Il
Lontano orizzonte
Non è mai stato facile parlare di sé, e forse è ancora più difficile parlare persone che ora non ci sono più senza offenderne la memoria. Eppure quello che voglio fare oggi è proprio questo: raccontare di un amico che per un tempo discretamente lungo ha camminato con me lungo i sentieri della vita.
Non pensate che questa sia la sua biografia spiccia, magari arricchita da qualche tratto leggendario. Nulla di tutto ciò. Questo è un semplice racconto, una favola ispirata dalla sua memoria, dalla sua presenza al mio fianco. Eppure, anche se inventata, questa storia parla di lui, di me, di parte della nostra vita. Perciò, se vi garba, sedetevi ed ascoltate ciò che un viandante è in grado di narrarvi.
Il Lontano Orizzonte
ovvero
La Prima Leggenda di Naïlo della Forca
Parte Prima
Capitolo Primo
Raven aveva conosciuto la vita su uno dei rami più bassi della quercia secolare, inspirando le prime boccate d'aria avvolto dall'oscurità della notte. Tutta la foresta era avviluppata in un silenzio innaturale, appena rotto da brevi rumori di due becchi che cozzavano lievemente tra loro. La madre del corvo non si curò del timore o del disprezzo che gli altri animali nutrivano per il figlio, imboccandolo con l'unico alimento che questi avrebbe mai potuto mangiare da quel momento sino alla fine dei suoi giorni. Una volta terminato il pasto, la notte sopì ogni cosa, avvolgendo piante, animali e uomini in un dolce manto ovattato.
Il sole nascente alla propria sinistra, il corvo volava sospeso tra gli ultimi languori della notte e i primi bagliori del mattino, dove il tramonto si specchiava promettendo già alle prime luci dell'alba il nero conforto della notte. Rivolto a mezzogiorno, verso la foresta che aveva tollerato la sua presenza per oltre un secolo, l'uccello si rifugiò tra le fronde dello scheletro dell'unico albero che lo aveva mai voluto accogliere, l'albero al quale era stata impiccata sua madre molti anni prima, per mano degli abitanti dei villaggi vicini. L'antica quercia secolare, un tempo gemma custodita gelosamente al centro del bosco, era stata deturpata e stuprata per avere commesso il solo crimine di essere stata l'unica tana del corvo sin dall'inizio dei suoi giorni, era stata processata e condannata per il solo motivo di essere l'unica creatura vivente a non averlo rigettato. I contadini, i soldati, tutti coloro che avevano potuto si erano scagliati contro l'albero, cercando dapprima di tagliarne le radici e, non contenti di ciò che già avevano fatto, bruciandolo brutalmente in una pira oscena. Era accorso persino qualche ragazzino, armato di roncola, per seviziarlo ulteriormente, durante gli ultimi momenti della straziante agonia. Il corvo era costretto a non fuggire ma, impotente, aveva osservato lo scempio fuori dalla portata delle lance e delle frecce. Sua madre, che era già stata catturata da tempo, fu seviziata allo stesso modo della pianta e quindi impiccata sui rami della sua stessa quercia, della quercia alla quale era legata dall'indissolubile vincolo delle Driadi.
Così, discendente di una genia di mutaforma, nato dall'unione proibita di due mondi sempre più estranei l'uno all'altro, Raven il corvo era il solo rimasto a testimoniare silenziosamente il legame che avrebbe potuto unire gli Umani alle altre Razze, ormai in via d'estinzione. Il solo mutaforma a non avere che un solo vincolo. Quello del cibo.
Raven non aveva mai capito se si fosse trattato di una benedizione durata una sola notte o di una maledizione covata a lungo in grembo, ma ormai non aveva molto più senso domandarselo: la sua vita era stata decisa da un Altro, e lui non aveva alcuna intenzione di gettarla al vento come pula senza valore. Durante i suoi primi anni di vita, ancora pieno di innocenza, si era stupito della solitudine in cui veniva relegato tra gli altri animali, o tra gli uomini stessi, ma con la morte della madre parecchie cose iniziarono ad essergli più chiare, a partire dall'odio che immancabilmente ogni essere vivente provava verso di lui. Dopo molta osservazione Raven si dovette arrendere, seppure con pena, alla mera evidenza: la repulsione nei suoi confronti era una sorta di obbligo per le altre creature di qualsiasi specie, razza o inclinazione di pensiero. Nonostante gli innumerevoli approcci che aveva tentato, in ogni modo possibile a pressoché qualsiasi essere senziente, nessuno riusciva ad evitare di guardarlo di traverso ed allontanarlo il prima possibile. L'aspetto fisico del ragazzo non giocava in suo favore ma, al contrario, molto spesso gli aveva procurato più problemi di quanti non avesse potuto risolvergliene. Di altezza leggermente inferiore alla media, Raven aveva una folta chioma di capelli lisci e neri, lucenti come le penne di un corvo, e due profondi occhi rosso sangue che gli conferivano un'aria malvagia se non demoniaca. Nessuno si era mai dato la pena di scrutare nelle profondità di quei due soli morenti incastonati appena sotto la sua fronte, preferendo dare fiducia alla prima impressione, prendendo cioè le distanze dal ragazzo. Non c'era stato uomo, donna o bambino sino a quel momento ad aver fatto eccezione.
Così accadeva anche tra gli animali, che non si sarebbero mai avvicinati al corvo per nessun motivo al mondo, preferendo evitare i luoghi che frequentava anche a costo di lunghe attese per abbeverarsi o per cibarsi. Nulla era valso a Raven l'attendere per ore al ruscello dove di solito si svolgeva una processione quasi ininterrotta di fiere e volatili: sia che il ragazzo avesse assunto forma umana sia che avesse preso le sembianze di corvo nessuna forma di vita osava o voleva avvicinarglisi. Annichilito da quest'ultimo segno di palese avversione, il mutaforma aveva conosciuto il suo destino, inciso a fuoco nelle stelle.
Così, immerso nella solitudine, Raven il corvo riposava tra le braccia accoglienti di un albero morto, sazio e raccapricciato dopo un macabro pasto alla quale pietanza principale ed unica non si era mai adattato. Raven l'umano si vergognava profondamente dell'unico vincolo lasciatogli in dote dalla madre, ma non avrebbe potuto fare altro che convivere con esso: quella metà di sangue mutaforma e l'istinto di sopravvivenza lo avevano portato, con gli anni, non ad adattarcisi, ma almeno a sopportarlo. In ogni caso sarebbe stato impossibile vedere il corvo in cerca di cibo se non quando era strettamente necessario: talvolta egli digiunava per parecchi giorni piuttosto che avvicinarsi ad un nuovo macabro banchetto, ma alla fine la fame e l'istinto di conservazione avevano il sopravvento sulla ragione, spingendolo nuovamente a solcare i cieli in cerca di una nuova preda o, più spesso, di una nuova esecuzione.
