così”. Mentre Karas
trangugiava la pozione il guaritore si alzò in piedi per andarsene “oh
guarda, anche la nostra ospite si è alzata. La spalla non avrà problemi, e
tutte le cure di cui hai bisogno sono un lungo periodo di riposo.”
“Grazie…” “E di cosa? È mio dovere aiutare tutti quelli in difficoltà.
Ringrazia loro piuttosto. Tornerò stasera a vedere la tua spalla”. Se ne andò
di buon passo, chiudendo la pelle che faceva da porta. Dopo essere stati in
silenzio per qualche minuto Laenia disse “Non pensavo che foste così tanti.
Dove state andando?” “In nessun posto in particolare. Stiamo cercando un
posto dove stabilirci, magari in maniera permanente, ma finora non abbiamo
trovato un posto abbastanza tranquillo, cioè abbastanza nascosto.” Come
sempre era Gensis che prendeva la parola a nome di tutti gli altri. La pozione
intanto stava facendo effetto, e Karas cadde addormentato, cominciando a russare
fragorosamente. “Siete molto uniti e compatti come gruppo. E anche giovani,
troppo giovani per essere andati in esplorazione. Per quel poco che ho potuto
vedere gli altri vi trattano con uno strano rispetto…” “Allora facevi solo
finta di dormire! E io che ci ero cascato. Ma adesso parliamo di altro, come di
quella volta che…” Leidan cercava di allontanare il discorso da quel punto.
Ma prima che gli altri potessero aiutarlo Laenia disse “Stavo parlando sul
serio. La cosa mi sembrava strana…” “Ed in effetti è più strana di
quanto tu possa immaginare.” Gildis non si era nemmeno accorto di parlare, e
già il fratello finiva la frase “Così strana che noi ne abbiamo parlato solo
poche volte.” Anche lui si stupì di aver parlato. Gensis guardò gli altri,
ricevendo un tacito accordo. Era una fortuna che Karas dormisse. Era quasi
arrivato al punto di impazzire. D’altra parte era quello che aveva rischiato
più di tutti e che li aveva salvati. Ma quell’esperienza aveva lasciato un
marchio profondo dentro la sua anima. Gensis non avrebbe mai saputo quanto
profondo era in realtà questo marchio. Se lo avesse saputo avrebbe non solo
ringraziato il guaritore della sua pozione, ma anche gli Hobgoblin che gli
avevano inflitto quelle ferite che ora lo portavano al sonno. Senza neppure
riconoscere la propria voce incominciò a parlare. “Sono passati ormai molti
anni, cinque per la precisione. Eravamo una decina di ragazzini con due uomini,
stavamo imparando ad andare a caccia, e ci eravamo spinti a nord del villaggio,
per passare una decina di giorni. Era una sorta di prova, per noi. Quando ci
avvicinammo al villaggio gridando dalle capanne il capo ci ordinò di fermarsi.
Era scoppiata un epidemia, e quasi tutti del villaggio erano stati contagiati.
Il capo ci ordinò di andare dai druidi a chiedere un rimedio, dato che eravamo
gli unici sani e che voleva evitare di portare ai druidi la malattia. Solo una
quindicina di persone erano colpite in modo grave, ma necessitavano di una cura
urgentemente per sopravvivere. Partimmo subito per recarci dai druidi, che ci
aiutarono donandoci un unguento che sarebbe stato in grado di debellare la
malattia. Appena arrivati vicino al passo che ci divideva dal villaggio notammo
che un grosso gruppo di orchi lo stava sorvegliando. L’unica via per arrivare
al villaggio escludendo un largo giro che avrebbe occupato tre giorni, fatali
per gli ammalati, era passare per il bosco di Dardenth. Nelle nostre leggende
quello è sempre stato un bosco maledetto. Ma la necessita ci fece rischiare, e
così ci avviammo all’interno di quel bosco oscuro. L’aria era opprimente, e
impediva persino di respirare regolarmente. Pensammo che fosse solo quello il
motivo per cui il bosco era considerato maledetto ed era evitato. Quanto ci
sbagliammo.” La fronte di Gensis era madida di sudore e il suo volto era cupo.
Anche gli altri erano cupi in volto, e persino Leidan aveva perso il suo
costante sorriso sulle labbra. “Continua, ti prego. Cos’è successo dopo?”