Il corvo era ormai tristemente famoso nei villaggi limitrofi alla foresta, ed era stato considerato sin dalla sua infanzia come un presagio di morte e sventura. Le sue apparizioni erano saltuariamente legate a pestilenze, epidemie o carestie, ma sembrava che non mancasse mai ad un appuntamento fisso: le impiccagioni dei criminali. Quando in un paese veniva decisa un'esecuzione, lui lo veniva a sapere. Sempre. Infallibilmente. Nessuno aveva idea di come potesse conoscere la data esatta di ogni condanna a morte, ma ogni volta, immancabilmente, lui arrivava. I prigionieri che lo vedevano mentre venivano condotti al patibolo imploravano il boia per una morte rapida ma, senza fallo, durante la lettura dei capi d'accusa, per quanto brevi che fossero, il corvo si posava sul braccio della forca o, più raramente, sulla spalla del condannato che, invano, cercava di scacciarlo, terrorizzato e ormai consapevole di cosa la sua presenza avesse voluto significare. Pochi istanti prima che il boia eseguisse la sentenza, l'uccello affondava il suo becco nel suo cibo ancora caldo, provocando le urla strazianti della sua vittima e l'orrore di tutta la folla, che non osava cercare di scacciarlo per evitare di colpire con lance o frecce il condannato. Così Raven aveva tutto il tempo di saziarsi al suo raccapricciante banchetto, sempre accompagnato da ingiurie e grida di dolore. Invano il mutaforma cercava, sia nel giungere in un villaggio sia nel levarsi verso la propria dimora, un volto non ostile o uno sguardo di comprensione, senza però averlo mai trovato. E così gli anni del corvo passavano senza effetto sul suo corpo longevo, ma spingendo sempre più caduche e brevi generazioni di umani ad odiarlo.
Troppo spesso per entrambe le sue nature il corvo aveva pensato a togliersi la vita, lasciandosi morire di fame o cercando la fine per mano di coloro che, agitati da un desiderio improvviso, battevano il bosco per ucciderlo. Eppure Raven non si sentiva in diritto di lasciarsi ammazzare, né tantomeno di suicidarsi, non più di quanto si sarebbe sentito in diritto di recare danno ad uno solo dei suoi cacciatori, pur avendone talvolta la possibilità. Non sarebbe stato difficile assumere sembianze umane e, con l'equipaggiamento perso nella foresta da qualche umano o raccolto dai rari cadaveri che il mutaforma riusciva a trovare, togliere la vita ad un incauto contadino che si era spinto troppo distante dai compagni, ma Raven si vergognava di sé solamente a pensarlo. Di indole pacifica per nascita, rimpiangeva solo di non essere riuscito ad aiutare la madre, combattendo al suo fianco allora. La sua tenera età non gli avrebbe permesso di essere veramente d'aiuto, nel fortuito caso in cui la sua presenza non avesse costituito un intralcio alla driade.
Così, il corvo continuava ad aggirarsi tormentato nella foresta, che negli anni aveva assunto la fama di essere una zona maledetta ed utilizzata dalle streghe per i loro riti con il Diavolo. Ormai, anche se avesse assunto forma umana, Raven non avrebbe corso nessun rischio di essere notato, al riparo del suo deserto bosco. Sempre più raramente dei temerari o dei folli si aggiravano tra gli alberi secolari, in cerca di un indizio della presenza del corvo, e i racconti di creature stregate dagli occhi di fiamme e tenebra suggestionavano sempre di più gli abitanti dei villaggi vicini, dando origine a migliaia di leggende sulla vera natura del mutaforma. Dimenticando quello che era stato, alcuni iniziarono a pensare che dietro le spoglie animali si celasse un demone pronto a portare l'Inferno sulla terra, altri cedettero che un potente mago avesse deciso di entrare in quel corpo maledetto, e che con i suoi incanti godesse nel provocare dolore altrui. Le anime semplici erano quelle più suggestionate da storie simili a queste, e presto si sentirono minacciate fino a sfiorare la paranoia. Preti e chierici si insediarono nelle cittadine per riportare un po' di pace alla popolazione, e, di riflesso, i paesi si ingrandirono, le strade crebbero in numero ed importanza, la milizia migliorò il proprio addestramento, tutto per far fronte a questa minaccia invisibile. I villaggi, ormai piccole città, prosperarono sotto l'ala tenebrosa della paura, mentre a nulla era valso cercare di abolire le impiccagioni nel disperato tentativo di bandire per sempre il corvo dai centri abitati. Qualsiasi fosse stato il metodo di esecuzione dei criminali, il corvo giungeva sempre quando questi erano in fin di vita, privandoli della vista della luce un attimo prima della loro morte. Anche se i condannati erano in compagnia di un sacerdote che cercava di esorcizzare il Demone, il corvo aveva continuato indifferente il suo macabro banchetto, sotto gli occhi increduli ed inorriditi dei membri del clero. A nulla erano valse le preghiere comunitarie, i digiuni e le penitenze: la Bestia della Notte, come era stato ribattezzato il mutaforma, era sempre in agguato, puntuale come la Morte.
Raven rise amaramente a questo nuovo soprannome, conscio di come ogni nuovo giorno di caccia lo portasse sempre più lontano dal mondo degli umani, che ormai sembravano temerlo al pari del Diavolo o dell'Inferno. Ora anche della Morte, che non faceva mai differenze tra credenti ed atei, tra umili di cuore e presuntuosi pieni di sé. Neppure il ricco o il primo cittadino nelle loro sfarzosa dimore potevano sfuggire al suo tocco fatale, ed ora anche loro tremavano al suono del nome del corvo, alla sua vista. In certi casi la paranoia era giunta a tal punto da bloccare interamente certe zone della città, allarmate da predicatori folli che annunciavano sventura al minimo sventolare di qualsiasi oggetto nero nell'aria.
Capitolo Secondo
Raven era stufo ed amareggiato. Amareggiato dal non poter convivere con gli altri esseri viventi, stufo di nascondersi perché un intero villaggio potesse conoscere la pace per pochi giorni, stufo ed amareggiato di piangersi addosso in continuazione per le sue disgrazie.
Sferrando un violento pugno al terreno, cercò invano di scaricare la frustrazione che stava crescendo in lui, ma non trovò tutta la liberazione che cercava. Mettendosi a vagare per la foresta, come molte volte aveva già fatto nei momenti più cupi, rivolse gli occhi al cielo, alla luna che illuminava a tratti il suo inconcludente cammino. La sua mente prese a vagare, ricordando la giornata appena trascorsa e richiamando amare lacrime ai suoi occhi. Anche se aveva smesso di piangere ormai da anni, Raven non riuscì a trattenersi per la seconda volta nell'arco di poche ore.
Quella mattina era stato accolto ancora una volta con fischi, grida di terrore e odio dagli abitanti del paese dove era stato costretto a cercare di che sfamarsi, ma quella volta la macabra ed aborrita routine del pasto fu piacevolmente interrotta: dalla spalla del condannato, da dove attendeva paziente gli ultimi attimi della vita dell'uomo appeso al cappio, egli aveva scorto chiaramente uno sguardo amichevole diretto verso di lui. Ritornando sul volto che lo aveva colpito, inconfondibile tra la prima fila dei presenti, si era accorto di non essersi sbagliato, di aver realmente trovato una persona che gli stava dimostrando un barlume d'affetto. La bambina, che non avrà avuto più di otto o nove anni, gli stava tendendo la mano, come per invitarlo a raggiungerla. Illuminato da quello sguardo e dall'unico sorriso che gli era stato rivolto da un umano, lui si era staccato dal suo macabro trespolo, per dirigersi verso il dito che la piccola gli stava mostrando, per posarsi su quella innocente carne non condannata dal pregiudizio. Aveva già iniziato a planare verso quell'accogliente riparo che si sentì violentemente percosso da una mano inclemente e impietosa, quindi una moltitudine di colpi cercò di abbattersi su di lui. Velocemente si era levato in volo, senza mancare di nutrirsi appena da non soffrire i morsi della fame, quindi era subito fuggito verso le fronde del suo bosco, versando lacrime brucianti di dolore. Voltatosi indietro per un ultimo sguardo, riuscì a notare con la coda dell'occhio la bambina che lo aveva spinto ad avvicinarsi alla folla. Era in lacrime, ferocemente rimproverata dal padre.
Quando anche quest'ultima scena fu rivissuta da Raven, il mutaforma sentì riaccendersi in lui quelle stesse sensazioni che lo avevano colto mentre trascorrevano quegli indimenticabili momenti. Dapprima si era sentito riempire di una sensazione mai provata prima, che riuscì solamente a chiamare amore, quindi si sentì tradito illegittimamente da chi non avrebbe dovuto avere il potere di avvicinarlo alla bambina, per poi riconoscere i sentimenti che animavano gli uomini che lo avevano colpito: odio cieco e terrore nei suoi confronti. Molti di loro non avevano più di trent'anni, contro i quasi centotrenta di Raven, ma le leggende che erano state insegnate loro sin dall'infanzia ed i pregiudizi inculcati con ogni mezzo in quelle giovani menti avevano portato le nuove generazioni di umani a respingerlo con la stessa intensità dei loro progenitori, se non maggiore. Il mutaforma era allibito dalla facilità con cui le idee degli uomini erano portate a conformarsi a quelle che si spacciavano loro come verità assoluta, senza che nessuno si curasse di ciò che veramente corrispondeva alla realtà. Probabilmente era un fatto di superstizione, ignoranza e convenienza, radunate in un mix letale: poteva capitare che anche gli stessi messaggi del clero venissero distorti ed accettati solo per quel che faceva comodo alla popolazione. Molto spesso il corvo aveva sentito i predicatori ed i preti dei vari villaggi mentre parlavano alla gente, ed era stato colpito dalla praticità del messaggio che portavano, un messaggio di speranza per tutti, che all'atto pratico sembrava invece riservato ai soli appartenenti alla razza umana, escludendo completamente gli altri esseri viventi. O, talvolta, escludendo pure altre nazioni di uomini. A riprova di ciò Raven aveva avuto molti sentori di guerra all'ovest, portati dal vento insieme ai lamenti dei caduti, e non capiva come la lotta e lo sterminio potessero rientrare in questo disegno di felicità e salvezza. Con il tempo si era convinto che, al par suo, molti dei sacerdoti non riuscissero a concepire l'uso della violenza verso altri esseri senzienti, e anzi molti di loro insistevano nel condannarla, ciò nonostante da qualche altra parte del mondo si combatteva e si ammazzava impunemente, e sia il mutaforma che gli umani lo sapevano. E a questi ultimi sembrava che la situazione non creasse molti problemi, nonostante i continui richiami del clero a queste situazioni. Talvolta Raven aveva scorto ed osservato con interesse un predicatore missionario incamminarsi oltre l'orizzonte, portando come dono per il prossimo la speranza e la pace. Lo sguardo sul volto di quegli uomini che si votavano all'Ideale che li sosteneva era felice.
La notte trascorse tormentata per il corvo, nonostante lo scheletrico abbraccio della quercia lo consolasse come ogni giorno. Immagini sovrapposte di odio gli affollavano ogni respiro, ma sopra a tutto questo odio c'era il volto di una bambina, che confondeva gli sguardi degli uomini e che incantava gli occhi del corvo, occhi rubati a mille e mille altri cadaveri, mangiati a miriadi di uomini in procinto di morire. Raven non riusciva a sopportate l'innocenza della fanciulla, e si sentiva macchiato di una colpa indegna di redenzione. La piccola lo sapeva, eppure non lo condannava per il marchio della sua duplice natura, ma lo giudicava per la gentilezza dei suoi occhi e dell'animo che vi scorgeva riflesso.
Il corvo si svegliò di soprassalto, turbato dalla profondità del sogno che si era appena terminato. Visioni impossibili da spiegare a parole avevano toccato la sua mente, lasciando una cicatrice che chiedeva a gran voce di essere sanata. Il desiderio che da tempo si era svegliato nel mutaforma assunse la proporzione di un grido imperante, a cui Raven non poteva né voleva resistere. Il corvo si levò in volo nella semioscurità dell'alba, rincorrendo la notte morente.