“dopo un po’ ci accorgemmo che delle figure ci seguivano ai lati del
sentiero. Erano silenziose e veloci, e non si erano accorti che le avevamo
viste. Pensavamo che fossero i guardiani del bosco, e che se non li attaccavamo
ci avrebbero lasciato passare. Ma ad un certo punto si raggrupparono, pronte ad
attaccare. Prima che lo facessero loro attaccammo noi. Avevamo solo piccoli
archi da caccia adatti alla nostra età e accette per la legna. Gli unici ad
essere bene armati erano gli uomini. Karas era già grande come un uomo, e così
portava un arco da caccia e una grossa ascia bipenne. Tutti noi andammo a segno,
ma altre creature vennero fuori dagli alberi, e solo allora capimmo. Avevamo
davanti a noi quelli che erano stati uomini, elfi e orchi. Ora erano solo
cadaveri e scheletri. Al posto degli occhi avevano una blasfema aura rossa che
riluceva sinistramente nell’oscurità del bosco. Vermi uscivano dalle loro
braccia, e le armi che impugnavano erano consunte dalla ruggine e dall’uso.
Sebbene spaventati combattemmo per la nostra vita e per qualcosa di più. I due
adulti e Karas si addossarono quasi tutto il peso del combattimento, ma loro
erano troppi, e arrivarono fino a noi, che eravamo armati solo di accette per il
corpo a corpo. Quando si avvicinarono a Leidan, Karas quasi impazzì di rabbia.
Si avventò contro di loro caricandoli con la furia di un toro. Era una cosa
incredibile, aveva il volto deformato dalla rabbia. Solo all’idea che se
l’avessero ucciso quelle creature avrebbero trasformato il suo amico in uno di
loro gli aveva dato una forza che nemmeno lui pensava di avere. Ma nonostante
tutto il nostro impegno, prima che riuscissimo a respingerli un adulto era già
morto, e due ragazzi lo seguirono pochi istanti dopo. Dovevamo scappare, ma non
potevamo portare i loro corpi con noi. Piuttosto che diventassero anche loro
creature non-morte li decapitammo, e tagliammo in pezzi i loro corpi…” Le
lacrime sgorgarono dagli occhi a Gensis senza che lui le potesse fermare. Anche
gli altri erano molto scossi. Persino Karas aveva smesso di russare, e si
agitava nel sonno. Poi lentamente Gensis si riprese e continuò con voce
incrinata la storia “Cominciammo a correre, sempre con il timore di rivedere
quelle spaventose creature. Le lacrime ci coprivano gli occhi, e forse per
questo non ci accorgemmo del cambiamento del bosco, che si era fatto più cupo e
più buio, finchè non uscimmo in una radura. Il bosco creava una cupola sulla
radura, tanto che sembrava che fosse notte. Al centro della radura c’era una
pozza di fanghiglia verde, che gorgogliava nel buio con un rumore sinistro,
illuminando la radura di una fosforescente luce verdognola malsana. Uno strano
essere, che a prima vista sembrava un uomo, stava vicino alla pozza recitando
strane parole in una lingua sibilante e a noi sconosciuta. Era alto e magro,
avvolto in un mantello nero, ma appena lo guardammo in faccia ci accorgemmo che
non poteva essere umano, con quella sua faccia la cui carne era morta da tempo e
gli si afflosciava sulle guance, e quegli occhi totalmente bianchi che
sembravano allo stesso tempo un profondo pozzo oscuro. A un cenno delle sue mani
un gruppo di scheletri si avvicinò a noi, mentre lui recitava strane parole in
un’altra lingua ancora, che sembrava una voce mielata ma malvagia sussurrante.
Prima che gli scheletri arrivassero fino a noi, dalle mani dell’essere partì
uno strano raggio verde, che colpì tre ragazzi, che subito cercarono di
tapparsi le orecchie e di urlare. Poi impazzirono del tutto, e cominciarono ad
attaccare tutto quello che si muoveva intorno a loro con una furia
indescrivibile. La fortuna ci aiutò, e si diressero verso gli scheletri,
facendone a pezzi alcuni. Poi l’essere iniziò a ridere, di una risata folle e
priva di ogni allegria e di ogni sentimento umano. Le teste dei tre ragazzi
cominciarono a deformarsi prima di scoppiare con un suono crepitante. Gli ultimi
scheletri rimasti si precipitarono contro l’uomo, che venne circondato,
sostenendo una lotta impari. L’essere intanto si era girato verso di noi, e
ripetè le stesse parole. Il raggio verde avrebbe colpito me e Leidan, ma Karas
ci si frappose. La sua bocca si aprì per urlare, ma non ne uscì alcun suono.
Non impazzì come gli altri, rimase fermo e iniziò a resistere all’essere.
Solo poi ci spiegò che cosa succedeva nella sua mente. L’essere lo
costringeva a vedere immagini atroci, delitti e massacri, credo, ma non volle
mai descriverle. Cercò con tutte le sue forze di resistere. Ad un tratto la
testa dell’essere cominciò a deformarsi, ma lentamente, fino a ingrossarsi.