Dapprima nessuno voleva credere alla notizia che pian piano si era sparsa tra i paesi, ma nel giro di pochi anni ci si dovette arrendere all'evidenza che la Bestia della Notte, il Demone, l'incarnazione della Morte aveva lasciato la sua foresta e, con essa, i suoi appuntamenti con i condannati. Quando la notizia giunse sotto forma ufficiale, confermata dalle più alte cariche pubbliche ed ecclesiastiche, tutta la regione si riunì in festa, e presto la storia del corvo divenne una legenda ricordata con rispetto e timore, ricordata ai bambini come spauracchio, ormai al pari dell'uomo nero. Numerose favole nacquero attorno alla figura del corvo, racconti per cercare di esorcizzare la paura legata a malattie o misteriose sparizioni, ma senza la sua presenza fisica la Bestia della Notte veniva ormai considerato uno spettro nella notte, da dove aveva raggiunto l'innocua schiera delle streghe e dei demoni. Le nuove generazioni guardavano con sempre meno curiosità a queste leggende, ascoltandole come se fossero state storie di paura di qualità mediocre, riferite dai ragazzi più grandi per cercare di farli spaventare. Tutto ciò perdurò sino al giorno in cui anche questi espedienti sconfinarono nel noioso e ripetitivo, e la memoria del corvo cadde nel più profondo oblio.
Parte Seconda
Capitolo Terzo
La pioggia cadeva battente a filo di piombo sul selciato della piazza, mentre un nuovo malfattore stava per essere assicurato alla giustizia. Mille occhi o poco più erano fissi su di lui, mentre altrove chi non voleva o poteva permettersi di perdere anche solo poche ore di lavoro era impegnato alacremente nella propria attività.
Due guardie precedevano il condannato, legato saldamente ad una robusta corda, non troppo stretta per evitare di bloccare la circolazione sanguigna nelle mani e nei piedi. Dietro di lui il boia incappucciato, pronto a compiere il dovere per cui era stato pagato, e due guardie a chiudere il passo, per maggior sicurezza. E per rendere scenografica l'esecuzione, pensò qualcuno tra la folla.
Lentamente la piccola processione salì sulle travi bagnate del palco, accompagnata da un coro di scricchiolii del legno. Un prete venne invitato a comunicare il criminale qualora si fosse pentito: durante il piccolo rito nessuno tra i presenti prestò attenzione al condannato: pressoché tutti erano intenti a chiacchierare del tempo piuttosto che del raccolto, ignorando completamente l'ultimo atto di clemenza della società nei confronti del fuorilegge. Solamente un bambino teneva gli occhi fissi sulla forca, impressionato dal macabro rituale. Sua madre, una donna di appena ventisette anni, lo teneva per le spalle, facendogli percepire la sua presenza in modo che il figlio non si sentisse eccessivamente solo in quella cruenta situazione. Anche lei, alla stessa età del figlio, aveva assistito ad un'esecuzione per volere di suo padre, "affinché il suo animo ne venisse temprato" aveva detto lui. E da quel giorno la giovane donna aveva portato con sé memoria dell'immensa crudeltà dell'uomo. Così avrebbe fatto anche il suo bambino: se fosse stato fortunato avrebbe serbato in eterno lo stesso ricordo che lei portava inciso nel cuore. A distanza di diciannove anni non molto era riuscito a cambiare nella società, nonostante le parole speranzose dei monaci o dei sacerdoti, nonché quelle rassicuranti dei politici.
Non che tutto fosse così male, però c'erano diversi difetti nell'organizzazione del villaggio, secondo la ragazza. E uno dei primi era che una donna non potesse avere un'occupazione rispettabile come tutte le altre, se non in casi veramente particolari, dietro permesso. Anche se lei non avrebbe mai pensato di mettersi a lavorare con un figlio così piccolo da istruire, la morte del marito l'aveva spinta, volente o nolente, trovarsi un'occupazione per potersi permettere un tenore di vita appena passabile. La giovane donna preferì evitare di ricordare tutta la trafila burocratica a cui aveva dovuto sottostare per poter ottenere l'agognata autorizzazione a "svolgere attività lavorative dietro compenso", ma era felice di aver saputo tener testa sia ai funzionari più noiosi sia alle avversità che aveva dovuto affrontare per mandare avanti una casa senza un salario fisso su cui contare.
Ritornando al presente, la ragazza osservò il boia durante la preparazione del cappio della forca, nei momenti in cui con mano esperta egli cingeva il collo del condannato con la robusta corda, facendo però attenzione che questi non si potesse accidentalmente rompere qualche vertebra nel salire sullo sgabello bagnato e scivoloso. Quando l'intera operazione fu compiuta, le autorità giudiziarie enunciarono pubblicamente i sommi capi d'accusa, quindi si poté procedere con l'esecuzione, che ebbe compimento in pochi interminabili attimi.
Il corpo del criminale stava penzolando ritmico, mentre il suo volto stava lentamente diventando gonfio e cianotico per mancanza d'aria. Contorto in un'orrenda smorfia, entro pochi minuti l'uomo sarebbe morto. Il bambino si sentì stringere il cuore alla vista di un suo simile ucciso con così tanta brutale efficacia, ma la presenza della madre alle sue spalle lo rassicurava abbastanza da non fargli versare una lacrima. Anche se il suo pianto sarebbe stato mascherato dalla pioggia battente, lui non voleva essere debole. Sua mamma gli aveva raccontato che lei alla sua prima impiccagione non aveva pianto, e lui non voleva essere da meno. Fino all'ultimo momento tenne lo sguardo fisso sull'uomo morente, quindi, al voltarsi della madre, la seguì docilmente, orgoglioso di sé.
La ragazza stava piangendo silenziosamente, mascherata dalla pioggia.
I cadaveri venivano lasciati esposti per un'intera giornata, quindi seppelliti in una fossa comune riservata a tutti i criminali, prima di mezzogiorno del giorno successivo a quello della loro esecuzione. Il becchino aveva deciso di mandare il garzone a "fare il lavoro", quella volta, e rimase in bottega ad aspettare potenziali clienti. All'improvviso sentì la porta di servizio sbattere violentemente, e si trovò davanti il suo apprendista, trafelato dopo una lunga corsa, e con gli occhi sconvolti di chi abbia visto il Diavolo in volto. Cercando di spiegarsi a gesti, infine il ragazzo riuscì a trascinare il suo padrone sino in piazza, dove penzolava ancora il criminale impiccato. Vedendo che il garzone non proseguiva oltre, il becchino si avvicinò al cadavere, non senza aver lanciato un'occhiata sprezzante al ragazzo. Dopo pochi passi però si fermò, indicando terrorizzato il volto freddo e pallido del morto. Le sue orbite erano state scavate, ed il prezioso tesoro ivi contenuto era stato trafugato. Sotto ognuno degli occhi scavati del cadavere si potevano chiaramente vedere tre piccoli segni rossi, come le zampe di un piccolo uccello.
Entro quella stessa sera in ogni villaggio si era già sparsa la voce che il corvo era tornato.
C'era chi diceva di averlo visto di persona scrutando nel cielo, altri che riconoscevano nei presunti "segni nefasti" che si erano verificati in quei giorni un avvertimento del suo ritorno, ogni sorta di storia venne creata sul ritorno del corvo. La paura, da tempo così lontana, di nuovo ebbe un corpo fisico, ed il corvo ritornò ad essere il principale capro espiatorio nel raggio di molte miglia. Ogni minima difficoltà veniva attribuita al suo intervento malefico, ogni disgrazia alle sue malvagie fatture. I pochi che non credevano nella sua presenza venivano considerati alla stregua di matti, mentre gli altri ritenevano che fosse proprio quello scetticismo ad aver attirato nuove disgrazie sui loro villaggi.
Per fortuna del corvo, i condannati non scarseggiavano mai. Durante il suo lungo viaggio aveva incontrato molti popoli, ma man mano che procedeva nel suo cammino, trovava sempre più difficile trovare di che cibarsi. Svariate volte aveva provato a sostituire alla sua solita pietanza il cibo tipico degli uccelli, ma non era riuscito neppure ad ingerirne un boccone, per quanti tentativi avesse fatto. Aveva cercato di resistere il più possibile tra un pasto ed un altro, insegnando al suo corpo a sopportare la fame ed il sonno ma, come era ovvio, anche il suo organismo aveva un limite. E così, dopo diciannove anni, Raven aveva deciso di tornare. Dove il suo viaggio lo aveva fatto sostare per dei mesi, degli anni interi, in una notte ognuno di quei posti fu superato e lasciato alle spalle con un battito di ali. Un desiderio ben più forte di quello di un sicuro terreno di caccia spingeva il mutaforma, uno sguardo lo spingeva ad affrettarsi come mai aveva fatto. In una breve notte estiva si lasciò alle spalle luoghi che gli erano divenuti familiari, per tornare alla sua vera casa, nel luogo dove aveva lasciato il cuore.
Così, di quando in quando, il corvo appariva durante un'esecuzione, si cibava del suo macabro banchetto e quindi ritornava alla sua tana, seminando seppur involontariamente astio e timore tra le folle di umani. Nonostante le sue apparizioni fossero molto più rade rispetto ai tempi precedenti la sua partenza, anche quelle poche visite ebbero diverse conseguenze tra la popolazione: chi avanzò nuovamente l'idea di abolire le esecuzioni pubbliche, senza successo, chi propose nuove battute di caccia nella foresta, senza trovare l'appoggio necessario, altri cercarono di ripercorrere strade già tentate dai loro genitori, non ottenendo maggior successo di loro.
L'unica cosa che veramente cambiò fu che una giovane donna e suo figlio iniziarono a frequentare regolarmente le impiccagioni.
Capitolo Quarto
Un altro bagno di folla, sempre in prima fila, talvolta era proprio il figlio a chiederle di poter assistere alle esecuzioni dei condannati, per non dimenticare ciò che lui non avrebbe mai voluto essere. Il suo bambino aveva sempre gli occhi fissi sul volto del criminale, trattenendo a stento le lacrime, mentre lei ormai non riusciva più a vedere nulla di nuovo nel brutale rito della legge. Un sottile velo di lacrime le confondeva la scena, sempre uguale e ogni volta diversa, svuotandola di ogni minima scintilla di vita. Molti uomini, che la corteggiavano più o meno spudoratamente, non riuscivano a spiegarsi questa sua tristezza, e cercavano ogni volta che la vedevano di carpire il segreto che ella conservava gelosamente, ottenendo solamente gelide risposte, le ultime parole che lei rivolgeva loro. Pian piano iniziarono a circolare delle maldicenze sul conto della giovane, ma i pochi che potevano vantarsi di conoscerla bene erano sempre pronti a smentire tutte le malvagità che la gente si inventava su di lei. Dato che il corvo non era più tornato a fare visita al villaggio, dopo quella prima notte, gli abitanti sfogavano la loro tensione sparlando della ragazza che, dal canto suo, sembrava indifferente a tutto il chiacchiericcio che si faceva su di lei. Le sue uniche preoccupazioni sembravano solo quella di fare bene il proprio lavoro e di non mancare a nessuna esecuzione.
Raven si stiracchiò indolente, inspirando la fresca aria di una mattina di primavera. Il tripudio di colori, fiori e foglie attorno a lui non era in grado di toccare il suo cuore, ma il ritmico pulsare della vita lo inebriava più di un forte liquore. Persino il tronco morto della sua quercia sembrava pervaso di linfa, come se fosse sul punto di gettare dei nuovi germogli. Il mutaforma sfiorò l'albero rinsecchito, quindi, assunte le sembianze di corvo, si diresse verso un villaggio per saziare il suo stomaco, che già da parecchio tempo lo implorava di saziare la sua fame. Accompagnato dal vento nel suo breve viaggio, l'uccello si sentì vibrare nell'immensa armonia che permeava la terra, i campi e le creature che li popolavano. Per uno dei momenti più lunghi della sua vita, Raven non si sentì fuori posto.
Verso il mezzogiorno, come al solito, una condanna stava per essere eseguita, ed il corvo giunse puntuale al suo appuntamento con la Morte. Frenando il suo istinto, attese che il boia ebbe tirato la corda, quindi si cibò nel silenzio, quando già il criminale penzolava incosciente dalla forca. Sazio, spiccò il volo dal suo improvvisato trespolo, ma quando, in procinto di andarsene, vide una scena nota svolgersi di fronte ai propri occhi, si bloccò a mezz'aria, incredulo a ciò che stava nuovamente accadendo. Un bambino gli stava tendendo la mano, tra lo sgomento della folla, mentre la madre guardava la scena sorridente. Ancora una volta Raven si sentì riempire da quello sguardo di affetto, ritornando con la mente ad un episodio passato che aveva conservato intonso nel ricordo. Tutto si stava svolgendo secondo quell'antico copione, ed il corvo fu scosso dal timore che il passato fosse tornato a tormentarlo, preludio sulla terra di quello che sarebbe accaduto nell'oltremondo. Osservando bene la scena, si accorse però che qualcosa era diverso rispetto ad allora, e tornò ad osservare la giovane donna alle spalle del bambino. La ragazza aveva un'aria nota, ma il corvo non riuscì a capire da dove potesse derivare questa sensazione.