Ora la faccia dell’essere era tesa dallo spasmo, finchè la sua testa scoppiò.
Immediatamente gli scheletri caddero a terra. Non facemmo nemmeno in tempo a
prendere fiato quando l’avvertimmo. Era una presenza malvagia, al cospetto
della quale tutti gli orrori visti in quel giorno sembravano innocui. Karas si
mise ad urlare. Raccolse l’uomo ferito, che era suo padre e cominciò a
correre attraverso la foresta. Quando arrivammo fuori dal bosco maledetto era
pomeriggio inoltrato. Guadammo di corsa il fiume che divideva il bosco di
Dardenth dagli altri. Le sue acque ci liberarono da un po’ di quel male che
portavamo appeso nel cuore. Non ci fermammo fino ad essere arrivati nel
villaggio. Il padre di Karas morì davanti a sua moglie, dopo aver completato
quello che per loro era un rituale.” Sulla bocca di Gensis si dipinse un
sorriso mesto e senza allegria. “Quando il padre lo portava via da casa la
madre faceva sempre promettere al padre di vegliare su di lui. E sempre lui
appena tornato gli diceva: ho mantenuto la mia parola. Lo disse anche quel
giorno, prima di morire a causa di tutte le sue ferite. Nessun uomo sarebbe
potuto sopravvivere, e solo la forza di volontà lo fece arrivare fino a casa,
nonostante avesse perduto più di metà del suo sangue, avesse i polmoni
trapassati da tre colpi di lancia, tre frecce nello stomaco e numerosi colpi di
spada nelle braccia e nelle gambe. Sua moglie morì di dolore pochi istanti più
tardi. Da allora Karas è sempre vissuto con noi, nelle nostre famiglie. Ma per
lui le conseguenze furono più dure che per tutti noi. Per tre giorni rimase
preda di un delirio, dicendo cose strane con una voce che non era la sua. Gli
capita ancora ogni tanto. La malvagità che ha incontrato non ha prevalso”
-non avrebbe mai saputo quanto ci era andata vicino- “e lui alla fine l’ha
lasciata alle spalle” -ma non sapeva quanto si sbagliava- “ e alla fine
ritornerà del tutto normale” -non lo sarebbe mai stato del tutto normale. La
malvagità che lo aveva colpito era troppo forte, e lui avrebbe portato per
sempre nella sua memoria quello che aveva visto. La sua volontà lo aveva
salvato, ma nessuno sarebbe riuscito a ridargli la normalità. E dopo quello che
gli era successo in seguito normale non poteva più esserlo in ogni senso.-
Queste risposte se le stava dando la sua stessa mente inconsapevole nel sonno. E
come sempre succedeva quando entrava in questo strano stato, in cui sentiva
tutto quello che accadeva intorno a lui nel sonno ricominciarono i ricordi,
ricominciò il dolore alla testa, e all’improvviso ricominciò la voce.
Attorno a Karas gli altri avevano finito di parlare. Tutti erano scossi
dall’aver riportato a galla ricordi sepolti profondamente nelle loro menti. Il
silenzio era un qualcosa di palpabile, quasi vivo, e lo sentivano serpeggiare
tra loro come una cappa. Dopo un po’ Gensis non potè tollerare più il
silenzio e ricominciò a parlare. “è per questo che ci siamo dati da fare,
abbiamo accettato tutti i rischi e tutte le fatiche. Quando saremo pronti
torneremo e lo distruggeremo…” Laenia chiese stupita “Ucciderete chi?”
in quel momento Karas iniziò a parlare, con una voce che non era la sua. Era
melliflua, dolce e subdola al tempo stesso, e cominciò a parlare. Erano sempre
le stesse parole, malvage e ripugnanti come sempre…
“
… cosa è successo? Ho, ma guarda, c’erano ospiti. Che peccato non averli
incontrati. Ma guarda, Troggla. Che stupido, se l’è cercata. Ma guarda qui,
tre nuovi schiavetti. Su, rialzatevi tesorini. Che bello, nuovi giocattoli. Ma
dove sono gli ospiti? Se ne sono già andati via. Che peccato. Ormai saranno
lontani. Ma io ho fame. Oh si, li sento, stanno attraversando il fiume. Che
peccato. Penserò a loro un’altra volta. Oh, cosa c’è, amichetti belli?