La folla si era aspettata che il corvo si allontanasse come in ogni altra occasione, ma al vederlo svolazzare in cerchi concentrici sopra la forca un moto di timore scosse tutti i presenti, ed in breve la piazza si svuotò quasi completamente. Rimasero solamente il bambino, sua madre ed il boia, ancora intento a sorvegliare il condannato, per accertarsi della sua morte. La ragazza era oppressa dall'angoscia e dal timore che il corvo decidesse di andarsene, ma cercò di trattenersi dal piangere, al contrario di quella volta parecchi anni prima. Suo figlio stava tendendo la mano all'uccello, invitandolo con parole dolci ad avvicinarsi, ma quello sembrava sordo alle sue richieste.
Continuando a volteggiare al di sopra del morto, Raven percepì il vivo desiderio del bambino, ma aveva paura di essere nuovamente rifiutato dai pregiudizi della madre e, combattuto tra due volontà contrastanti, non riusciva a risolversi per realizzarne una. Infine giunse ad una decisione ma, voltandosi un'ultima volta prima di fuggire verso il folto della sua foresta, incrociò lo sguardo della ragazza e fissò per qualche istante i suoi occhi, che si stavano velando di lacrime. In un breve attimo tutto si fece chiaro nella mente di Raven, che riconobbe nella donna la bambina che anni prima lo aveva incantato con la dolcezza del suo sguardo. Lasciando il suo precedente proposito, il corvo planò dolcemente appollaiandosi sulla mano del ragazzino, ma questa volta la mano adulta si posò delicata sul suo corpo, accarezzandolo con gentilezza. La giovane donna sorrise, tra rinnovate lacrime di gioia.
Un pesante incanto sembrava stato spezzato: il mutaforma non aveva mai provato il piacere della vicinanza di esseri umani, e nessun altro vivente aveva mai desiderato la compagnia del corvo. Non c'erano parole per esprimere la gioia di Raven, e neppure quella della donna, che, sin da quando aveva incrociato i suoi fiammeggianti occhi diciannove anni prima, era stata rapita dall'innaturale gentilezza del suo sguardo. I tre percorsero in silenzio il tragitto che li separava dalla casa della piccola famiglia, quindi si ritirarono al sicuro delle piccole mura di legno. Il bambino chiuse le finestre per evitare che l'uccello scappasse, quindi cercò un oggetto che potesse fargli da trespolo, mentre la madre iniziò a preparare il pranzo, canticchiando tra sé e sé, ebbra della felicità che il ritrovamento del corvo le aveva donato.
Inaspettatamente, la ragazza sentì qualcuno bussare alla porta con insistenza, e si affrettò ad aprire, aspettandosi di trovare magari qualche amico del figlio, venuto a chiamarlo per giocare insieme. Al vedere la moltitudine di gente armata alla buona che attendeva impaziente sulla sua soglia, la ragazza si sentì mancare. Prima che lei potesse anche solo riprendersi dallo spavento, qualcuno la spinse da parte brutalmente, quindi la piccola folla iniziò a metterle a soqquadro la casa, con l'unico scopo di trovare il corvo. In un attimo il piccolo paradiso si era trasformato in un inferno. Il bambino, che dalla stanza di fianco aveva sentito dei rumori innaturali, si vide di fronte dei contadini inferociti, degli artigiani apparentemente fuori di senno, persino delle guardie cittadine, e scoppiò in lacrime dalla paura, con il solo risultato di ricevere una pesante sberla da uno dei presenti. Cadendo a terra per la violenza del colpo, sbatté con forza il volto contro una sedia di legno, perdendo conoscenza. Nessuno notò quella piccola sagoma inerte fino a che un miliziano non gli cadde accidentalmente addosso, frantumandogli la testa. Nel frattempo nessuno riusciva a trovare il corvo, nonostante ogni singola stanza fosse presidiata da almeno mezza dozzina di persone. Chi inciampava sui piedi del vicino, chi non riusciva quasi a respirare, ognuno però determinato nel cieco intento di stanare la Bestia, incurante di ogni altra cosa.
La padrona di casa era furtivamente scivolata fuori dal piccolo edificio, tremando per la paura e per la folle insensatezza che muoveva gli uomini dentro la sua abitazione. Conservando ancora un minimo di razionalità, non tentò di fermarli, credendo di conoscere i limiti ai quali l'animo umano riesce a spingersi.
Finalmente, qualcuno vide il corvo. Era semplicemente restato appollaiato sopra ad un armadio, senza muoversi di un solo palmo, ed aveva atteso pazientemente di essere trovato, senza mostrare alcun segno di paura. Quando gli vennero scagliate addosso forche, roncole e quant'altro di potenzialmente letale lui non abbandonò la propria posizione, né si spostò. Il lancio di oggetti finalmente si concluse, ed i presenti si accorsero con sgomento di non averlo colpito neppure una volta, nonostante avessero cercato di essere quanto più accurati possibile. Subito gli uomini iniziarono ad accusarsi a vicenda di non essere all'altezza del compito, arrivando in alcuni casi persino ad insultarsi tra compagni di lavoro o vicini di casa.
Raven osservava. Di quando in quando aveva visto quelle stesse persone che ora stavano litigando come dei bambini affrontare pericoli ben maggiori o situazioni critiche senza batter ciglio, l'uno fianco all'altro, uniti come un solo uomo. Chi era versato nella conduzione dei poderi veniva ascoltato attentamente da tutti gli altri come se fosse stato un santo, durante le battute di caccia c'era chi prendeva il comando in maniera spontanea, quasi come rispondendo ad una tacita elezione dei compagni, nella conduzione della città altri ancora venivano considerati e consultati con rispetto. Mentre in quel momento, che ognuno aveva desiderato ardentemente di vivere in più di una occasione, quelle poche persone che riuscivano a pigiarsi in una piccola stanza non riuscivano ad accordarsi su una cosa semplice come catturare un corvo. Triste, Raven spiccò il volo, per posarsi sul pavimento della casa. Gli uomini, improvvisamente zittiti, si allontanarono da lui pieni di timore quindi, al vederlo immobile, si avvicinarono lentamente, finché non abbandonarono ogni paura, e gli gettarono addosso una rete da cinghiale, esultando per la vittoria conseguita. Grande fu il loro sgomento quando, al posto del corvo, trovarono un giovane ragazzo dagli occhi di fuoco.
Parte Terza
Capitolo Quinto
"Bestia, Demone! Ora riveli la tua vera forma!"
"Diavolo! Assassino! Figlio del Demonio!"
Un torrente di insulti si riversò su di Raven, che non fece una piega neppure quando i suoi cacciatori lo strattonarono a forza fuori della piccola casa. Cercando di non offrire resistenza, seguì tranquillo gli umani, senza proferir parola.
Al vedere la giovane padrona di casa per terra, in lacrime, un uomo di buon cuore le spiegò che il ragazzo era la forma umana di un Demone, che rubava l'anima ai morti, impedendo loro di riposare in pace. La donna fissò il contadino con uno sguardo carico di dolore, quindi scoppiò nuovamente in pianto, cercando di avvicinarsi alla rete ed a Raven, ma fu fermata da due guardie che le impedirono tassativamente ogni contatto con il Demone. La ragazza riuscì ad allungare una mano verso di lui, ma fu spinta lontano da uno dei miliziani, che non le riservò alcuna delicatezza. Ancora una volta a terra, lo sguardo di lei incrociò per l'ultima volta quello del corvo, e lo implorò silenziosamente di tornare da lei.
"Il Demone è stato catturato!"
"Bruci nelle fiamme dell'Inferno per tutto il male che ci ha fatto!"
Un piccolo corteo di popolani si incamminò dietro al gruppo dei temerari che avevano compiuto l'impresa, ed in breve si formarono veri e propri cori inneggianti contro Raven che, ancora impassibile, si incamminava lentamente verso ciò che gli uomini gli avrebbero riservato. Era strano vedere come certe persone, che prima lo rifuggivano come se il solo suo tocco potesse dispensare morte, ora gli stavano tutt'attorno, a tratti così vicine che quasi era impossibile evitare di urtarle, provocando nuove raffiche di ingiurie.
"Deve essere triste la vita degli umani" pensò il mutaforma, "se valutano ogni cosa in base a quello che i loro deboli occhi riescono a scorgere. D'altra parte, come posso io giudicarli, non conoscendoli? Essi rispettano le leggi della loro natura, esattamente come io rispetto quelle della mia"
Tra strattoni, spinte, persino qualche sputo, Raven era infine giunto all'imponente edificio delle prigioni pubbliche, che da poco occupava un'ala intera del nuovo castello che era stato fatto costruire dal rettore della città, "a scopi difensivi". Indubbiamente le mura imponenti e spesse avrebbero vanificato ogni avventato tentativo di assedio, permettendo alle milizie dei paesi vicini di intervenire, ma osservando meglio era facile accorgersi che nella piccola fortificazione non si sarebbe potuto trovare posto per tutta la popolazione, ma solo per un'irrilevante parte di essa. Il corvo prendeva atto di tutto ciò che scorgeva attorno a lui, per cercare di farsi un'idea di quella vita che aveva sempre desiderato di poter condividere, ma ad ogni passo che egli muoveva, tutto ciò che riusciva a scorgere lo disincantava, mostrandogli aspetti mai immaginati della società umana.
D'un tratto Raven si sentì spingere violentemente contro la guardiola di una torre, e sbatté violentemente la testa, perdendo parte della sua lucidità. Ebbe la vaga consapevolezza di un dialogo che si stava svolgendo attorno a lui, quindi venne nuovamente strattonato e trascinato per diverse rampe di scale, parte in salita e parte in discesa, quindi perse completamente la percezione degli spazi, e si lasciò andare, abbandonandosi ciecamente ai suoi carcerieri. Il suo cammino sembrò durare in eterno, finché, dopo essere stato sballottato e strattonato ora qua ora là, il suo corpo inerte venne sbattuto con noncuranza su di un gelido pavimento di pietra, quindi una pesante porta si richiuse alle sue spalle con diversi giri di chiave. Raven tentò di aprire gli occhi, ma non riuscì a scorgere altro che nera oscurità, senza un solo filo di luce a rischiararla. Dopo una vita trascorsa sospeso tra il cielo e la terra, nella vastità del mondo, il mutaforma si sentì soffocare, oppresso dalla dimensione limitata della cella. In breve, il corvo non riuscì a mantenere l'autocontrollo, schiacciato da quello spazio opprimente, e cadde in un lungo delirio.
Di quando in quando, nei rari momenti in cui qualche stimolo esterno faceva ritrovare in lui qualche sentore di lucidità, Raven percepiva con chiarezza qualcuno che apriva il portone della sua gabbia e vi gettava dentro qualcosa di commestibile, ma neppure la fame che da giorni stava consumando il corvo riusciva a permettergli di ingerire del cibo comune. Ogni volta che il mutaforma tentava di mangiare qualcosa, violenti conati di vomito lo coglievano quasi prima che il boccone fosse stato adeguatamente masticato. Dopo innumerevoli tentativi Raven dovette arrendersi al volere del suo corpo, ancora legato ad invisibili catene.
Infine, quando delle guardie lo vennero a prendere, lo spettacolo che trovarono non fu dei migliori: in passato altri detenuti avevano sì perso la ragione, cadendo però in uno stato catatonico, mentre il mutaforma si era scagliato in un violento delirio contro le pareti della cella, provocandosi diverse fratture e ferite. Un po' dovunque si potevano chiaramente vedere schizzi di sangue, mentre i resti intonsi del cibo che giornalmente veniva portato al prigioniero emanavano un odore quanto mai sgradevole. Le guardie si affrettarono a trasferire Raven, questa volta senza troppo girare per le segrete: incatenato il mutaforma ed imboccata una stretta scala a chiocciola la percorsero sino alla sommità di una delle torri del castello, lasciando poi che altri si occupassero del Demone, come previsto.