Orchi vicino al bosco! Peccato. Gli umani sono più buoni. È più bello farli
soffrire. Ma ho troppa fame, mi dovrò accontentare… Oh, eccoli qui. Senti
come urlano… che divertente, scoppiano come bolle di melma. Oh, che ridicoli,
pensano di potermi ferire con quelle, che carini. Questi me li mangio. Peccato
che non siano umani. Hanno un gusto migliore. Sono già finiti? Pensavo che
fossero di più. Ah, questi erano nascosti. Risvegliamone un pochi, ne abbiamo
persi molti oggi. Dovrò trovare qualcun altro al posto di Troggla. Ma lui potrà
sempre servirmi per gli esperimenti…” i pensieri si accavallavano uno
sull’altro, ma lui non solo sentiva i suoi pensieri ma vedeva anche con i suoi
occhi, sentiva con le sue orecchie… non aveva mai pensato di poter provare
pietà per gli orchi, prima di vedere quello che aveva visto. Si svegliò madido
di sudore, circondato dai suoi amici, preoccupati per lui. Per fortuna era
passata. Era parecchio che la visione non si ripresentava. Si, non poteva
dimenticare. Poteva solo nasconderlo tra le pieghe della sua mente e aspettare
che tornasse fuori. Forse dopo aver distrutto quell’essere sarebbe stato
libero. Forse invece non si sarebbe mai liberato da quell’incubo. “Come ti
senti Karas? Stai meglio?” Karas si girò con calma e guardò la faccia del
suo migliore amico, Leidan, che gli sorrideva, come una carica perennemente
piena di energia e di felicità. Poi guardò i suoi amici. Vide più in
profondità di quanto un altro essere umano poteva guardare. Due volte più a
fondo pensò… Vide solidarietà, amicizia, rispetto, compassione, amore…Vide
giovinezza e allegria, bontà e decisione. Sì, erano loro ad averlo salvato.
Due volte, ma una in particolare. Forse un giorno li avrebbe spiegato tutto, ma
non adesso, sì, non adesso…
All’assemblea
erano presenti tutti i capi dei clan familiari che componevano la tribù, che in
tutto erano una ventina, il capo di tutta la tribù, i membri da lui chiamati.
Tutto a torno stavano radunati i guerrieri. Mentre il capo parlava Laenia
pensava a tutto quello che aveva visto in quella settimana al campo dei barbari.
Altri tre grossi gruppi di Hobgoblin erano giunti nella zona, ma i barbari se
l’erano cavata solo con qualche ferito. Gli Hobgoblin infatti non si
aspettavano di incontrare un gruppo così numeroso, e i cavalieri impedivano che
qualcuno di loro potesse tornare vivo ad avvisare agli altri la loro presenza.
Ma ormai era chiaro che quella zona era fortemente popolata da umanoidi, e non
era lì che la tribù voleva dirigersi “Non abbiamo lasciato la nostra casa
per andare incontro ad un pericolo maggiore. Ci dirigeremo da un'altra
parte…” mentre il capo parlava Laenia prese la sua decisione. Non aveva
certo la piena autorità per fare quello che stava facendo, ma sapeva che
l’avrebbero capita. Questa poteva essere contemporaneamente un soluzione a un
grave problema della sua gente e un’occasione per ripagare tutto quello che
avevano fatto per lei…presa la decisione si alzò in piedi e incominciò a
parlare “so di non avere alcuna autorità per parlare in questa assemblea, ma
penso di potervi essere d’aiuto. Il nostro regno non è distante da qui, e
confina con una colonia dei nani. Tra le nostre razze non corre buon sangue, e
così abbiamo lasciato una vallata di divisione tra i nostri territori. Se voi
vi stabiliste li potrete controllare che nessuno sconfini, e inoltre la vallata
è nascosta e ha una sola apertura, e quindi è facilmente difendibile. E poi
tra nani e umani non ci sono mai stati contrasti, così anche loro accetteranno
di buon grado questa soluzione, e potreste ricavare aiuto reciproco da questa
soluzione. In cambio dovreste solo giurare alleanza sia con noi sia con i
nani.” Il capo ascoltò con attenzione e interesse. Le prospettive erano più
che soddisfacenti. Così avrebbero avuto in un solo colpo una patria sicura e
dei potenti alleati… “La tua proposta è generosa, ma dobbiamo parlarne tra
noi” anche se ho già deciso, pensò “ti daremo la risposta alla fine
dell’assemblea.
Quando
l’assemblea finì vennero chiamati Gensis e i suoi compagni insieme a Laenia.
Il capo iniziò a parlare “siamo sicuri di raggiungere un accordo…” Laenia
annuiva, sperando che il capo giungesse presto alla conclusione “perciò
abbiamo deciso di accettare. Ti affideremo un gruppo dei nostri affinché ti
accompagni per prendere gli ultimi accordi…” E intanto Gensis pensava “e
indovina chi manderanno?” Quasi a conferma il capo si girò verso di lui.
“Dopotutto non mi dispiace” pensava Gensis…
Lainon