Raven cercò di approfittare di quegli attimi di riposo per riprendere le forze, ma si sentì violentemente strattonare per i polsi, ancora trattenuti dal freddo acciaio, mentre qualcuno lo colpiva con violenza allo stomaco. Al vedere che il mutaforma non si alzava, l'uomo che lo teneva per le catene lo issò in piedi di peso, spingendolo poi all'interno di un'ampia camera con una immensa vetrata chiara su di un lato. Assicuratolo alle pareti con pesanti chiodi, fece spazio al compagno ammantato, che iniziò a salmodiare una blasfema nenia. Raven riconobbe istintivamente la magia che il suo carnefice stava intessendo, e cercò di ribellarvisi, senza però riuscire ad allontanarsi dal muro. Tirando violentemente con i polsi, dapprima il mutaforma sembrò riuscire ad allentare la presa delle catene, ma, sfinito dallo scatto isterico, non ebbe la forza di portare a compimento lo sforzo. Accasciatosi a terra, per quanto gli fosse possibile, Raven attese che il rito ebbe fine.
"Come ti senti, mutaforma?" la voce sferzante dell'uomo incappucciato era ironica e sferzante, e penetrò nella mente del ragazzo come un chiodo arrugginito, lacerandogli l'ultimo velo di razionalità rimasta.
"Non pensavo che la vostra libertà fosse questa" rispose a fatica Raven.
"La libertà… la libertà non è che una chimera, per quelli come te"
"Eppure quando volo verso il tramonto o quando inseguo la notte nel mio volo sono libero, sono parte del mondo"
"Questa non è libertà, questa è la vita pura e semplice. Tu non puoi avere altro, aberrazione della natura. Torniamo a noi, però. Spero che la tua permanenza si rivelerà piacevole, ora che ti sono interdette le tue abilità peculiari" proseguì il negromante, senza curarsi delle parole della sua vittima.
Avvicinandosi ad un tavolo, il mago vi sparse vari strumenti di diverse forme e dimensioni, iniziando poi con alcuni di essi ad incidere la carne di Raven, tra le sue urla di dolore. L'altro uomo osservava attonito la scena, la crudeltà del torturatore e l'immane resistenza del mutaforma, ma i suoi occhi dovettero volgersi da un'altra parte al vedere le brutalità inumane di cui era capace il compagno. Tra urla di dolore, di piacere e di odio la giornata infine ebbe termine, ed i due lasciarono la sala, lasciandosi alle spalle un corpo torturato e martoriato dai ferri ancora infissi nella carne.
Per Raven la notte sembrò essersi cristallizzata in un eterno dolore, in infiniti respiri di sangue e ferro che straziavano lentamente le sue membra e le sue ossa. Alcuni chiodi gli erano stati piantati nelle gambe e nelle braccia, mentre aveva lo stomaco semiaperto da un piccolo strumento. Diversi lembi di pelle del volto pendevano inerti, mentre diverse dita delle mani erano state rotte e quindi tormentate con dei bisturi. Il mutaforma cercò di non concentrarsi sul suo corpo fisico, ma il dolore era quasi insopportabile per poter essere dimenticato. L'incantesimo che impregnava la stanza gli impediva di guarire velocemente le ferite, e tantomeno di assumere le sembianze di corvo per fuggire nella notte. In altre circostanze Raven avrebbe riflettuto sulle fragili condizioni di vita dell'uomo, ma in quei momenti l'unica cosa che riusciva a stimolare la sua mente era cercare di sopravvivere alla tortura a cui era stato sottoposto. Nel disperato tentativo di sopravvivere alla notte il ragazzo cercò di rilassare ogni muscolo, per sentire meno i ferri infissi nella sua carne, ma quando riusciva a distendere una parte del corpo subito un'altra si contraeva, provocandogli ancora più sofferenza. Straziato dal supplizio, il mutaforma cercò di mantenersi lucido durante questa delicata operazione, ma improvvisamente perse il controllo, iniziando a muoversi convulsamente. Ad ogni piccola mossa il dolore si accresceva senza limiti, ed in breve Raven proruppe in un tormentato grido, che per diversi minuti si riuscì ad udire in tutto il paese. Una pietosa guardia riuscì a capire da dove provenisse quell'urlo e narcotizzò il ragazzo, donandogli, e donandosi, un minimo di riposo.
L'alba vide due uomini entrare a passo deciso in una cella alla sommità della torre del castello, mentre la loro vittima giaceva ancora inerte straziata dalla perversione di uno solo. Il carnefice ammantato si avvicinò al mutaforma, svegliandolo con due schiaffi, quindi tornò al suo tavolo per prendere nuovi strumenti con cui proseguire lo scempio del corpo suo prigioniero. Nuovamente di fronte a Raven, iniziò a schernirlo, mostrandogli da vicino che supplizi gli avrebbe inflitto prima di liberarlo di quei tormenti affinchè si potesse rimettere per nuove torture, in futuro. Mentre l'uomo parlava una strana luce febbrile brillò negli occhi del mutaforma, che fissava intensamente il negromante, senza perderlo di vista un solo istante. Senza preavviso, questi gli si avvicinò, al punto che le due teste si sarebbero quasi potute toccare.
"Che rabbia, per te, non poter evitare tutto questo… Eppure il tuo cibo, il tuo ristoro è qui, prendilo" l'uomo si era scostato il mantello dal volto, guardando il prigioniero nel profondo dei suoi occhi, cercando di fare in modo che lui si muovesse, infliggendosi da solo ulteriore dolore.
Raven lo osservò immobile per qualche istante quindi, senza preavviso, colpì il mago con una testata, una volta e poi altre ancora, fino a sfigurargli il volto ed a fracassargli il cranio, quindi iniziò ad accanirsi convulsamente contro il muro, fino a che anche la sua materia cerebrale non fu schizzata su tutta la parete e su buona parte del pavimento. La guardia, che aveva osservato tutta la scena, fuggì allibita, gridando di terrore.
Capitolo Sesto
Da giorni non si parlava che della cattura del corvo, la Bestia della Notte, il Demone, mentre la storia della donna che si era impiccata in casa sua, dove suo figlio era stato travolto dalla spedizione di caccia era passata completamente in secondo piano, quasi del tutto dimenticata. I vivi non avevano tempo per ricordare la morte.
Il garzone del becchino, pala in spalla, aveva appena terminato di seppellire il corpo del bambino, non senza lacrime di dolore, ma al posare gli occhi sulla sua giovane madre non poté trattenersi dal sobbalzare dallo spavento. Gli occhi della donna sembravano stati scavati via, mentre tre piccoli segni rossi spiccavano tra le sue guance pallide. Voltatosi verso est, come per un presentimento, il ragazzo scorse la sagoma di un di corvo che volava incontro al sole morente.
Raileen Whisperwind